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Full text of "L'Odissea di Omero"

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'L'ODISSEA ^ 



I>1 OMERO 



TRADOTTA 



DA 



IPPOLITO PINDEMONTE 



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MILANO -: , :' ; ' ; ; / 

CASA EOnRICIi: ITALIANA DI M. GUICOm 

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PUBLIC LIBRARY 

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AVTOR, LSr.'OX AMD 
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Tip. Guigoni 

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LIBRO PRIMO 



ARGOMENTO 

Proposisione del Poema. — Concilio degli Dei. ore 91 deteri 
mina il ritorno d'Ulisse. — Minerva discende in Itaca; e- 
sotto la figura di Mente re de* Tafl , conforta Telemaco di 
condursi a Pilo ed a Sparta, per sapere del padre . e per 
ÙLvaì anch*egli nel tempo stesso conoscere. — Banchetto de' 
Proci, cioè di coloro che richiedon Penelope in moglie. — 
Femio Ti canta il funesto ritorno de* Greci da' Troia ; e Pe- 
nelope , che ode il canto dalle sue stanxe , ne cala giù con 
due ancelle, e prega Femio di prèndere un altro tema. — 
Telemaco parla con fermezza alla madre , ed ai Proci in- 
tima un parlamento pel giorno seguente, e nella sua stanza 
ritirasi a riposare. 

Musa, quell'uom di moltiforme ingegno 
Dimmi, che molto errò, poich' ebbe a terra 
Gittate d'Ilion le sacre torri; 
Che città vide molte, e delle genti 
L'indol conobbe; che sovr* esso il mare 
Molti dentro del cor sofferse affanni, 
Mentre a guardar la cara vita intende, 
E i suoi compagni a ricondur: ma indarno 

[ C^icondur desiava i suoi compagni, 

,^phe delle colpe lor tutti perirò. 

^^Stoltil'che osaro violare i sacri 

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CO. 



6 ODISSEA (v. 12-47) 

Al Sole Iperion candidi buoi 
Con empio dente, ed irritaro il Nume, 
Che del ritorno il di lor non addusse. 
Deh parte almen di si ammirande cose 
Narra anco a noi, di Giove figlia e Diva. 

Già tutti i Greci, che la nera Parca 
Rapiti non avea, ne' loro alberghi 
Fuor dell'arme sedeano, e fuor dell'onde. 
Sol dal suo regno e dalla casta donna 
Rimanea lungi Ulisse : il ritenea 
Nel cavo sen di solitarie grotte 
La bella renerabile Calipso, 
Che unirsi a lui di maritali nodi 
Bramava pur, Ninfa quantunque e Diva. 
E poichò giunse al fin, volvendo gli anni, 
La destinata dagli Dei stagione 
Del suo ritorno in Itaca, novelle 
Tra i fidi amici ancor pene durava. 
Tutti pietà ne risentian gli Eterni, 
Salvo Nettuno, in cui l'antico sdegno 
Rrima non si stancò, che alla sua terra 
Venuto fosse il pellegrino illustre. 
Ma del mondo ai confini, e alla remota 
Gente degli Etìopi in duo divisa, 
Vèr cui quinci il sorgente ed il cadente 
Sole gli obbliqui rai quindi saetta, 
Nettun condotto a un'ecatombe s'era 
Di pingui tori e di montoni; ed ivi 
Rallegrava i pensieri a mensa assiso. 
In questo mezzo gli altri Dei raccolti 
Nella gran reggia dell'olimpio Giove 
Stavansi; e primo a favellar tra loro 
Fu degli uomini il padre e de' Celesti, 
Che il bello Egisto rimembrava, a cui 
Tolto avea di sua man la vita Oreste, 
L'inclito figlio del più vecchio Atride, 

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(v. 48-83) LIBRO I. 7 

Poh! disse Giove, incolperà l'uom danqoe 
Sempre gli Dei? Qaando a so stesso i mali 
Fabbrica, de' suoi mali a noi dà carco, 
£ la stoltezza sua chiama destino. 
Così, non tratto dal destino, Egisto 
Disposò d'Agamennone la donna, 
E lui da Troia ritornato spense; 
Benché ccmscio dell'ultima ruina 
Che TArgicida esplorator Mercurio, 
Da noi mandato, prediceagli. Astienti 
Dal sangue d^U^Atride, ed il suo letto 
Guardati di jsafir, che alta vendetta 
Ne farà Oreste, ce^me il volto adorni 
Della prima lanugine, e lo sguardo 
Verso il retaggio de' suoi padri volga. 
Ma questi di Mercurio utili avvisi 
Colui nell'alma non accolse: quindi 
Pagò il fio d'ogni colpa in un sol punto. ^^ 

Di Saturno figliuol, padre de* Numi, 
Re de' regnanti, cosi a lui rispose 
L'occhiazzurra Minerva, egli era dritto 
Che colui non vivesse: in simil foggia 
Pera chiunque in simil foggia vive. 
Ma io di doglia per l'egregio Ulisse 
Mi struggo. Lasso I che da' suoi lontano 
Giorni conduce di rammarco in quella 
Isola che del mar giace nel cuore, 
E di selve nereggia: isola, dov/ 
Soggiorna entro alle sue celle secreto 
L' immortai 'figlia di quel saggio Atlante 
Che del mar tutto i pit riposti fondi 
Conosce, e regge le colonne immense ,/ 
Che la volta sopportano del cielo. 
Pensoso, incòjisolabile, l'accorta ^ 
Ninfa il ritiene, e con soavi e molli 
Parolette carezzalo, se mai 

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8 ODISSEA (v, 84-119) 

Potesse Itaca sua trargli del petto : ^ 

Ma ei non brama che veder dai tetti 

Sbalzar della sua dolce Itaca il fumo, 

E poi chiuder per sempre al giorno i lumi. 

Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti? 

Grati d'Ulisse i sacrifici al greco 

Navile appresso ne' Troiani campi 

Non t'eran forse? Onde rancor sì fiero, 

Giove, centra lui dunque in te s'alletta? - 

Figlia, qual ti lasciasti uscir parola 
Dalla chiostra de' denti? allor riprese 
L'eterno delle nubi addensatore. 
Io l'uom preclaro disgradir« che in senno 
Vince tutti i mortali, e gl'Immortali 
Sempre onorò di sagrifici opimi? 
Nettuno, il Nume che la terra cinge. 
D'infuriar non resta pel divino 
Suo Polifemo, a cui lo scaltro Ulisse 
Dell'unic' occhio vedovò la fronte, 
Benché possente più d'ogni Ciclopc: 
Pel divin Polifemo, che Toosa 
Partorì alnume, che pria lei soletta 
Di Forco, re degl' infecondi mari. 
Nelle cave trovò paterne grotte. 
Lo scotitor della terrena mole 
Dalla Patria il disvia da queir istante. 
E, lasciandolo in vita, a errar su i neri 
Flutti lo sforza. Or via, pensiam del modo 
Che l'infelice rieda, e che Nettuno 
L'ire deponga. Pugnerà con tutti 
Gli Eterni ei solo? Il tenterebbe indarno. 

Di Saturno figliuol, padre de' Numi/ 
De* regi Re, replicò a lui la Diva 
Cui ti4ge gli occhi un' azzurrina luce, 
Se il ritorno d'Ulisse a tutti aggrada, 
Che non s'invia nell'isola d'Ogige 

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(v. 120-155) LIBRO X. 9 

L'ambasciatop Mercurio, il qual veloce 

Eechi alla Ninfa dalle belle trecce, 

Com* è fermo voler de' Sempiterni 

Che Ulisse al fine il natio suol rivegga? 

Scesa in Itaca intanto, animo e forza 

Nel figlio io spirerò, perch' ei, chiamati 

Gli Achei criniti a parlamento, imbrigli 

Que* Proci baldi cbelfòl suo palagio 

L'intero gregge sgozzangli^ .e l'armento 

Bai piedi torti ^ dalle torte coi^n^. 

Ciò fatto, a Pilo io manderpHo e a^ Sparta , 

Acciocché sapiJià-del suo. pajo^d^re; 

Se udirne gli avv^ni^e in qtfaicBe narte,^ 

Ed anch' ei fan)a^ viaggiando acquisti. 

Detto così,^sotto l'etèrne pianta 
Si stnnse i bei talar d'oro, immortali , 
Che lei sul mar, lei su l' immensa terra 
Col soffio trasportavano del vento. 
Poi la grande afferrò lancia pesante, 
Forte, massiccia, di appuntato rame 
Guernita in cima, onde le intere doma 
Falangi degli eroi, con cui si sdegna, 
E a cui sentir fa di qual padre è nata. 
Dagli alti gioghi del beato Olimpo 
Rapidamente in Itaca discese, 
Si fermò all'atrio del palagio in faccia, 
Del cortil nu la soglia, e le sembianze 
Vestì di Mente, il condottier de'Tafi. 
La forbita in sua man lancia sfavilla. 

Nel regale atrio, e su le fresche pelli 
Degli uccisi da lor pìngui giovenchi 
Sedeano, e trastullavansi tra loro 
Con gli schierati combattenti bossi 
Della Regina i mal vissuti drudi. 
Trascorrean qua e là serventi e araldi 
Frattanto: altri mescean nelle capaci 

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lo ODISSÈA (v. 156.19Ì) 

Urne l'umor deiruva e il fresco fonte; 
Altrrie mense con forata e ingorda 
Spugna tergeano, e le metteane^^ innanzi, 
E le molte pHì*tian fumanti carili. ^ 
Simile a un Dia nella beltà, ma Tieto 
Non già dentro del sen, sedea tra i Proci 
Telemaco : mirava entro il suo spirto 
L'inclito genitor, qual s'ef, d'alcuna 
Parte spuntando, a Sbaragliar si desse 
Per l'ampia sala gli abborriti prenci,^ 
E l'onor prisco a ricovrare e il regno.. ^ 
Fra cotali pensier Pallade scoese, 
Né soffrendogli il cor che lo straniero 
A. cielo aperto lungamente stesse. 
Dritto uscì fuor, s'accostò ad essa, prese 
Con una man la sua, con Taltra l'asta, 
E queste le drizzò parole alate;. 
Porestier, salve. Accoglimento amico 
Tu avrai, sporrai le brame tue: ma prima 
Vieni i tuoi spirti a rinfrancar col cibo. 
Ciò detto, innanzi andava ed il seguià 
Minerva. Entrati nell'eccelso albergo, 
Telemaco portò Tasta, e appoggioUa 
A sublime colonna, ove in astiera 
Nitida molte dell'invitto Ulisse 
Dormiano arme simili. Indi a posarsi 
* Su nobii seggio con sgabello ai piedi 
La Dea menò, stesovi sopra un vago 
Tappeto ad arte intesto; e un variato 
Scanno vicin di lei pose a sé stesso. 
Cosi, scevri anibo dagli arditi Proci, 
Queir impronto frastuon l'ospite a mensa 
Non disagiava; e dell'assente padre 
Telemaco potea cercarlo a un tempo. 
Ma scorta ancella da bel vaso d'oro 
Purissim' onda nel bacil d'argento 

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(V. 192-227) LIBRO L 11 

Versava, e stendea loro an liscio desco, 

Sa cui la saggia dispensiera i pani 

Venne a impor candidissimi, e di pronte 

Dapi serbate generosa copia; 

B carni d'ogni sorta in larghi piatti 

Recò l'abile scalco, ed auree tazze , 

Che del succo de' grappoli ricolme 

Lor presentava il banditor solerte. 

Entraro i Proci, ed i sedili e i troni 

Per ordine occupare: acqua gli araldi 

Diero alle mani, e di recente pane 

I rotondi canestri empier le ancelle. 

Ma in quel che i Proci all'imbandito pasto 

Stendean la man superba, incoronare 

Di vermiglio licer l'urne i donzelli. 

Tosto che in lor del pasteggiar fa pago. 

Pago del bere il naturai talento, 

Volgeano ad altro il core : al canto e al ballo 

Che gli ornamenti son d'ogni convito. 

Ed un'argentea cetera l'araldo 

Porse al buon Femio, che per forza il canto 

Tra gli amanti sciogliea. Mentr' ei le corde 

Ne ricercava con maestre dita, 

Telemaco piegando in vèr la Dea 

Si, che altri udirlo non potesse, il capo, 

Le parlava in tal guisa: Ospite caro, 

Ti sdegnerai se l'alma io t'apro? in mente 

Non han costor che suoni e canti. Il credo. 

Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi 

Di tal, le cui bianche ossa in qualche terra 

Giacciono a imputridir sotto la pioggia, 

le volve nel mare il negro flutto. 

Ma s'egli mai lor s'affacciasse un giorno 

Ben più che in dosso i ricchi panni e l'oro, 

Aver l'ali vorrebbero alle piante. 

Vani desiri i una funesta* morte 

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12 ODISSEA (v. 228-26 

Certo ei trovò, speme non resta, e invano 
Favelleriami alcun del suo ritorno: 
Del suo ritorno il di piti non s'accende. 
Su via, ciò dimmi, e non m'asconder nulla 
Chi? di che loco? e di che sangue sei? 
Con quai nocchier venistù, e per quàl mod 
E su qual nave, in Itaca? Pedone 
Giunto per alcun patto io non ti credo. 
Di questo ancor tu mi contenta: nuovo 
Giungi, o al mio genitor t'unisce il nodo 
Dell'ospitalità? Molti stranieri 
A' suoi tetti accostavansi; che Ulisse 
Voltava in sé d'ogni mortale il core. 
Tutto da me, gli rispondea la Diva 
Che' ceruleo splendor porta negli occhi. 
T'udrai narrare. Io Mente esser mi vanto, 
Figliuol d'Anchialo bellicoso, e ai vaghi 
Del trascorrere il mar Tafì comando. 
Con nave io giunsi e remiganti miei, 
Fendendo le salate onde vèr gente 
D'altro linguaggio, e a Temesa recando 
Ferro brunito per temprato rame, 
Ch'io ne trarrò. Dalla città lontano 
Fermossi, e sotto il Neo frondichiomoso 
Nella baia di Retro il mio naviglio. 
Sì, d'ospitalità vincol m'unisce 
Col padre tuo. Chieder ne puoi l'antico 
Restringendoti seco, eroe Laerte, 
Che a città, com'è fama, or piti non viene. 
Ma vita vive solitaria e trista 
Ne' campi suoi con vecchierella fante. 
Che, quandunque tornar dalla feconda 
Vigna, per dove si trae a stento, il vede. 
Di cibo il riconforta e di bevanda. 
Me qua condusse una bugiarda voce. 
Fosse il tuo padre in Itaca, da cui 

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(t. 264-299) LIBRO i. 13 

Stornanlo i Nami ancor; che tra gli estinti 
L'illustre pellegrin, no, non comparve. 
Ma vivo, e a forza in barbara contrada, 
Cui cerchia un vasto mar, gente crudele 
Rattienlo: lo rattien gente crudele 
Vivo, ed a forza in barbara contrada. 
Pur, benché il vanto di profeta, o quello 
D'augure insigne io non m'arroghi, ascolta 
Presagio non. fallace, che su i labbri 
Mettono a me gli Eterni. Ulisse troppo 
Non rimarrà della sua patria in bando. 
Lo stringessero ancor ferrei legami. 
Da quai legami uom di cotanti ingegni 
Disvillupparsi non sapria? Ma schietto 
Parla: sei tu vera sua prole? Certo 
Nel capo e ne* leggiadri occhi ad Ulisse 
Molto arieggi tu. Pria che per Troia, 
Che tutto a sé chiamò di Grecia il flore. 
Sciogliesse anch' ei su le cavate navi, 
Io, come oggi appo il tuo, cosi sedea 
Spesse volte al suo fianco, ed egli al mio. 
D'allora io non più luì, né me vid' egli. 

E il prudente Telemaco: Sincero 
Risponderò. Me di lui nato afferma 
La madre veneranda. E chi fu mai 
Che per sé stesso conoscesse il padre? 
Oh foss'io figlio d'un che una tranquilla 
Vecchiezza colto ne* suoi tetti avesse! 
Ma, poiché tu. mei chiedi, al piU infelice 
Degli uomini la vita, ospite, io deggio. 

Se ad Ulisse Penelope, riprese 
Pallade allor dalle cilestre luci, 
Ti generò, vollero i Dei che gisse 
Chiaro il tuo nome ai secoli più tardi. 
Garzon, dal ver non ti partir: che' festa, 
Che turba è qui? Qual ti sovrasta cura? 

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14 ODISSEA (v. 300-335) 

Convitto? No2Z6? Genial non parmi 
A carco di ciascun mensa imbandita. 
Parmi banchetto si oltraggioso e turpe, 
Che mirarlo, e non irne in foco d'ira, 
Mal può chiunque un'alma in petto chiuda. 

Ed il giovane a lui: Quando tu brami 
Saper cotanto delle mie vicende, 
Abbi, che al mondo non fu mai di questa 
Né ricca più nò più innocente casa. 
Finché quell'uomo il pie dentro* vi tenne. 
Ma piacque altro agli Dei, che, divisando 
Sinistri eventi, per le vie più oscure. 
Quel, che mi cuoce più, sparir mei fero. 
Piangerei, si, ma di dolcezza vóto 
Non f^ra il lagrimar, s'ei presso a Troia 
Cadea pugnando, o vincitor chiudea 
Tra i suoi più cari in Itaca le ciglia. 
Alzato avriangli un monumento i Greci, 
Che di gloria immortale al figlio ancora 
Stato sarebbe. Or lui le crude Arpie 
Ignobilmente per lo ciel rapirò: 
Peri non visto, non udito, e al figlio 
Sol di sturbi e di guai lasciò retaggio. 
Che lui solo io non piango: altre e non poche 
Mi fabbricare i Numi acerbe cose. 
Quanti ha Dulichio, e Same, e la boscosa 
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci, 
Ciascun la destra della madre agogna. 
Ella né rigettar può, né fermare 
Le inamabili nozze. Intanto i' Proci 
Da mane a sera banchettando, tutte 
Le sostanze mi struggono e gli averi; 
Né molto andrà che struggeran me stesso. 

S'intenerì Minerva, e: Oh quanto, disse 
A te bisogna il genitor che metta 
Lia ultrice man su i chieditori audaci! 

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(y. 336-371) libro i. 15 

Sol ch'ei con elmo e scudo, e con due lance 
Sul limitar del sao palagio appena 
Si presentasse, quale io prima il YiàU 
Che, ritornato d'Ef ra, alla nostra 
Mensa ospitai si giocondava assiso 
(Ratto ad Efira andò, chiedendo ad Ilo, 
Di Mermero al figliuol, velen mortale, 
Onde le frecce unger volea, veleno. 
Che non dal Mermerìde, in cui de' Numi 
Era grande il timor, ma poscia ottenne 
Dal padre mio che deramente amollo). 
Sol ch'ei cosi si presentasse armato. 
De' Proci non saria cui non tornasse 
Breve la vita e il maritaggio amaro. 
Ma venir debba di si trista gente 
A vendicarsi o no, su le ginocchia 
Sta degli Dei. Ben di sgombrarla quinci 
Vuoisi l'arte pensare. Alle mie voci 
Porrai tu mente? Come il ciel s'inalbi 
De' Greci i capi a parlamento invita. 
Ragiona franco ad essi e al popol tutto 
Chiamando i Numi in testimonio, e ai Proci 
Nelle lor case rientrare ingiungi. 
La madre, ove desio di nuove nozze 
Nutra, ripari alla magion d'Icario, 
Che ordinerà le sponsalizie, e ricca 
Dote apparecchierà, quale a diletta 
Figliuola è degno che largisca un padre. 
Tu poi se non ricusi un saggio avviso, 
Ch' io ti porgo, seguir, la meglio nave 
Di venti e forti remator guernisci, 
E, del tuo genitor molt'anni assente 
Novelle a procacciarti, alza le vele. 
Troverai forse chi ten parli chiaro, 
quella udrai voce fortuita in cui 
Spesso il cercato ver Giove nasconde. 

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16 ODISSEA (v. 372-4< 

Pria vanne a Pilo, e interroga Fantico 
Nestore: Sparta indi t'accolga, e il prode 
Menelao biondo, che dalFarsa Troia 
Tra i loricati Achivi ultimo giunse. 
Vive, ed è Ulisse in sul ritorno? un anno. 
Benché dolente, sosterrai. Ma dove 
Lo sapessi tra l'Ombre, in patria riedi 
E qui gli ergi un sepolcro^ e i più solenni 
Rendigli, qual si addice, onor funebri, 
E alla madre presenta un altro sposo. 
Dopo ciò, studia per qual modo i Proci 
Con inganno tu spegna, o alla scoperta: 
Che de* trastulli il tempo e de' balocchi 
Passò, ed uscito di pupillo sei. 
Non odi tu levare Oreste al cielo. 
Dappoi che uccise il fraudolento Egisto, 
Che il genitor famoso aveagli morto? 
Me la mia nave aspetta e i miei compagni 
Cui forse incresce questo indugio. Amico, 
Di te stesso a te caglia, e i miei sermoni 
Converti in opre: d'un eroe l'aspeito 
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni 
Porte ne' dì futuri anco il tuo nome. 

Voci paterne son, non che benigne, 
D'Ulisse il figlio ripigliava: ed io 
GuarderoUe nel sen tutti i miei giorni. 
Ma tu, per fretta che ti punga, tanto 
Fermati almen che in tepidetto bagno 
Entri, e conforti la dolce alma, e lieto 
Con un mio dono in man, torni alla nave: 
Don prezioso per materia ed arte. 
Che sempre in mente mi ti serbi; dono 
Non indegno d'un ospite che piacque. 

No, di partir mi tarda, a lui rispose ' 
L'occhicerulea Drva. Il bel presente i 

Allor l'accetterò, che, questo mare 

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(T. 408-443) LIBRO I. 17 

RinaTÌgando, per riporml in Tafo, 
T'offrirò un dono anch' io che al tuo non ceda. 
Cosi la Dea dagli occhi glauchi; e forza, 
Infondendogli, e ardire a Ini nel petto 
La per sé viva del suo padre immago 
Ravvivando piti ancora, alto levossi, 
E, veloce com' aquila, disparve. 

Da maraviglia, poiché seco in mente 
Ripetè il tutto, e s'avvisò del Nume, 
Telemaco fu preso: indi già fatto 
Di sé stesso maggior, venne tra i Proci. 
Taciti sedean questi, e nell'egregio 
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate 
Quel difficil ritorno che da Troia » 
Pallade ai Greci destinò crucciata, 
Della cetra d'argento al suon cantava. 
Nelle superne vedovili stanze 
Penelope, d'Icario la prudente 
Figlia, raccolse il divin canto, e scese 
Per l'alte scale al basso, e non già sola , 
Che due seguianla vereconde ancelle. 
Non fu de' Proci nel cospetto giunta, 
Che s'arrestò della Dedalea sala 
L'ottima delle donne in su la porta. 
Lieve adombrando l'una e l'altra gota 
Co' bei veli del capo, e tra le ancelle 
Al sublime cantor gli accenti volse. 
Femio, diss'ella, e lagrimava, Femio, 
Bocca divina, non hai tu nel petto 
Storie infinite ad ascoltar soavi 
Di mortali e di Numi imprese altere 
Per cui tocqan la cetra i sacri vati? 
Narra di quelle, e taciturni i prenci 
Le colme tazze votino, ma cessa 
Canzon molesta che mi spezza il cuore. 
Sempre che tu la prendi in su le corde; 
Oditfea 9 

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18 ODISSEA (v.r444-479) 

Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna 
Provossi, invase, mentre aspetto indarno 
Cotanti anni un eroe, che tutta empieo 
Del suo nome la Grecia, e eh' è il pensièro 
De' giorni miei, delle mie notti è il sogno. 

madre mia, Telemaco rispose. 
Lascia il dolce cantor che e* innamora 
Là gir co' versi dove l'estro il porta. 

I guai che canta, non li crea già il vate; 
Giove li manda, ed a cui vuole, e quando. 
Perchè Femio racconti i tristi casi 

De' Greci, biasmo meritar non parmi ; 
Che quanto agli uditor giunge più nuova, 
Tanto più" loro aggrada ogni canzone. 
Udirlo adunque non ti gravi, e pensa 
Che del ritorno il dì Troia non tolse 
Solo ad Ulisse; d'altri eroi non pochi 
Fu sepolcro comune. Or tu risali 
Nelle tue stanze, ed ai lavori tuoi. 
Spola e canocchia, intendi ; e alle fantesche 
Commetti, o madre, travagliar di forza. 

II favellar fra gli uomini assembrati 
Cura è dell'uomo, e in questi alberghi mia 
Più che d'ogni altro ; però eh' io qui reggo. 

Stupefatta rimase, e del figliuolo 
Portando in mezzo l'alma il saggio detto. 
Nelle superne vedovili stanze 
Ritornò con le ancelle. Ulisse a nome 
Lassù chiamava, il fren lentando ai pianto, 
Finché invidie l'occhiglauca Palla 
Sopitor degli affanni un sonno amico. 

1 drudi, accesi via più ancor, che prima 
Del desio delle nozze a quella vista. 
Tumulto fean per l'oscurata sala, 

E Telemaco ad essi: della madre 
Vagheggiatori indocili e oltraggiosi, 

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(V. 480515) LIBRO I. 19 

Diletto dalla mensa or si riceva, 

Né si schiamazzi mentre canta un vate 

Che uguale ai Numi stessi è nella Toce. 

Ma, riapparsa la bell'Alba, tutti 

Nel fòro aduneremci, ov* io^dirovvi 

Senza paurs», che di qua sgombriate; 

Che gavazziate altrove; che Tun l'altro 

Inviti alla sua volta, e il suo divori. 

Che se disfare impunemente un solo 

Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo 

Gli abitatori invocherò, né senza 

Fiducia, che il Saturnio a colpe tali 

Un giusto guiderdon renda, e che inulto 

Tinga un di queste mure il vostro sangue. 

Morser le labbra ed inarcar le ciglia 
A si franco sermon tutti gli amanti. 
E Antinoo, il fìgliuol d'Eupite: Di fermo 
A ragionar, Telemaco, con sensi 
Sublimi e audaci t'imparare, i Numi. 
Guaì, se il paterno scettro a te porgesse 
Nella cinta dal mare Itaca Giove! 

Benché udirlo, Telemaco riprese, 
Forse, Antinoo, t* incresca, io noi ti celo: 
Riceverolo dalla man di Giove. 
Parriati una sventura? Il più infelice 
Dal mio lato io non credo in fra i mortali 
Chi re diventa. Di ricchezza il tetto 
Gli splende tosto, e piU onorato ei vanne. 
Ma la cinta dal mare Itaca molti 
Si di canuto pel, come di biondo, 
Chiude, oltre Antinoo, che potran regnarla, 
Quando sotterra dimorasse il padre. 
Non però ci vivrà chi del palagio 
La signoria mi tolga, e degli schiavi, 
Che a me solo acquistò l'invitto Ulisse. 

Eurimaco di Polibo allor surse: 

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^0 ODISSEA (v. 516-551) 

Qual degli Achei sarà d'Itaca il rege. 
Posa de' Numi onnipossenti in grembo. 
Di tua magion tu il sei; né de* tuoi beni, 
Finché in Itaca resti anima viva, 
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono. 
Chi è quello strànier? Dond'ei partissi? 
Di qnal terra si gloria^ e di qual ceppo, 
Del padre non lontan forse il ritorno 
T'annunzia? o venne in' questi luoghi antico 
Debito a dimandar? Come disparve 
Ratto! come parea da noi celarsi! 
Certo d'uom vile non avea Taspetto. 

Ah, ripigliò il garzon, del genitore 
Svanì, figlio di Polibo, il ritorno! 
Giungano ancor no.velle, altri indovini 
L'avida madre nel palagio accolga, 
Né indovin più né piti novelle io curo. 
Ospite mio paterno è il forestiere. 
Di Tafo, Mente, che figiiuol si vanta 
Del bellicoso Anchialo, e ai Tafi impera* 
Tal rispondea: ma del suo cor nel fondo 
La calata di ciel Dea riconobbe. 

I Proci al ballo ed al soave canto 
Rivolti trastullavansì, aspettando 
Il buio della notte. Della notte 
Lor sopravenne il buio, e ai tetti loro 
Negli occhi il sonno ad accettar n'andaro. 
Telemaco a corcarsi, ove secreta 
Stanza da un lato del cortil superbo 
Per lui construtta si spiccava all'aura» 
Salse, agitando molte cose in mente. 
E con accese in man lucide faci 
Il seguiva Euriclèa, l'onesta figlia 
D'Opi di Pisenór, che già Laerte 
Col prezzo comperò di venti tori, 
Quando fìoriale giovinezza in volto: , 

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(v. 552-587) LIBRO i. 21 

Né cara men della consorte l'ebbe, 
Benché, temendo i coniugali sdegni, 
Del toccarla giammai non s'attentasse. 
Con accese il seguia lucide faci: 
Più gli portava amor, che ogni altra serva, 
Ed ella fu che il rallevò bambino. 
Costei gli apri della leggiadra stanza 
La porta: sovra il letto egli s'assiso; 
Levò la sottil veste a sé di dosso, 
E all'amorosa vecchia in man la pose, 
Che piegolla con arte, e alla caviglia 
L'appese accanto il traforato letto. 
Poi d'uscire affrettavasì: la porta 
Si trasse dietro per Fanel d'argento. 
Tirò là fune, e il chiavistello corse. 
Sotto nn fior molle di tessuta lana 
Ei Yolgea nel suo cor per queir intéra 
Notte il cammin che gli additò Minerva. 



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LIBRO SECONDO 



ARGOMENTO 

Convocasione del parlamento — Telemaco si richiama dei 
Proci al popolo, e agli ottimati. — Antinoo. capo di quelli 
il più temerario, ritorce V accusa contra la madre, e vuole 
eh* ei la costringa di scegliersi un nuovo marito tra essi, 
mercecchè il ritorno d'Ulisse non è più da sperarci. — Ma 
il figlio gli risponde, non dover far ciò. né potere. Giove 
manda due aquile; donde il vecchio Aliterse pronostica vi- 
cino il ritorno d'Ulisse; e n'è ingiuriato da Eurimaco. l'al- 
tro capo de' Proci, ma men ribaldo. — Dimanda che Tele- 
maco fa d'una nave per andare a Pilo ed a Sparta. — Men- 
tore si studia di eccitare il popolo contra i Proci; eLeo- 
crito il minaccia, e scioglie il parlamento. Telemaco, riti- 
ratosi in riva del mare , priega Minerva . che gli appare 
sotto la figura di Mentore, e l'assistenza sua gli promette. 
— Egli rientra nel palagio,- e richiede la nutrice Euricléa 
del viatico. — Dolore di questa per la partenza. — Giunta 
la notte, il giovinetto imbarcasi con Minerva, che, par sotto 
la figura di Mentore, l'accompagna. 

Come la figlia del mattin, la bella 
Dalle dita di rose Aurora surse, 
Sarse di letto anche il figliuol d'Ulisse, 
I suoi panni vestìy sospese il brando 
Per lo pendaglio all'omero; i leggiadri 
Calzari strinse sotto i molli piedi, 
E della stanza nsci rapidamente 
Simile ad un degl'immortali in volto, 
Tosto agli araldi dall'arguta voce 
^hiamare ìmpo36 i capelluti Aclùvi; 



(v. 11-46) LIBRO li. 23 

E questi, al gridar loro accorsi in fretta, 
Si ragunaro, s'affollare. Ei pure 
AI parlamento s'avviò: tra mano 
Stavagli un'asta di polito rame, 
E dae bianchi il seguian cani fedeli. 
Stupia ciascun, mentr'ei mutava il passo, 
E il paterno sedil, che dai vecchioni 
Gli fu ceduto, ad occupar sen già: 
Tanta in quel punto e si divina grazia 
Sparse d'intorno a lui Pallade amica. 

Chi ragionò primiero? Egizio. illustre. 
Che il dorso avea per l'età grande in arco, 
E di vario saver ricca la mente. 
Su le navi d'Ulisse alla feconda 
Di nobili destrier ventosa Troia 
Andò il più caro de* figliuoli, Antifo; 
E a lui dio morte nel cavato speco 
Il ciclope crudel, che la cruenta 
S'imbandì del suo corpo ultima cena. 
Tre figli al vecchio rimanean: l'un detto 
Eurinomo, co' Proci erasi unito, 
E alla coltura de* paterni campi 
Presedean gli altri due. Ma in quello, in quello 
Che più non ha, sempre s*affisa il padre. 
Che nel pianto i di passa, e che si fatte 
Parole allor, pur lagrimando, sciolse: 
O Itacesi, uditemi. Nessuna, 
Da che Ulisse levò nel mar le vele. 
Qui si tenne assemblea. Chi adunò questa? 
Giovane, o veglio? E. a che? Primo udì forse 
Di estrania gente che s'appressi armata? 
O d'altro, da cui penda il ben comune. 
Ci viene a favellar? Giusto ed umano 
Costui, penso, esser dee. Che che s'aggiri. 
Per la sua mente, il favorisca Giove! 

Telemaco gioia di tali, accenti, 

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24 ODISSEA (v. 47-82) 

Quasi d'ottimo angario, e sorto in piedi. 
Che il pungea d'arringar giovane brama, 
Trasse nel mezzo, dalla man del saggio 
Tra gli araldi Pisenore lo scettro 
Prese, e ad Egizio indi rivolto: 0, disse, 
Buon vecchio, non è assai quinci lontano 
L'uom che il popol raccolse: a te dinanzi. 
Ma qual, cui punge acuta doglia, il vedi. 
Non di gente che a noi s'appressi armata,. 
Né d'altro, da cui penda il ben comune 

10 vegno a favellarvi. A. far parole 
Vegno di me, d'un male, anzi di duo, 
Che aspramente m'investono ad un'ora. 

11 mio padre io perdei! Che il dico mio? 
Popol d'Itaca, il nostro: a tutti padre. 
Più assai che re, si dimostrava Ulisse. 

E a questa piaga, ohimè! l'altra s'arroge. 
Che ogni sostanza mi si sperde, e tutta 
Spiantasi dal suo fondo a me la casa. 
Noioso assedio alla ritrosa madre 
Poser de* primi tra gli Achivi i figli. 
Perchè di farsi a Icario, e di proporgli 
Trepidan tanto che la figlia ei doti, 
E a consorte la dia cui più vuol bene? 
L'intero dì nel mio palagio in vece 
Banchettan lautamente, e il fior del gregge 
Struggendo, e dell'armento, e le ricolme 
Della miglior vendemmia urne votando, 
Vivon di me: né v'ha un secondo Ulisse, 
Che sgombrar d'infra noi vaglia tal peste. 
Io da tanto non son, né uguale all' opra 
In me si trova esperienza e forza. 
Oh cosi le avess'io, com'io le bramo! 
Poscia che il lor peccar varca ogni segno 
E, che più m'ange, con infamia io péro. 
Deh s'accenda in voi pur nobil dispetto; 

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(v. 83-118) LIBRO li. 25 

Temete il biasmo delle genti intorno, 
Degrimmortàli Dei, non forse cada 
Delle colpe de* Proci in yoi la pena, 
L'ira temete. Per Tolimpìo Giove, 
Per Temi che i consigli assembra e scioglie 
Costoro, amici, d'aizzarmi contro 
Restate, e me lasciate a quello in preda 
Cordoglio sol, che il genitor mi reca. 
Se non che forse Ulisse alcuni offese 
De' prodi Achivi, ed or s'intende i torti 
Vendicarne sul figlio, E ben, voi stessi 
Stendete ai beni la rapace destra: 
Meglio fora per me, quando consunti 
Suppellettil da voi fessemi e censo. 
Da voi, dond'io sperar potrei restauro. 
Vi assalirei per la città con blande 
Parole ad uno ad un, né cesserei, 
Che tutto in poter mio pria non tornasse, 
E di nuovo s'ergesse in pie il mio Stato. 
Ma or dolori entro del petto, a cui 
Non so rimedio alcun, voi mi versate. 
Detto così gittò lo scettro a terra. 
Ruppe in lagrime d'ira, e viva corse 
Di core in cor nel popolo pietade. 

Ma taciturni, immoti, e non osando 
Telemaco ferir d'una risposta. 
Tutti staTano i Proci. Antinoo solo 
Sorse, e arringò: Telemaco, a cui bolle 
Nel petto rabbia che il tuo dir sublima, 
Quai parole parlasti ad onta nostra? 
Improntar sovra noi macchia si nera? 
Non i migliori degli Achei: la cara 
Tua madre, e l'arti, ond'è maestra, incolpa. 
Già il terzo anno si volse, e or gira il quarto, 
-Che degli amanti suoi prendesi gioco. 
Tutti di speme e d'impromesse allatta, 

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26 0DIS8BA (v. 119-154) 

Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core. 
Questo ancor non pensò novello inganno? 
Tela sottile, tela grande, immensa, 
A oprar si mise o a sé chiamonne, e disse: 
Giovani, amanti miei, tanto vi piaccia, 
Poiché già Ulisse tra i defunti scese. 
Le mie nozz» indugiar, ch'io questo possa 
Lugubre ammanto per Teroe Laerte, 
Acciò le fìla inutili io non perda. 
Prima fornir, che Tinelemente Parca 
Di lunghi sonni apportatrice il colga. 
Non vo' che alcuna delle Achee mi morda. 
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo. 
Fallisse un drappo in cui giacersi estinto. 
Coù simil fola leggiermente vinse 
Gli animi nostri generosi. Intanto, 
Finché il giorno splendea, tessea a tela 
Superba, e poi la distessea la no Ite 
Al complice chiaror di mute facifc 
Cosi un triennio la sua frode ascose, 
E deluse gli Achei. Ma come il quarto 
Con le volubil ore anno sorvenne. 
Noi, da un'ancella non ignara istrutti, 
Penelope trovammo, che la bella 
Disciogliea tela ingannatrice: quindi 
Compierla dovè al fin, benché a dispetto. 
Or, perché a te sia noto e ai Greci il tutto. 
Ecco risposta che ti fanno i Proci. 
Accommiata la madre, e quel di loro, 
Che non dispiace a Icario, e a lei talenta, 
A disposar costringila. Ma dove, 
Le doti usando, onde la ornò Minerva. 
Che man formelle così dotta, e ingegno 
Tanto sagace, e accorgimenti dielle. 
Quali non s'udir mai né dell'antiche 
Di Grecia donne dalle belle trecce, 

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;v. 155-190) LIBRO II. ZI 

Tiro, Alcmena, Micene, a cui le menti 
Di sì fini pensier mai non fiorirò; 
Bove credesse lungo tempo a bada 
Tenerci ancor, la sua prudenza usata 

Qui Tabbandoneria. Noi tanto il figlio 
Consumerem, quanto la madre in core 
Serberà questo suo, che un Dio le infuse, 
Strano proposto. Eterna gloria forse 
K so procaccerà, ma gran difetto 
Di vettovaglia a te; mentre noi certo 
Da te pensiam non istaccarci, s'ella 
Quel, che le aggrada più, pria non impalma. 

Io, rispose Telemaco, di casa 
Colei sbandir, donde la vita io tengo? 
Dal cui lattante sen pendei bambino? 
Grave in oltre mi fora, ov' io la madre 
Dipartissi da me, sì ricca dote 
Tornare a Icario. Crucceriasi un giorno 
L'amato genitor, che forse vive. 
Benché lontano, e punirianmi i Numi, 
' Perch* ella, slontanandosi, le odiate 
Imploreria vendicatrici Erinni. 
Che le genti dirian? No, tal congedo 
Non sarà mai ch'io liberi dal labbro. 
L'avete voi per mal? Da me sgombrate, 
Gozzovigliate altrove; alternamente 
L'un l'altro inviti, e il suo retaggio scemi. 
Che se disfare impunemente un solo 
Vi par meglio, seguite. Io dell'Olimpo 
Gli abitatori invocherò, né senza 
Speme che il Saturnide a tai misfatti 
La debita mercè renda, e che inulto 
Scorra nel mio palagio il , vostro sangue. 

Sì favellò Telemaco, e dall'alto 
Del monte due volanti aquile a lui 
Mandò l'eterno onmveggente Giove, 

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28 0DI8SBÀ (v. 191-226) 

Tra lor vicine, distendendo i vanni^ 
Fendean la vana regìon de* venti. 
Né prima fur dell'assemblea sul mezzo, 
Che si volsero in giro, e, Tali folte 
Starnazzando, e mirando a tutti in faccia. 
Morte augurare: al fin, poiché a vicenda 
Con l'unghie il capo insanguinato e il collo 
S'ebber, volare a destra e dileguarsi 
Della città su per gli eccelsi tetti. 
Maravigliò ciascuno; e ruminava 
Fra sé quai mali promettesse il fato. 

Quivi era un uom di molto tempo e senno, 
Di Mastore figliuol, detto Aliterse, 
Che nell'arte di trar dagli osservati 
Volanti augelli le future cose, 
Tutti vinceva i più canuti crini. 
Itacesi, ascoltatemi, e più ancora 
M'ascoltin, di^se, i Proci, a cui davante 
S'apre un gran precipìzio. Ulisse lungi 
Da' cari suoi non rimarrà molt'anni. 
Che parlo? ei spunta, e non ai soli Proci, 
Strage prepara e morte: altri e non pochi 
Che abitiam la serena Itaca, troppo 
Ci accorgerem di lui. Consuìtiam dunque 
Come gli amanti che pel meglio loro 
Cessar dovrian per sé, noi raffreniamo. 
Uom vi ragiona de' presagi esperto 
Per lunghissima prova. Ecco maturo j 

Ciò ch'io vaticinai quando per Troia I 

Scioglieano i Greci, e Ulisse anch'ei sarpava. 
Molti, io gridai, patirà duoli, e tutti 
Perderà i suoi: ma nel ventesìm' anno, I 

Solo e ignoto a ciascun, farà ritorno. i 

Già si compie l'oracolo: tremate. 

Folle vecchiardo, in tua magion ricovra, 
Eurimaco di Polibo rispose, : 

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(v. 227-262) LIBRO li. 29 

E oracoleggia ai figli tuoi, non forse 

Grl' incolga un di qualche infortunio. Assai 

Più là di te.n:ei vaticini io veggio. 

Yolan, riyolan mille augelli e mille 

Per l'aere immenso, e non dibatton tutti, 

Sotto i raggi del Sol penne fatali. 

Quinci lontano peri Ulisse. Oh fossi 

Tu perito con lui! Ohe non t'udrammo 

Profetare in tal guisa, e il furor cieco 

Secondar di Telemaco, da cui. 

Qualche don, credo, alle tue porte attendi. 

Ma oracol più verace odi. Se quanto 

D'esperienza il bianco pel t'addusse 

A sedurre il fanciullo e a più infiammarlo 

L'adopri, tu gli nuoci, a* tuoi disegni 

Non giovi, e noi tale ìmporremti multa. 

Che morte fiati il sostenerla, lo poi 

Tal consiglio al fanciul porgo: la madre 

Rimandi a Icario: che i sponsali e ricca, 

Qaal dee seguir una diletta figlia. 

Dote apparecchierà. Prima io non penso 

Che da questa di nozze ardua tenzone 

I figli degli Achei vorran giù tòrsi. 

Di nessun temiam, non, benché tanto 

Loquace, di Telemaco; né punto 

Del vaticinio ci curiam, che indarno 

T'uscii vecchio di bocca, e che fruttarti 

Maggiore odio sol può. Fine i conviti 

Non avran dunque, e non sarà mai calma, 

Finché d*oggi in doman costei ci mandi. 

Noi ciascun di contenderem per lei. 

Né ad altre donne andrem, quali ha l'Acaia 

Degne di noi, perchè cagion primiera. 

Dell' illustre contesa é la virtude. 

Eurimaco e voi tutti, il giovinetto 
Soggiu!U3e aUor, competitori alteri, 

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30 ODISSEA (v. 263-a 

Non più: già tutti il sanno, nomini e Dei. 
Or non tì chiedo che veloce nave 
Con dieci e dieci poderosi remi, 
Che sul mar mi trasporti. Ali-arenosa 
Pilo ed a Sparta valicare io bramo» 
Del padre assente per ritrar s' io mai . 
Trovar potessi chi men parli chiaro, 
quella udir voce fortuita in cui 
Spesso il cercato ver Giove nasconde. 
Vivrà? ritornerà? Benché dolente, 
Sosterrò un anno. Ma se morto e fatto 
Cenere il risapessi, al patrio nido 
Riederò senza indugio; e qui un sepolcro 
Gli iJzerò; renderògli i piti solenni 
Qual si convien funebri onori, e un altro 
Sposo da me riceverà la madre. 

Tacque e s'assise; e Mentore levossi^ 
Del padre *1 buon compagno, a cui su tutto 
Vegghiar, guardare il tutto, ed i comandi 
Seguitar di Laerte, Ulisse ingiunse. 
Quando per Talto sai mise la nave. 
Itacesi, tal parlava il saggio 
Vecchio, alle voci mie l'orecchio date. 
Né giusto più, né liberal, né mite. 
Ma iniquo, ma inflessibile, ma crudo 
D*ora innanzi un re sia, poiché tra gente 
Su cui stendea scettro paterno Ulisse, 
Più non s'incontra un sol cui viva in core. 
Che arroganti rivali ad opre ingiuste 
Trascorran ciechi della mente, io taccio. 
Svelgono, é ver, sin dalle sue radici 
La casa di quel grande, a cui disdetto 
Sperano il ritornar, ma in rischio almeno 
Pongon la vita. Ben con voi m* adiro, 
Con voi, che muti, ed infingardi e vili 
Vi state lì, né d'un sol motto il vostro 

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{v. 209S34)- tTBRO ti. 31 

Signore inclito aitate. Ohimè! dai pochi 
Restano 1 molti soverchiati e vinti. 

Mentor, non so qual piti, se audace o stolto , 
Leocrito d* E.venore rispose , 
Che mai dicesti! ? Centra noi tu ardisci 
Il popolo eccitar? Non lieve impresa 
Una gente assalir, che per la mensa 
Brandisca Tarmi, e i piacer suoi difenda. 
Se lo stesso re d'Itaca tornato 
Scacciar tentasse i banchettanti Proci, 
Scarso del suo ritorno avria diletto 
Questa sua donna che il sospira tanto, 
E morire il vedria morte crudele. 
Benché tra molti er combattesse: quindi 
Del tuo parlar la vanità si scorge. 
Ma su, via, dividetevi, e alle vostre 
Faccende usate vi rendete tutti. 
Mentore ed Aliterse, che fedeli 
A Telemaco son paterni amici, 
Gli metteran questo viaggio in punto. 
Bench'ei del padre le novelle, invece 
Di cercarle sul mar, senza fatica 
Le aspetterà nel suo palagio, io credo. 
Disse; e ruppe il concilio. I cittadini 
Scioglieansi Tun dall'altro, e alle lor case 
Qua e là s'avviavano: d'Ulisse 
Si ritirare alla magione i Proci. 

Ma dalla turba solitario e scevro 
Telemaco rivolse al mare i passi. 
Le mani asterse nel canuto ms^re , 
E supplicò a Minerva: Diva amica. 
Che degnasti a me ier scender dal cielo 
E fender Tonde m'imponesti, un padre 
Per rintracciar, che non ritorna mai, 
Il tuo solo favor puommi davante 
QV inciampi tór, che m' opporranno 1 Greci, 

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32 ^ 0DIS8BA <v. 335-370) 

E più, che altr* uom in Itaca, i malvagi 
Proci, la cui superbia ognor più monta. 

Cosi pregava; e se gli pose allato 
Con la faccia di Mentore e la voce 
Palla, e a nome chiamoUo, e feb tai detti: 
Telemaco, né ardir giammai nò senno 
Ti verrà men, se la virtù col sangue 
Trasfuse in te veracemente Ulisse, « 

Che quanto impreso avea, quanto avea detto, 
Compiea mai sempre. Il tuo viaggio vóto 
Non andrà, qual temer, dove tu figlio 
Non gli fossi, io dovrei. Vero è che spesso 
Dal padre il figlio non ritrae: rimane 
Spesso da lui lungo intervallo indietro, 
E raro è assai che il giungalo od il passi. 
Ma senno a te non verrà men, né ardire, 
Ed io vivere Ulisse in te già veggo. 
Lieto dunque degli atti il fine spera: 
Né t'anga il vano macchinar de' Proci, 
Che non sentono, incauti e ingiusti al paro. 
La nera parca che gli assai da tergo. 
Ed in un giorno sol tutti gli abbranca. 
Io, d'Ulisse il compagno, un tale aiuto 
Ti porgerò, che partirai di corto. 
Su parata da me celere nave, 
E con me stesso al fianco, in su la poppa. 
Orsù, rientra nel palagio, ai Proci 
Novamente ti mostra, ed apparecchia 
Quanto al viaggio si richiede, e il tutto 
Riponi: il bianco nelle dense pelli 
Gran macinato, ch^è dell'uom la vita, 
E nell'urna il licer che la rallegra. 
Compagni a radunarti in fretta io movo 
Che ti seguano allegri. Ha sull* arena 
Molte l'ondicerchiata Itaca navi 
Novelle e antiche : ne' salati fiutti 

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(v. 371-406)^ LIBRO IL 33 

Noi lancerem senza ritardo armata 
Qual miglior mi parrà veleggi atrice. 

Così di Giove la celeste figlia: 
Né più, gli accenti dalla Diva uditi, 
S'indugiava Telemaco. Al palagio, 
Turbato dalla mente ire affrettossi. 
E trovò i Proci, che a scoiar capretti, 
E pingui ad abbronzar corpi di verri. 
Nel cortile intendeano. Il vide appena 
Che gli fu incontro sogghignando, e il prese 
Per mano Antinoo, e gli parlò in tal guisa: 
molto in arringar, ma forte poco 
Nel dominar te stesso, ogni rancore 
Scaccia dal petto, e, qual solevi, adopra 
Da prode il dente, e i eolmi nappi asciuga. 
Tutto gli Achei t'allestiran di botto: 
Nave e remigi eletti, acciò tu possa 
Ratto varcando alla divina Pilo, 
Correr del padre tuo dietro alla fama. 

E Telemaco allor: sedermi a mensa. 
Con voi, superbi, e una tranquilla gioia 
Provarvi, a me non lice. Ah non vi basta 
Ciò che de* miei piti preziosi beni 
Nella prima età mia voi mi rapiste? 
Ma or ch'io posso dell'altrui saggezza 
Giovarmi, e sento con le membra in petto 
Cresciutami anco l'alma, io disertarvi 
Tenterò pure, o eh' io qui resti, o parta ; 
Ma parto, e non invan, spero: e su nave 
Parto non mia, quando al fìgliuol d'Ulisse, 
Né ciò sembravi sconcio, un legno manca. 
Tal rispose cruciato, e destramente 
Dalla man d'Antinòo la sua disvelse. 

Già il convito apprestavano, ed acerbi 
Motti scocca van dalle labbra i Proci. 
Certo, dicea di quei protervi alcuno, 



Oditsea ' r^r^r^T, 

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e 



34 ODISSEA (v. 407-442) 

Telemaco un gran danno a noi disegna. 

Da Pilo aiuti validi o da Sparta 

Menerà seco, però ch'ei non vive 

Che di sì fatta speme: o al suol fecondo 

D'Efira condurassi, e ritrarranno 

Fiero velen, che getterà nell' urne 

Con man furtiva; e noi berem la morte. 

E un altro ancor de' pretendenti audaci : 

Chi sa eh* egli non men, sul mar vagando, 

Dagli amici lontano un di non muoia. 

Come il suo geùitor? Carco più grave 

Su le spalle ne avremmo: il suo retaggio 

Partirci tutto, ma la casta madre, 

E quel di noi ch'ella scegliesse a sposo, 

Nel palagio lasciar sola con solo. 

Telemaco frattanto in quella scese 
Di largo giro, e di sublime volta 
Paterna sala, ove rai biondi e rossi 
L'oro mandava e l'ammassato rame; 
Ove nitide vesti, e di fragrante 
Olio gran copia chiudean l'arche in grembo; 
E presso al muro ivano intorno molte 
Di vino antico, saporoso, degno 
Di presentarsi a un. Dio, gravide botti . 
Che del ramingo, travagliato Ulisse 
Il ritorno aspettavano. Munite 
D'opportuni serrami eranvi, e doppie 
Con lungo studio accomodate imposte; 
Ed Euriclèa, la vigilante figlia 
D'Opi di Pisenorre il dì e la notte 
Questi tesori custodia col senno. 
Chiamolla nella sala, e a lei tai voci 
Telemaco drizzò: Nutrice, vino, 
Su via, m' attigni delicato, e solo 
Minor di quel che a un infelice serbi. 
Se mai, scampato dal destin di morte, 

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(T. 443-478) LIBRO u. 35 

Comparisce tra noi. Dodici n'empi 

Anfore, e tutte le suggella. Venti 

Di macinato gran giuste misure 

Versami ancor ne' fedeli otri, e il tutto 

Colloca in un: ma sappilo tu sola. 

Come la notte a le superne stanze 

La madre inviti, e al solitario letto, 

Per tai cose io verrò: che l'arenosa 

Pilo visitar voglio, e la ferace 

Sparta, e ad entrambe domandar del padre. 

Dio un grido, scoppiò in lagrime, e dal petto 

Eurielèa volar feo queste parole: 

Donde a te, caro figlio, in mente cadde 

Pensiero tal? Tu, Tunico rampollo 

Di Penelope, tu, la nostra gioia. 

Per tanto mondo raggirarti? Lungo 

Dal suo lido perì l'inclito Ulisse 

Fra estranio genti; e perirai tu ancora. 

Sciolta la fune non avrai, che i Proci 

Ti tenderanno agguati, uccideranti, 

E tutte partirannosi tra loro 

Le spoglie tue. Deh qui con noi rimani, 

Con noi qui siedi, e su i marini campi 

Che fecondi non son che di sventure. 

Lascia che altri a sua posta errando vada. 

Fa' cor, Nutrice, ei le risponde tosto: 
Senza un Nume non è questo consiglio. 
Ma giura che alla madre, ov' aura altronde 
Non le ne giunga prima e ten richiegga, 
Nulla dirai, che non appaia in cielo 
La dodicesim' aurora; onde col pianto 
Al suo bel corpo ella non rechi oltraggio. 

L'ottima vecchia il giuramento grande 
Giurò de* Numi ; e a lui versò ne* cavi 
Otri, versò nell'anfore capaci, 
Le candide farine e il rosso vino. 

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86 ODissBA (v. 478^514) 

Ei nella sala un' altra volta entrato 

Tra i Proci s'avvolgea: né in questo mezzo 

Stavasi indarno la Tritonia Palla. 

Vestite di Telemaco le forme, 

Per tutto si mostrava, ed appressava 

Tutti, e loro ingiungea che al mare in riva 

Si raccogliesser nottetempo, e il ratto 

Legno chiedea di Fronio, al figlio illustre 

A Noemón, cui non chiedealo indarno. 

S'ascose il sole, e in Itaca ornai tutte 

S'inombravan le vie.* Minerva il ratto 

Legno nel mar tirò, l'armò di quanto 

Soffre d'arnesi un' impalcata nave, 

E al porto in bocca l'arrestò. Frequenti 

Si raccoglieano i remator forzuti 

Sul lido, e inanimavali la Bea 

Ballo sguardo azzurrin, che altro disegno 

Concepì in mente. La magion d'Ulisse 

Ritrova, e sparge su i beenti Proci 

Tal di sonno un vapor, che lor si turba 

L'intelletto e confondesi, e di mano 

Casca sul desco la sonante coppa. 

Sorse, e mosse ciascuno al proprio albergo. 

Nò fu più nulla del sedere a mensa: 

Tal pondo stava su le lor palpebre. 

Ma Tocchiglauca Bea, ripreso il volto 

Bi Mentore e la voce, e richiamato 

Fuor del palagio il giovinetto, disse: 

Telemaco, ciascun de' tuoi compagni. 

Che d'egregi schinier veston le gambe. 

Già siede al remo, e, se tu arrivi, guarda. 

Ciò detto, la via prese, ed il garzone 
Seguitavano l'orme. Al mar calati 
Trovar sul lido i capelluti Achivi, 
Cui di tal guisa favellò la sacra 
Di Telemaco possa: Amici, in casa, 

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(v. 51&-548) LIBRO II. 37 

Quanto al cammìn bisogna, unito giace: 
Trasportarlo è mestieri. Né la madre 
Sa, nò, fuor che una, il mio pensier le ancelle. 
Tacque e loro entrò innanzi ; e quelli dietro 
Teneangli. Indi con le anfore e con gli otri 
Come d'Ulisse il caro figlio ingiunse, 
Tornaro, e il carco nella salda nave 
Deposero. Il garzon sopra vi salse 
Preceduto da Pallade, che in poppa 
S'assise; accanto ei le sedea: la fune 

I remiganti sciolsero, e montaro 

La negra nave anch'essi, e i banchi empierò. 
Tosto la Dea dalle cerulee luci 
Chiamò di verso l'Occidente un* vento 
Destro, gagliardo, che battendo venne 
Su pel tremulo mar l'ale sonanti. 
Mano, mano agli attrezzi, alior gridava 
Telemaco; ov'ò l'albero? I compagni 
L'udirò, e il grosso e lungo abete in alto 
Drizzare, e l'impiantavo entro la cava 
Base, e di corda l'annodaro al piede: 
Poi tiravano in su le bianche vele 
Con bene attorti cuoi. Gonfiò nel mezzo 
Le vele il vento; e forte alla carena 
L'azzurro mar romoreggiava intorno, 
Mentre la nave sino al fin del corso 
Su l'elemento liquido volava. 
Legati i remi del naviglio ai fianchi 
Incoronare di vin maschio l'arno, 
£ a ciascun degli Dei sempre viventi 
Libaro, ma più a te, figlia di Giove, 
Che le pupille di cilestro tingi. 

II naviglio correa la notte intera, 

E dei suo corso alfin giungea eoa l'alba. 



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LIBRO TERZO 



ARGOMENTO 

Arrivo di Tslemaco a Pilo, mentre ^Nestore i^griflcava so- 
lennemente a Nettuno. ->- Il Re lo accoglie cortesemente, 
Telemaco se gli da a conoscere, e dimandagli novella de- 
padre. — Nestore racconta ciò che nel ritorno da Troia èl 
avvenuto a sé e ad altri eroi della Grecia, fermandosi più 
a lungo sopra Agamennone. — Ma d'Ulisse nulla sa dirgli: 
bensì lo consiglia di andare a Sparta, e richiederne Mene 
lao, che giunse di fresco dopo un lungo viaggiò. — Spa 
risione di Minerva, che sotto la figura di Mentore avea ac- 
compagnato Telemaco. — Nestore , che la riconobbe , le fa 
il dì appresso un sacrifizio solenne : e commette a Pisi- 
strato, un de' suoi figli, di condurre a Sparta Telemaco so- 
vra un cocchio. — Partenza de* due garzoni su Talba del 
giorno seguente. 



Uscito dalle salse acque Termiglie 
Montava il sole per l'eterea volta 
Di bronzo tutta, e in cielo ai Dei recava, 
Ed agli uomini il di su Talma terra: 
Quando alla forte Pilo, alla cittade 
Fondata da Nelèo, giunse la nave. 
Stavano allor sacrificando i Pili 
.Tauri sul lido tutti negri al Dio 
Dai crini azzurri, che la terra scuote. 
Nove d'uomini squadre, e in ogni squadra 
Cinquecento seduti, e per ciascuna 
Svenati nove buoi, di cui, gustate 

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(v. 13-4é) LIBRO 111. 39 

Le interiora, ardean le cosce al Nume. 
La nave intanto d'ugual fianchi armata 
Se ne venia dirittamente a proda. 
Le vele ammainar, pigliare il porto, 
Nel lido si gittaro. Ei pur gittossi 
Telemaco, e Minerva il precedea. 
La Dea dagli occhi di ceruleo tinti, 
Che gli accenti al garzon primiera volse: 
Telemaco, depor tutta oggi ò d*uopo 
La pueril vergogna. Il mar passasti, 
Ma per udir dóve s'asconda e a quale 
Destin soggiacque il generoso padre. 
Su, dunque; dritto al domator t'avvia 
Di cavalli Nestorre, onde si vegga 
Quel ch'ei celato nella mente porta. 
Il ver da ìnu se tu nel chiedi, avrai; 
Poiché mentir non può cotanto senno. 

Il prudente Telemaco rispose: 
Mentore, per qual modo al Rege amico 
M'accosterò? Con qual saluto? Esperto 
Non sono ancor del favellar de* saggi, 
Né consente pudor, che a far parole 
Cominci col più vecchio il men d'etade. 

Ma di tal guisa ripigliò la Dea 
Cui cilestrino lume i rai colora : 
'^Telemaco, di ciò che dir dovrai. 
Parte da sé ti nascerà nel core. 
Parte nel cor la ti porranno i Numi. 
Che, a dispetto di questi in luce, io credo, 
Non ti mandò la madre, e non ti crehbe. 

Cosi parlando, frettolosa innanzi 
Palla si mise, ed ei le andava dopo. 
Fur tosto in mezzo all'assemblea de' Pili, 
Ove Nestor sedea co* figli suoi. 
Mentre i compagni, apparecchiando il pasto 
Altre avvampavan delie carni, ed altri 

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40 ODISSEA (v. 49-84) 

Nelli spiedi infilzavanle. Adocchiati 
Ebbero appena i forestier, che incontro 
Lor si fero in un gruppo, e gli abbracciaro, 
E a seder gl'invitaro. Ad appressargli 
Pisistrato fu il primo, un de' figliuoli 
Del Re. Li prese ambi per mano, e in molli 
Pelli onde attappezzata era la sabbia, 
Appo la mensa gli adagiò tra il caro 
Suo padre ed il germano Trasimede; 
Delle vìscere calde ad ambi porse ; 
E, rosso vin ijiescendo in tazza d*oro, 
E alla gran figlia dell'egioco Giove 
Propinando, stranier, dissele, or prega 
Dell'acque il Sir, nella cui festa i nostri 
Lidi cercando, t'abbattesti appunto, 
Ma, i libamenti, come più s'addice. 
Compiuti, e i prieghi, del licer soave 
Presenta il nappo al tuo compagno, in cui 
Pur s'annida, cred'io, timor de' Numi, 
Quando ha mestier de' Numi ogni vivente. 
Meno ci corse di vita, e d'anni eguale 
Parmi con me : quindi a te pria la coppa. 
E il soave lìcer le pose in mano. 

Godea Minerva che l'uom giusto pria 
Offerto il nappo d'oro avesse a lei, 
E subito a Nettun così pregava: ♦ 

Odi, Nettuno, che la terra cingi, 
E questi voti appagar degna. Eterna 
Gloria a Nestorre ed ai suoi figli in prima, 
E poi grata mercede a tutti i Pili 
Dell'inclita ecatombe. Al mio compagno 
Concedi in oltre e a me, che, ciò fornito 
Perchè venimmo su le patrie arene 
Con la negra torniam rapida nave. 

Tal supplicava, e adempiere intendea 
Questi voti ella stessa. Indi al garzone 

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(v. 65.120) LIBRO ni. 41 

La bella offri gemina coppa e tonda; 
Ed una eguai preghiera il caro figlio 
D'Ulisse alzò. S*abbrustolaro intanto 
Le pingui cosce, degli spiedi acuti' 
Si dispiccare, e si spartirò: al fine 
L'alto si celebrò prandio solenne. 

Giunto al suo fin, cosi principio ai detti 
Dava il Gerenio cavalier Nestorre : 
Gli ospiti ricercare allora è bello, 
Che di cibi e di vini hanno abbastanza 
Scaldato il petto, e rallegrato il core. 
Forestieri, chi siete ? e da quai lidi 
Prendeste a frequentar Tumide strade ? 
Trafficate voi forse? v'aggirate. 
Come corsali, che la dolce vita, 
Per nuocere ad altrui, rischian sul mare? 

Telemaco, a cui Palla un nuovo ardire 
Spirò nel seno, acciò del padre assente 
Nestore interrogasse, e chiaro a un tempo 
Di sé spargesse per le genti il grido: 
O degli Achei, rispose, illustre vanto, 
Di satisfare ai desir tuoi son presto. 
Giungiam dalla seduta a pie del Neo 
Itaca alpestre, ed è cagion privata 
Che a Pilo ci menò. Del padre io movo 
Dietro alla fama, che riempie il mondo, 
Del magnanimo Ulisse, onde racconta 
Pubblica voce che i troiani muri. 
Combattendo con teco, al suol distese. 
Degli altri tutti che co' Troi pugnare. 
Non ìgnoriam dove finirò i giorni, . 
Ma di lui GiovQ ancor la morte volle . 
Nasconderci; né alcun sin qui poteo 
Dir se in terra o sul mar, se per nemico 
Brando incontrolla, o alle irate onde in grembo. 
Eccomi or dunque alle ginocchia tue. 

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4à ODISSÈA (v. 121-156) 

Perchè tu la mi narri, o vista l'abbi 
Con gli occhi propri, o dalle labbra udita 
D'un qualche pellegrin ; però che molto 
Disventurato il partorì la madre. 
Nò timore, o pietà, del palesarmi 
Quanto sai, ti ritenga. Ah! se l'egregio 
Mio padre in opra o in detto unqua ti feo 
Bene o comodo alcun, là ne' troiani 
Campi che tinse il vostro sangue, o Greci, 
Tel rimembra ora, e non tacermi nulla. 
Ed il Gerenio cavalier Nestorre: 
Tu mi ricordi, amico, i guai, che molti 
Noi prole invitta degli Achei patimmo, 
quando erranti per le torbid'ondo 
Ce no andavam sovra le navi in traccia 
Di preda, ovunque ci guidasse Achille: 
. allor che pugnavam sotto le mura 
Della cittade alta di Priamo, dove 
Grecia quasi d*eroi spenta rimase. 
Là cadde Achille e il marziale Aiace, 
Là Patroclo nel senno ai Dei vicino, 
Queir Antiloco là forte e gentile. 
Mio diletto figliuol, che abil del pari 
La mano ebbe ai conflitti, e al corso il piede. 
Se tu, queste sciagure ed altre assai 
Per ascoltar, sino al quint'anno e al sesto 
Qui t'indugiassi, dalla noia oppresso 
Leveresti di nuovo in mar le vele. 
Ch'io non sarei del mio racconto a riva. 
Nove anni, offese macchinando, a Troia 
Ci travagliammo intorno ; e, benché ogni arte 
Vi s'adoprasse, d'espugnarla Giove 
Ci consenti nel decimo a fatica. 
Duce col padre tuo non s'ardia quivi 
Di accorgimento gareggiar: cotanto 
Per inventive Ulisse e per ingegni 

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{v. 157-192) Lififeo tiì. 43 

Ciascun vincea. Certo gli sei tu figlio, 

E me ingombra stopor, mentr'io ti guardo : 

Chò ì detti rassomigliansi, e ne' detti 

Tanto di lui tenere uom che d'etade 

Minor tanto è di lui, vero non parmi. 

L'accorto Ulisse ed io, nò in parlamento 

Mai nò in concilio, parlavam diversi ; 

Ma, d'unse mente con maturi avvisi 

Quel che dell'oste in prò tornar dovesse. 

Disegnavamo. Rovesciata l'alta 

Città di Priamo, e i Gròci in su le ratte 

Navi saliti, si divise il campo: 

Cosi piacque al Saturnio; e ben si vide 

Da quell'istante, che un ritorno infausto 

Ci destinava il Correttor del mondo. 

Senno non era nò giustizia in tutti: 

Quindi il malanno che su molti cadde, 

Per lo sdegno fatai dell'Occhiglauca 

Di forte genitor nata, che cieca 

Tra i due figli d'Atreo discordia mise. 

A parlamento in sul cader del Sole 

Chiamare incauti, e centra l'uso, i Greci, 

Che intorbidati dal vapor del vino 

Gli Atridi ad ascoltar trassero in folla. 

Menelao prescrivea che l'oste tutta 

Le vele aprisse del ritorno ai venti : 

Ma ritenerla in vece Agamennone 

Bramava, e offrir sacre ecatombe, il fiero 

Sdegno a placar dell'oltraggiata Diva. 

Stolto! che non sapea ch'erano indarno: 

Quando per fumo d'immolati tori 

Mente i Nami non cangiano in un punto. 

Così, garrendo di parole acerbe, 

Non si movean dal lor proposto. Intanto 

Con insano clamor sórser gli Achivi 

Ben gambierati; e l'un consiglio agli uni, 

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44 ODISSBA (v. 199-B28) 

L'altro agli altri piacea. Funeste cose 
La sotte in mezzo al sonno agìtayamo 
Dentro di noi : che del disastro il danno 
Giove ci apparecchiava. Il di comparso, 
Tirammo i legni nel divino mare, 
E su i legni velivoli le molte 
Robe imponemmo, e le altocinte schiave. 
Se non che mezza Toste appo TAtrìde 
Agamennón rimanea ferma: l'altra 
Dava ne' remi, e per lo mar pescoso, 
Che Nuttuno spianò, correa veloce. 
Tenedo preso, sagrifici offrimmo, 
Anelando alla patria: ma nemico 
Dagli occhi nostri rimoveala Giove, 
CRe di nuovo partì tra loro i Greci. 
Alcuni che d'intorno erano al ricco 
Di scaltrimenti Ulisse, e al Re de' Regi 
Gratificar volean, torsero a un tratto 
Le quinci e quindi remiganti navi ; 
Ma io de' mali che Tavverso Nume 
Divisava, m'accorsi, e con le prore. 
Che fide mi seguian, fuggii per l'alto. 
Fuggi di Tideo il bellicoso figlio, 
Tutti animando i suoi. L'acque salate 
Solcò pili lento, e in Lesbo al fine il biondo 
Menelao ci trovò, che della via 
Consigliavam : se all'aspra Chic di sopra, 
Psiria lasciando dal sinistro l^to, 
in vece sotto Chic, lungo il ventoso 
Mimanta, veleggiassimo. D'un segno 
Nettun pregammo: ci mostrò un segno, e il mare 
Noi fendemmo nel mezzo, e deU'£ubea 
Navigammo alla volta, onde con quanta 
Fretta si potea più, condurci in salvo. 
Sorse allora e soffiò stridulo vetito, 
Che volar per le aere onde, e nottami 

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(t. 229-264) LIBRO in. 45 

Sorger ci feo sovra Geresto, dove 
Sbareammo, e al Nume dagli azzurri crini, 
Misurato gran mar, molte di tori 
Cosce ponemmo in su la viva brace. 
Già il dì quarto splendea, quando i compagni 
Del prode ne* cavalli Diomede 
Le salde navi riposare in Argo ; 
Ed -io vèr Pilo sempre il corso tenni 
Con quel vento, cui pria mandato in poppa 
M'aveano i Numi, e che non mai s'estinse. 
Così, mio caro figlio, ignaro io giunsi, 
Né so nulla de* Greci o spenti o salvi. 
Ciò poi che intesi ne* miei tetti^ assiso, 
Celare a te certo non vuoisi. È fama 
Che^ felice ritorno ebber gli sporti 
Della lancia Mirmidoni, che il degno 
Figliuol guidava deiraltero Achille. 
Felice l'ebbe Filottete ancora. 
L'illustre prole di Peante. In Creta 
Rimenò Idomenèo quanti compagni 
Con la vita gli uscir fuori dell'arme: 
Un sol non ne inghiotti l'onda vorace. 
D'Agamennón voi stessi, e come venne, 
Benché lontani dimoriate, udiste, 
E qual gli tramò Egisto acerba morte. 
Ma già il fio ne pagò. Deh quanto è bello 
Che il figliuol .dell'estinto in vita resti ! 
Quel deirAtride vendicossi a pieno 
Dell'omicida fraudolento e vile, 
Che morto aveagli si famoso padre. 
Quinci e tu, amico, però ch'io ti veggio 
Di sembiante Aon men grande che bello, 
Fortezza impara, onde te pure alcuno 
Benedica di quei che un di vivranno. 

Nestore, degli Achei gloria immortale, 
Telemaco riprese, ei vendicossi, 

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46 ODissBA. (v. 265-d0( 

£ al cielo i Greci innalzeranlo, e il nome 
Nel canto se n'udrà. Perchò in me ancora 
Non infuser gli Dei tanto di lena, 
Che dell'onte de' Proci e delle trame 
Potessi a pieno ristorarmi anch'io? 
Ma non a me, non ad Ulisse e al figlio 
Tanta felicità dagl'Immortali 
Fu destinata ; e tollerar m'ò forza. 

Poiché tai mali, ripigliò Nestorre, 
Mi riduci alla mente, odo la casa 
Molti occuparti a forza, e insidiarti 
Vagheggiatori della madre. Dimmi: 
Volontario piegasti al giogo il collo? 

in odio, colpa d'un oracol forse, 

1 cittadini t'hanno? Ad ogni modo, 

Chi sa che il padre ne' suoi tetti un giorno 
Non si ricatti, o solo, o con gli Achivi 
Tutti al suo fianco, di cotanti oltraggi? 
Se te cosi Pallade amasse, come 
A Troia, duol de' Greci, amava Ulisse 
(Sì palese favor d'un Nume, quale 
Di Pallade per lui, mai non si vide). 
Se ugual di te cura prendesse, ai Proci 
Della mente uscirian le belle nozze. 

E d'Ulisse il figliuol: Tanto io non penso 
Che s'adempia giammai. Troppo dicesti, 
Buon vecchio, ed io ne maraviglio forte ; 
Che ciò bramar, non conseguir, mi lice, 
Non, se agli stessi Dei ciò fosse in grado. 

Qual ti sentii volar fuori de' denti, 
Telemaco, parola? allor soggiunse 
La Dea che lumi cilestrini gira. 
Facile a un Dio, sempre che il voglia, uom vivo 
Ripatrìar dai più remoti lidi, 
lo per me del ritorno anzi terrei 
Scorgere il di dopo infiniti guai, 

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(v. 961-336) LIBRO m. 47 

Cka rieder prima, e nel suo proprio albergo 
Cader, come d*£gisto, e delFlnfida 
Moglie per frode il miserando Atride. 
La morte sola, comun legge amara, 
Oli stessi Bei nò da un amato capo 
Distornarla potrian, quandunque sopra 
Gli venga in sua stagion l'apportatrice 
Di lunghi sonni disamabil Parca. 

E temo io ben, Telemaco rispose. 
Che una morte crudel, non il ritorno. 
Prefìssa gli abbia, o Mentore, il destino. 
Ma di questo non più; benché agli afflitti 
Parlare a un tempo e lagrimar sia gioia. 
Io Toglio d'altro dimandar Nestorre, 
Che Tede assai più là d*ogni mortale, 
E l'età terza, qual si dice, or regna. 
Tal che mirare in lui sembrami un Nume. 
Figlio di Neleo, il ver mi narra. Come 
Chiuse gli occhi Agamennone, il cui regno 
Stendeasi tanto? Menelao dov'era ? 
Qual morte al sommo Agamennone ordia 
L'iniquo Egisto, che di vita uom tolse 
Tanto miglior di so? Non era dunque 
Nell'Argo Acaica Menelao? Ma forse 
Lontano errava tra straniere genti, 
E quei la spada, imbaldanzito, strinse. 

Ed il Gerenio cavalier Nestorre : 
Figlio, quant'io dirò, per certo il tieni. 
Tu feristi nel segno. Ah I se l'illustre 
Menelao biondo, poiché apparve in Argo, 
Nel palagio trovava Egisto in vita. 
Non si spargea sul costui morto corpo 
Un pugno scarso di cavata terra : 
Fuor delle mura sovra il nudo campo 
Cani e augelli voravanlo, nò un solo 
Delle donne d*Acaia occhio il piangea. 

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48 ODISSEA '(v. 3S7-372) 

Noi sotto Troia, travagliando in armi, 

Passavan le giornate ; ed ei nel fondo 

Della ricca di paschi Argo tranquilla 

Con detti aspersi di dolce veleno 

La moglie dell' Atride iva blandendo. 

Rifuggia prima dall'indegno fatto 

La vereconda Clitennestra, e retti 

Pensier nutria, standole a fianco il vate, 

Cui di casta serbargliela l'Atride 

Molto ingiungea, quando per Troia sciolse. 

Ma, sorto il dì che cedere ad Egisto 

La infelice dovea, quegli, menato 

A un'isola deserta il vate in seno, 

Colà de' feri volator pastura 

Lasciollo, e strazio; e ne* suoi tetti addusse. 

Non ripugnante, l'infedel Regina. 

E molte cosce del cornuto armento 

Su l'are il folle ardea, sospendea molti 

Di drappi d'oro sfavillanti doni, 

Compiuta un'opra che di trarre a fine 

Speranza ebbe assai men, che non vaghezza, 

Già partiti di Troia, e d'amistade 

Congiunti, battevam lo stesso mare 

Menelao ed io ; ma divenimmo al sacro 

Promontorio d'Atene, al Sunio, appena. 

Che il suo nocchier, che del corrente legno 

Stava al governo, un'improvvisa uccise 

Di Febo Apollo mansueta freccia, 

L'onetoride Fronte, uom senza pari 

Co* marosi a combattere e co' venti. 

L'Atride, benché in lui gran fretta fosse. 

Si fermò al Sunio, ed il compagno piange, 

E d'esequie onorollo e di sepolcro. 

Poi, rientrato in mare, e al capo eccelso 

Giunto della Malèa, cammin felice 

Non gli donò l'onniveggente Giove. 

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(v. 3t*-4Ò8j i/iBRo in. 4§ 

Venti fltrideflti e smisurati datti, 
Che ai monti non cedean, contro gli mosse: 
E ne disgiunse i legni, e parte a Creta 
Ne spinse là 've albergano i Gìdoni 
Alle correnti del Giordano in riva. 
Liscia e pendente sovra il fosco mare 
Di Gortina al confìn sorge una rupe, 
Contro alla cui sinistra, e non da Festo 
Molto lontana punta, Austro i gran flutti 
Caccia ; li frange un piccoletto sasso. 
Là percotèndo si fiaccaro i legni, 
Scampate l'aline a gran fatica; e sola 
Cinque altre navi dall'azzurra prora 
Portò sovra l'Egitto il vento e l'onda. 
Mentre con queste Menelao tra genti 
D'altra favella s'aggirava, e forza 
Vi raccogUea di vettovaglia e d'oro, 
Tutti ebbe i suoi de^ir l'iniquo Egisto: 
Agamennóne a tradimento spense, 
Soggettossi gli Argivi, ed anni sette 
Della ricca Micene il fren ritenne. 
Ma l'ottavo anno ritornò d'Atene 
Per sua sciagura il pari ai Numi Oreste, 
Che il perfido assassin del padre illustre 
Spogliò di vita, e la funebre cena 
Agli Argivi imbandi per l'odiosa 
Madre non men, che per l'imbelle drudo. 
Lo stesso giorno Menelao "comparve, 
Tanta ricchezza riportando seco, 
Che del pondo gemean le stanche navi^ 
Piglio, non l'imitar, non vagar troppo, 
Lasciando in preda le sostanze ai Proci, - 
Che ciò tra lor che non avran consunto, 
Partansi, e il viaggiar ti torni dantio* 
Se non ch'io bramo, anzi t'esorto e stringo, 
Che il Re di Sparta trovi. Ei testé giunse, 
OdUua 4 

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50 ODISSEA (v, 409^444 

Donde altri , òhe in quel mar furia di crude 
Vento cacciasse, perderia la speme 
Di rieder piti: mar cosi immenso e orrendo 
Che nel giro d'un anno augel non varca. 
Hai nave ed hai compagni. E se mai fosse 
Più di tuo grado la terrestre via, 
Cocchio io darotti e corridori ; e i mìei 
Figli, che guideranti alla divina 
Sparta, ove il biondo Menelao soggiorna. 
Pregalo, e non temer che le parole 
Re si prudente di menzogna inveiva. 
Disse; e tramontò il Sole, e buio venne. 

Qui la gran Diva dal ceruleo sguardo 
Si frappose cosi : Buon vecchio, tutto 
Dicesti rettamente. Or via, le lingue 
Taglinsi, e di licer s'empian le tazze. 
Poscia, fatti a Nettuno e agli altri Numi 
I libamenti, si procuri ai corpi 
Riposo e sonno, come il tempo chiede. 
Già il Sol s'ascose, e non s'addice al sacro 
Troppo a lungo seder prandio solenne. 

Così Palla, né indarno. Acqua gli araldi 
Dier subito alle man, di vino l'urne 
Coronare i donzelli, ed il recaro. 
Con le tazze augurando, a tutti in giro. 
I convitati s'alzano, e le lingue 
Gittan sui fuoco, e libano. Libato 
Ch'ebbero, e a voglia lor tutti bevuto. 
Palla e d'Ulisse il deiforme figlio 
Ritirarsi voleano al cavo legno. 
Ma Nestore fermolli, e con gentile 
, Corruccio, Ah ! Giove tolga, e gli altri, disse, 
Non morituri Dei, ch'ire io vi lasci. 
Qual tapino mortale a cui la casa 
Di vestimenti non abbonda e coltri, 
Ove gli ospiti suoi, non ch'egli, avvolti 

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(v. 445^480) LIBRO ìit. 51 

Mollemente s*adclormino. Credete 

Che a me vesti. non sieno e coltri beUeT 

No, 8u palco di nave il figlio caro 

Di eotant'uom non giacerà, me vivo, 

E vivo nn sol de' figli miei, che quanti 

Verranno alle mie case ospiti accolga. 

O vecchio amico, replicò la Diva, 
Cui sfavilla negli occhi azzurra luce, 
Motto da te non s'ode altro che saggio. 
Telemaco, ubbidire io ti consiglio. 
Che meglio puoi ? Te dunque, oNestor, siegua^ 
E s'adagi in tua casa. Io ver la nave 
A confortar rivolgomi, e di tutto 
Gli altri a informar: però ch'io tutti vinco 
Qua* giovani d'età, che non maggiori 
Di Telemaco sono, e accompagnarlo 
YoUer per amistade. In sul naviglio 
Mi stenderò : ma, ricomparsa l'alba, 
A.Ì Caucòni magnanimi non lieve 
Per ricevere andrò debito antico. 
E tu questo garzon, che a te drizzossi. 
Nel cocchio manda con un figlio, e al cocchio 
De* corridori che in tue stalle nutri, 
I più ratti gli accoppia, e più gagliardi. 
Qui fine al dir pose la Dea cui ride 
Sotto lo ciglia un azzurrino lume, 
E si levò com'aquila, e svanio. 
Stupì chiunque v'era, ed anco il veglio, 
Visto il portento, «'ammirava: e, preso 
Telemaco per man, nomollo e disse: 
fien conosc'ora che dappoco e imbelle, 
Figliuol mio, non sarai, quando compagni 
Cosi per tempo ti si fanno i Numi. 
Degli abitanti dell'Olimpie case 
Chi altri esser porla, che la pugnace 
I Figlia di Giove, la tritonia Palla, 

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52 ODISSEA (7. 4«Ì*16) 

Che l*egrégìo tuo padre in fra gli Achivi 
Favori ognor? Propizia, o gran Regina, 
Guardami, e a me co* figli e con la casta 
Consorte gloria non vulgar concedi. 
Giovenca io t'offrirò di larga fronte, 
Che vide un anno solo, e ai giogo ancora 
Non sottopose la cervice indoma. 
Questa per te cadrà con le vestite 
Di lucid'oro giovinette corna. 

Tal supplicava, e Tudi Palla. Quindi 
Generi e figli al suo reale ostello 
Nestore precedea. Giunti, posaro 
Su gli scanni per ordine e su i troni. 
Il Re canuto un prezioso vino. 
Che dalla scoverchiata urna la fida 
•Custode attinse nell'undecim'anno, 
Lor mescea nella coppa, e alla possente 
Figlia libava deiregioco Giove, 
Supplichevole orando. E gli altri ancora 
Libare, e a voglia lor bebbero. Al fine 
Trasser, per chiuder gli occhi, ai tetti loro. 
Ma nella sua magione il venerato 
Nestore vuol che del divino Ulisse 
La cara prole in traforato letto 
Sotto il sonante portico s'addorma ; 
E) accanto a lui Pisistrato, di gente 
Capo, e il sol de' fìgliuoi che sin qui viva 
Celibe vita. Ei del palagio eccelso 
Si corcò nel più interno ; e la reale 
Consorte il letto preparògli e il sonno. 

Tosto che del mattin la bella figlia 
Con le dita rosate in cielo apparve, 
Surse il buon vecchio, usci del tetto, e innanzi 
S'assise all'alte porte in su i politi, 
Bianchi e d'unguento luccicanti marmi, 
«Su cui sedea, par nel consiglio ai Numit 

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(v. 517-562) LIBRO in. £3 

Neléo, che, Tinto dal destin di morte, 
Nelle case di Fiuto era già sceso. 
Nestore allora, guardian de' Greci, 
Lio scettro in man, sedeavi. I f gli, usciti 
Di loro stanza maritale anch'essi, 
Frequenti al Tecchio si stringeano intorno 
Gchefròne, Perseo, Strazio ed Areto, 
G il nobil Trasimede a cui s'aggiunse ' 
Sesto l'eroe Pisistrato. Menare 
D'Ulisse il figlio deiforme, e al fianco 
Collocarlo del padre, che le labbra 
In* queste voci aprì: Pigli diletti, 
Senza dimora il voler mio fornite. 
Prima tra i numi l'Atenèa Minerva 
Non degg'io venerar che nel solenne 
Banchetto sacro manifesta io vidi? 
Un di voi dunque ai verdi paschi vada 
Perchè tirata dal bifolco giunga 
Katto la vaccherella. Un altro mova 
Dell'ospite alla nave, e, salvo due. 
Tutti i compagni mi conduca. E un terzo 
Laerce chiami, l'ingegnoso mastro. 
Della giovenca ad inaurar le corna. 
Gli altri tre qui rimangano, e all'ancelle 
Faccian le mense apparecchiar, sedili 
Apportar nel palagio, e tronca selva 
£ una pura dal fonte acqua d'argento. 

Non indarno ei parlò. Venne dal campo 
La giovinetta fera, e dalla nave 
Dell'ospite i compagni; il fabbro venne 
Tutti recando gli strumenti e l'armi, 
L'incude, il buon martello e le tanaglie 
Ben fabbricate, con che l'or domava; 
Nò ai sacrifici suoi mancò la Diva. 
Nestore dio il metallo ; e il fabbro, come 
Pomato l'ebbe, ne vesti le corna 

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54 ODiMu (Y. £68.588 

Della giovenca, aeciocchò Palla visto 
Quel fulger biondo, ne gioiate in ocre. 
Per le corna la vittima Echefriéne 
Guidava, e Strazio: dalle stanze Areto 
Purissim'onda in un bacile a vaghi 
Fiori intagliato d'una man portava. 
Orzo dell'altra in bel canestro, e sale; 
Il bellicoso Trasimede in pugno 
Stringea l'acuta scure, che sul capo 
Scenderà della vittima ; ed il vaso 
Ohe il sangue raccorrà, Perseo tenea. 
Ma de' cavalli il domator, l'antico 
Nestore il rito cominciò: le mani 
S'asterse, sparse il salat'orzo, e a Palla 
Pregava molto, nell'ardente fiamma 
Lo primìzie gittando, i peli svelti 
Dalla vergine fronte. Alla giovenca 
S'accostò il forte Trasimede allora, 
E con la scure acuta onde colpilla, 
liei collo i nervi le recise, e tutto 
Svigorì il corpo : supplicanti grida 
Figliuole alzaro, e nuore, e la pudica 
Di Nestor nonna, Euridice, che prima 
Di Olimèn tra le figlie al mondo nacque. 
Poi la buessa, che giacca, di terra 
Sollevar nella testa, e in quel che lei 
Reggean così, Pisistrato scannella. 
Sgorgato il. sangue nereggiante, e scorso, - 
E abbandonate dallo spirto l'ossa. 
La divisero in fretta: ne tagliare 
Le intere cosce, qual comanda il rito. 
Di doppio le covrirò adipe, e i crudi 
Brani vi adattar sopra. Ardeale il veglio 
Su gli scheggiati rami, e le spruzzava 
Di rosso vin, mentre abili donzelli 
Spiedi teneazi di cinque punte in maoQt 

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Arse. le eosoe e i vìsceri gustati^ 
Mintiti pezzi fér dell'altro corpo 
Che rivolgeano ed abbrostiano infissi 
Negli acuti 0chidoBÌ. Polieasta, 
La minor figlia di Nestorre, intanto 
Telemaco lavò, di bionda Funse 
Liquida oliva, e gli vesti una fina 
Tunica e un ricco manto; ed egli emerae 
Fuor del tepido bagno agl'immortali 
Simile in volto, e a Nestore avvioea 
Pastor di genti, e gli s'assise al fianco. 

Abbrostite le carni ed imbandite, 
Sedeansi a banchettar : donzelli esperti 
Sorgeano, e pronti di vermiglio vino 
Ricolma van le ciotole dell'oro. 
Ma. poiché spenti i naturali furo 
Della fame desiri e della sete, 
Parlò in tal guisa il cavalier Nestorre : 
Miei figli, per Telemaco, sa, via, 
I corridori dal leggiadro crine 
Giungete sotto il cocchio. Immantinente 
Quelli ubbidirò, e i corridor veloci 
Giunser di fretta sotto il cocchio, in cui 
Candido pane e vin purpureo e dapi 
Quai costumano i Re di Giove alunni. 
La veneranda dispensiera pose. 
Telemaco salì, salì Pomata 
Biga con lui Pisistrato, di gente 
Capo, e accanto assettossigli ; e le briglie 
Nella man tolte, con la sfbrza al corso 
I cavalli eccitò, che alla campagna . 
Si gittàr lieti: de* garzoni agli occhi 
Di Pilo s'abbassavano le torri. 
Squassavano i destrier tutto quel giorno 
Concordi il giogo ch'era lor sul collo. 
Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade: • 

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56 ODISSEA (v. 625-641^ 

E i due giovani a Fera, e alla magione 
Di Diòcle arrivar, dei prode figlio 
Di Orsiloco d'Alfèo, dove riposi 
Ebber tranquilli ed ospitali doni. 

Ma, comeHÌel mattin la bella figlia 
Comparve in ciel con le rosate dita, 
Aggiogare i cavalli, e la fregiata 
Biga salirò, e del vestibol fuori 
La spinsero, e del portico sonante 
Scosse la sferra il Nestoride, e quelli 
Lietamente volare. I pingui campi 
Di ricca mèsse biondeggianti indietro 
Fuggian Tun dopo l'altro, e si veloci 
Gli allenati destrier movean le gambe. 
Che ritacense e il Pilìese al fine 
Del viaggio pervennero, ohe d*ombrà, 
Il Sol caduto, si copria la terra. 



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LIBRO QUARTO 



ARGOMENTO 

Telemaco e Pisistrato gioogono a Sparta nell* atto ohe M»> 
nelao celebrava le nozze del figlio Megapente e della fl- 
gliaola Ermione. — Menelao ed Elena il riconoscono age- 
volmente per figlio di Ulisse. •- Encomi di questo, e com- 
mozione in Telemaco, e negli altri ancora . sino alle lagri- 
me ; e ai^fizio d* Blena per raffrenarle. — Tutti Tanno a 
dormire. — Comparsa V aarora , Menelao ode da Telemaco 
con isdegao la insolenza de* Proci : ed a lui narra il suo 
viaggio in Egitto, e ciO chMvi intese da Ploteo intomo ad 
Agamennone, ad Aiace d* Oilèo . ed anche ad Ulisse. -* I 
Proci intanto risolvono d* insidiare Telemaco al tuo ritor- 
no, e d* ucciderlo. — Angoscia di Penelope che n* è infor* 
imita, e cui Pallade poi gon un sogno piacevole rioonlorta. 

Giunsero all'ampia, che tra i monti giace, 
Nobil Sparta, e le regali case 
Del glorioso Menelao trovare. 
Questi del figlio e della figlia insieme 
Festeggiava quel di le doppie nozze, 
E molti amici banchettava. L'una 
Spedia d'Achille al bellicoso figlio, 
Cui promessa l'avea sott'llio un giorno, 
Ed or compiano il maritaggio i Numi : 
Quindi cavalli e cocchi alla famosa 
Gittade de'Mirmìdoni condurla 
Doveano, e a Pirro che su lor regnava. 
E alla figlia d'Alettore Spartano 
L'altro, li ga^pliardo Megapente, unia, 

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58 OMSSBA (v. 15-50) 

Che d'una schiava sua tardi gli nacque: 
Poiché ad Elèna gl'immortali Dei 
Prole non concedean, dopo la sola 
D'amor degna Ermióne, a cui dell'aurea 
Venere. la beltà splendea nel volto. 

Cosi per l'alto spazioso albergo 
Rallegravansi assisi a lauta medsa 
Di Menelao gli amici ed i nimici; 
Mentre vate divin tra lor cantava, 
L'argentea cetra percotendo, e due 
Danzatori agilissimi nel mezzo 
Contempravano al canto i dotti salti. 

r^ell'atrio intanto s'arrestaro i figli 
Di Nestore e d'Ulisse. Eteonèo, 
Un vigil servo del secondo. Atride, 
Primo addocchiolli, e con l'annunzio corse 
De' popoli al pastore, ed all'orecchio 
Gli sussurrò così : Due forestieri 
Nell'atrio, o Menelao di Giove alunno, 
Copia d'eroi, che del Saturnio prole 
Sembrano in vista. Or di' : sciorre i cavalli 
Dobbiamo; o i forestieri a un altro forse 
Mancar de' Greci che gli accolga e onori? 

D' ira infiammossi, e in cotal guisa il biondo 
Menelao gli rispose: di Boète 
Figliuolo, Eteonèo, tu non sentivi 
Già dello scemo negli andati tempi, 
E or sembri a me bamboleggiar co' detti. 
Non ti sovvien quante ospitali mense 
Spogliammo di vivande anzi che posa 
Qui trovassimo al fin, se pur vuol Giovo 
Privilegiar dopo cotante pene 
La nostra ultima età? Sciogli i cavalli, 
E al mio convito i forestier conduci. 

Ratto fuor della stanza Eteonòo 
Lanciossi ; e tutti a so gli altri chiamavi^ 

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(t. .51-86) I4BÌU) IV. 1)9 

Fidi conservi, Distaccaro i forti 

Di sotto il giogo corridor sudaati, 

E al presepe gli avvinsero, spargendo 

Vena soave di bianc'orzo mista, 

E alla parete lucida il vergato 

Cocchio appoggiaro. Indi per Tanipie stanze 

Guidaro i novelli ospiti, che in giro 

D'inusitata moravìglia carche 

Le pupille movean: però che grande 

Grattava luce, qual di sole o luna, 

Del glorioso Menelao la reggia. 

Pel piacer sazi, che per gli occhi entrava. 

Nelle terse calai:* tepide conche ; 

E come fur dalle pudiche ancelle 

Lavati, di biond'olio unti, e di molli . 

Tunisie cinti e di vellosi manti. 

Si coUocaro appo TAtride. Quivi 

Solerte ancella da beiraureo vaso 

Nell'argenteo hacile un'onda pura 

Versava © stendea loro un liscio desco. 

Su cui la saggia dispensiera i pani 

Venne ad ixnpor bianchissimi e dì pronte 

Dapi serbata generosa copia; 

E d'ogni sorta carni in larghi piatti 

Recò Tabile scalco, e tazze d'oro. 

11 Re, stringendo ad ambidue la mano. 

Pasteggiate, lor disse, ed alla gioia 

Schiudete il cor; poscia, chi siete, udremo. 

De' vostri padri non s'estinse il nome, 

E da soettrati Re voi discendete. . 

Piante colali di radice vile. 

Sia loco al vero, germogliar non ponno. 

Detto così, l'abbrustolato tergo 
Dì pingue bue, che ad cuor grande innanzi 
Messo gli avean, d'in su la mensa tolse, 
£] innanzi il mise agli ospiti, che pronte 

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6Ó ODISBHA (▼. 87-122 

Steser le mani ali* imbandita fera. 
Ma de' cibi il desir pago e de' vini, 
Telemaco piegando in yér l'amico 
Si, cbe altri udirlo non potesse, il oapOf 
Tale a lui favellò: mira, o diletto 
Dell'alma mia, figlio di Nestor, come 
Di rame, argento, avorio, elettro ed oro 
L'echeggiante magion risplende intorno; 
Si fatta, io credo, ò dell'olimpio Giove 
L'aula di dentro. Oh gl'infiniti oggetti! 
Io meraviglio pit, quanto più guardo. 

L'intese il re di Sparta, e ad ambo disse: 
Figliuoli miei, chi garreggiar mai puote 
De' mortali con Giove? il suo palagio, 
Ciò ch'ei dentro vi serba, eterno è tutto. 
Quanto all'umana stirpe, altri mi vinca 
Di beni, o ceda, io so che molti affanni 
Durati, e molto navigato mare, 
Queste ricchezze l'ottavo anno addussi. 
Cipri, vagando, e la Fenicia io vidi, 
E ai Sidoni, agli Egizi e agli Etiopi 
Giunsi, e agli Erembi, e in Libia, ove le agnello 
Figlian tre volte nel girar d'un anno, 
E spuntan ratto agli agnellin le corna; 
Nò signore o pastor giammai difetto 
Di carne paté, o di rappreso latte, 
Ridondando di latte ognora i vasi. 
MentrMo vagava qua e là, tesori 
Raccogliendo, il fratello altri m'uccise 
Di furto, all' improvvista, e per inganno 
Della consorte maladetta; quindi 
Non lieto io vivo a questi beni in grembo. 
Voi, quai sieno, ed ovunque, i padri vostri, 
Tanto dalla lor bocca udir doveste. 
Che non soffersi? Ruinai dal fondo 
Casa di rìpchi arredi e d'agi colma; 

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(ir. 128-168) LIBRO iV; t\ 

Onde piacesse ai Dei ohe sol rìdìAfita 
Mi fosse in man delle tre parti Tana, 
E spirasser le. vive aare que' prodi 
Che Inngi dalla verde Argo ferace 
Ne* lati campi d'Ilion perirò! 
Tatti io li piango, e li sospiro tutti , 
Standomi spesso uè' miei tetti assiso, 
E or mi pasco di care, or novamente 
Piglio conforto; che non puote a lungo 
Viver l'uom'^di tristezza, e al fin molesto 
Torna quel pianto che fa in pria si dolce. 
Pare io di tutti in un cosi non m' ango. 
E m'ango assai, come d*un sol che ingrato 
Mi rende, ove a lui penso, il cibo e il sonno : 
Poiché greco nessuno in tutta l'oste, 
O il bene oprando, o sostenendo il male, 
Pareggiò Ulisse. Ma dispose il fato 
Ch'ei tormentase d'ogni tempo, e ch'io 
Mesti per sua cagion traessi i giorni. 
Io, che noi veggio da tanti anni, e ignoro 
Se viva, o morto giaccia. 11 piange intanto 
Laerte d'età pieno, e la prudente 
P-enelope e Telemaco, che il padre 
Lasciò lattante ne' suoi dolci alberghi» 

Disse ; e di pianto, subitana voglia 
Risvegliossi in Telemaco, che a terra 
Mandò lagrime giù dalle palpebre, 
Del padre udendo, ed il purpureo manto 
Con le mani s'alzò dinanzi al volto. 
Menelao ben comprese; e se a lui stesso 
Lasciar nomar il padre, o interrogarlo 
DoTesse pria, né serbar nulla in petto, 
Si e no tenzonavangU nel capo. 

Mentre cosi fra due. stava l'Àtride, 
Elena dall'eccelsa e profumata 
Sua stanza venne con le fide ancelle, 

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éé òDisssA (v. 159494) 

Che Diana parea dall'arco d'oro. 

Bel seggio Adrasta ayyicinòlle, Aloippe 

Tappeto in man di molle lana, e Filo 

Panier recava di forbito argento, 

Don già d'Alcandra , della moglie illustre 

Del fortunato Polibo, che i giorni 

Nella ricca menava egizia Tebe. 

A Menelao due conche argentee, due 

Tripodi e dieci aurei talenti ei diede. 

Ma la consorte ornar d'eletti doni 

Elena volle a parte: una leggiadra 

Conocchia d'or le porse, ed il paniere 

Ri tondo sotto, e di forbito argento , . 

Se non quanto le labbra oro guernia. 

Questo ricolmo di sudato stame 

L'ancella Pilo le recava, e sopra 

Vi riposava la conocchia, a cui 

Pini si ravvolgean purpurei velli. 

Ella raccolta nel suo seggio, e posti 
Sul polito sgabello i molli piedi. 
Con questi accenti a Menelao si volse: 
Sappiam noi, Menelao di Giove alunno, 
Chi sieno i due che ai nostri tetti entraro? 
Parlar m'è forza, il vero o il falso io dica: 
Però ch'io mai non vidi, e grande tiemmi 
Nel veder maraviglia, uom né donna 
Così altrui somigliar, come d'Ulisse 
Somigliar dee questo garzone al figlio, 
Ch'era bambino ancor, quando per colpa 
Ahi! di me svergognata, o Greci a Troia 
Giste, accendendo una sì orrenda guerra. 

Tosto l'Atride dalla bionda chioma: 
Ciò che a te, donna, a me pur sembra. Qdelle 
Son d'Ulisse le mani, i pie son quelli, 
E il lanciar degli sguardi, e il capo e il crine. 
Io, ritacese rammentando, i molti 

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(t. 198-230) LiÈRO tv. tò 

Dìcea disagi ch'ei per me sostenDe; 

E il giovane piovea lagrime amare 

Giù per le guance , e col purpureo manto, 

Ohe alzò ad ambe le man, gli occhi celava. 

E Pisistrato allor : Nato d'Atrèo, 
Di Giove alunno, condottier d'armati, 
Eccoti appunto di quel grande il figlio. 
Ma verecondo per natura, e giunto 
Novellamente, gli parrebbe indegno 
Te delle voci tue fermar nel corso, 
Te, di cui, qual d'un Dio, ci beano i detti. 
Nestore, il vecchio genitor, compagno 
Mi fece a luì, che rimirarti in faccia 
Bramava forte, onde poter dell'opra 
Giovarsi, o almen del tuo consiglio. Tutti 
Quei' guai che un fìgliuol soffre, a cui lontano 
Dimora il padre, né d'altronde giunge 
Sussidio alcun, Telemaco li prova/ 
Il genitor gli falla, e non gli resta 
Chi dal suo fianco la sciagura scacci. 

Numi ! rispose il Re dai biondi crini, 
Tra le mie stesse mura il figlio adunque 
D'uomo io veggio amicissimo che sempre 
Per me s'espose ad. ogni rischio? Ulisse 
Ricettare io pensava' entro i miei regni. 
Io carezzarlo sovra tutfi i Greci, 
Se ad ambo ritornar su i cavi legni 
L'olimpio dava onniveggente Giove. 
Una io cedere a lui delle vicine 
Volea cittadi argive, ov'io comando, 
E lui chiamar, che da' nativi sassi 
D'Itaca in quella mia, ch'io prima avrei 
D'uomini vota e di novelli ornata 
Mura e palagi, ad abitar venisse 
Col figlio, le sostanze e il popol tutto. 
Cosi, vivendo sotto un cielo, e spesso 

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64 0DIS8VA (Y. 231^266) 

L'un l'altro visitando, avremmo i dolci 
Frutti raccolti d'amistà si fida: 
Né Tan dall'altro si saria disgiunto 
Che steso non si fosse il negro velo 
Di morte sovra noi. Ma un tanto bene 
Giove c'invidiò, cui del ritorno 
Piacque fraudar quell'infelice solo» 

Sorse in ciascuno a tai parole un vivo 
Di lagrime desio. Piangea la figlia 
Di Giove, l'Argiva Elena, piangea 
D'Ulisse il figlio, ed il secondo Atride : 
Nò asciutte avea Plsistrato le guance. 
Che il fratello incolpabile, cui morte 
Die dell'Aurora la famosa prole, 
Tra sé membrava, e che tai detti sciolse: 
Atride, il vecchio Nestore mio padre 
Te di prudenza singoiar lodava. 
Sempre che in mezzo al ragionare alterno 
Il tuo nome venia. Fa', se di tanto 
Pregarti io possa, oggi a mio senno. Poco 
Me dilettan le lagrime tra i nappi. 
Ma del mattin la figlia il nuovo giorno 
Ricondurrà: né mi fia grave allora 
Pianger chiunque al suo destin soggiacque; 
Che solo un tale onore agl'infelici 
Defunti avanza, che altri il crin si tronchi 
E alle lagrime giuste allarghi il freno. 
Anco a me tolse la rea Parca un frate, 
Che l'ultimo non fu dell'oste greca. 
Tu il sai, che il conoscesti, né vederlo 
Potei, né a lui parlar ; ma udii che Antiloco 
Su tutti si mostrò gli emuli suoi 
Veloce al corso, e di sua man gagliardo. 

E Menelao dai capei biondi : Amico, 
L'uom più assennato e in più matura etade 
Che non è questa tua, né pensamenti 

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(v. 267-302) LIBERO IV. 65 

Diversi avria, né detti ; e ben «i pare 
Agli uni e agli altri da chi tu nascesti, 
Ratto la prole d'un eroe si scorge, 
Cui del natale al giorno, e delle nozze 
Destinò Giove un fortunato corso, 
Come al Nelìde che invecchiare ottenne 
Nel suo flalagio mollemente, e saggi 
Figli mirar, non che dell'asta dotti. 
Dunque, sbandito dalle ciglia il pianto, 
Si ripensi alla cena, e un'altra volta 
La pura su le mani onda si sparga. 
Sermoni alterni anche al novello sole 
Fra Telemaco e me correr potranno. 

Disse; ed AsfalXone, un servo attento, 
Spargea su le man Tonda, e i convitati 
Novamente eibavansì. Ma in altro 
Pensiero allora Elena entrò. Nel dolce 
Vino, di cui bevean, farmaco infuse 
Contrario al pianto e all'ira, e che l'oblio 
Seco induceva d'ogni travaglio e cura. 
Chiunque misto col vermiglio umore 
Nel seno il ricevè, tutto quel giorno 
Lagrime non gli scorrono dal volto. 
Non se la madre o il genitor perduto. 
Non se visto con gli occhi a sé davante 
Figlio avesse o f ratei di spada ucciso. 
Cotai la figlia- dell'olimpio Giove- 
Farmachi insigni possedea, che in dono 
Ebbe da Polidamna, dalla moglie 
Di Tene, nell'Egitto, ove possenti 
Succhi diversi la feconda terra 
Produce, quai salubri e quai mortali; 
E dove più, che i medicanti altrove , 
Tutti san del guarir l'arte divina. 
Siccome gente' da Peón discesa. 
Il nepente già infuso, e a* servi imposto 
OdUtea * ^ 

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66 ODISSEA (v. 303-338; 

Versar dell'urne nelle tazze il vino, 
Ella così parlò : Figlio d'Atrèo, 
E voi d'eroi progenie, i beni e i mali 
Manda dall'alto alternamente a ognuno 
L'onnipossente Giove. Or pasteggiate 
Nella magione assisi, e de' sermoni 
Piacer prendete pasteggiando, mentre 
Cose io racconto, che saranno a tempo. 
Non già eh' io tutte le fatiche illustri 
Ricordar sol del paziente Ulisse 
Possa, non che narrarle: una io ne scelgo, 
Che a Troia, onde gran duol venne agli Argivi, 
L'uom forte imprese e a fin condusse. Il corpo 
Di sconce piaghe afflisse, in rozzi panni 
S'avvolse, e penetrò nella nemica 
Cittade occulto, e di mendico e schiavo 
Le sembianze portando, ei che de' Greci 
Sì diverso apparia lungo le navi. 
Tal si gittò nella troiana terra. 
Né conoscealo alcuno. Io fui la sola 
Che lo ravvisai sotto l'estranie forme, 
E tentando l'andava; ed ei pur sempre 
Da me schermiasi con l'usato ingegno. 
Ma, come asperso d'onda ; unto d'oliva 
L'ebbi, di veste cinto, ed affidato 
Con giuramento, che ai Troiani prima 
Noi manifesterei, che alle veloci 
Navi non fosse, ed alle tende giunto, 
Tutta ei m'aperse degli Achei la mente. 
Quindi, passati con acuta spada 
Molti petti nemici, all'oste argiva 
Col vanto si rendè d'alta scaltrezza. 
Stridi mettean le donne iliache ed urli: 
Né io gioia tra me, che gli occhi a Sparta 
Già rivolgeansi e il core, e da me il fallo 
Si piagneva, in cui Venere mi spinse, 

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(v. 339-374) LIBRO iv. 67 

Quando staccommi dalla mia contrada, 
Dalla dolce figliuola, e dal pudico 
Talamo e da un consorte, a cui, saggezza 
Si donìandi o beltà nulla mancava. 

Tutto, TAtride dalla crocea chioma. 
Dicesti, o donna, giustamente. Io terra 
Molta trascorsi, e penetrai col guardo 
Di molti eroi nel sen ; ma pari a quella 
Del paziente Ulisse alma. io non vidi. 
Quel che oprò basti, e che sostenne in grembo 
Del cavallo intagliato, ove sedea, 
Strage portando ad Illio il fior da' Greci. 
Sospinta, io credo da un avverso Nume 
Cui la gloria de' Teucri a core staTa, 
Là tu giugnesti, e uguale a un Dio nel volto 
Sa l'orme tue Deìfobo venia. 
Ben tre fiate al caro agguato intorno 
T'aggirasti; e il palpavi, e a nome i primi 
Chiamavi degli Achei, contraffacendo 
Delle lor donne le diverse voci. 
Nel mezzo assisi io, Diomede e Ulisse 
Chiamar ci Udimmo: e il buon Titide ed io 
Ci alzammo, e di scoppiar fuor del cavallo 
O dar risposta dal profondo ventre. 
Ambo presti eravam: ma noi permise, 
E, benché ardenti, ci contenne Ulisse. 
Taceasi ogni altro, fuor che il solo Anticlo 
Che risponder voleati; é Ulisse tosto 
La bocca gli calcò con le robuste 
Mani inchiodate: né cessò, che altrove 
Te rimenato non avesse Palla. 
Si, di tutta la Grecia, ei fu salute. 

E ciò la doglia, o Menelao, m'accresce, 
Ripigliava il garzone. A che gli valse 
Tanta virtù, se non potea da morte 
Difenderlo, non che altro un cor di ferro? 

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68 ODISSEA (v. 375-410) 

Ma deh! piacciavi ornai che ritroviamo 

Dove posarci , acciò su noi del sonno 

La dolcezza ineffabile discenda. 

Si disse: e Targiva Elena all' ancelle 

I letti apparecchiar sotto la loggia, 
Belle gittarvi porporine coltri 

E tappeti distendervi, e ai tappeti 
Manti vellosi sovrapporre ingiunse. 
Quelle, tenendo in naan lucide faci 
Uscirò e i letti apparecchiaro : innanzi 
Movea 1* araldo, e gli ospiti guidava. 
Così nell'atrio s'adagiaro entrambi: 
Nel più interno corcavasi TAtride : 
E la divina tra le donne Elèna 

II sinuoso peplo ond'era cinta 
Depose, e giacque del consorte a lato. 

Ma come del mattin la bella fglia 
Rabbellì il ciel con le rosate dita, 
Menelao sorse, rivestissi, appese 
Per lo pendaglio all'omero la spada, 
E i bei calzar sotto i pie molli avvinse: 
Poi somigliante nell'aspetto a un Nume, 
Lasciò la stanza rapido, e s'assise 
Di Telemaco al fianco; e qual, gli disse, 
Cagione a Sparta su l'immenso tergo 
Del negro mar, Telemaco, t'addusse? 
Pubblico affare o tuo ? Schietto favella. 

E in risposta il garzon: Nato d'Atrèo, 
Per risaper del genitore io venni. 
In dileguo ne van tutti i miei beni. 
Colpa una gente nequitosa e audace, 
Che gli armenti divorami e le gregge, 
E ingombra sempre il mio palagio, e anela 
Della madre alle nozze. Io quindi abbraccio 
Le tue ginocchia, e da te udir m'aspetto 
Tisto, o sulle labbra inteso l'abbi 

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(v. 411-446) LIBRO IV. 69 

• D'un qualche viandante, il tristo fine 
Bel padre mio, che sventurato assai 
Bella sua genitrice uscì dal grembo. 
Né tinaore o pietà cosi t'assalga, 
Che del ver parte ti ramanga in core. 
Venne mai dal mio padre in opra o in detto, 
Bene o comodo a te là ne' troiani 
Campi del sangue della Grecia tinti? 
Ecco, di rimembrarlo, Atride, il tempo. 
Trasse il monarca dai capei di croco 
Un profondo sospiro, e, Ohimè, rispose, 
Volean d*un eroe dunque uomini imbelli 
Giacer nel letto? Qual se incauta cerva 
I cerbiatti suoi teneri e lattanti 
Deposti in tana di Leon feroce, 
Cerca, pascendo, i gioghi erti e Torbose 
Valli profonde, e quel feroce intanto 
Riede alla suacaverna, e morte ai figli 
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti 
Porterà morte ai concorrenti Ulisse. 
Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla, 
Che qual si levò un dì centra il superbo 
Filomelìde nella forte Lesbo, 
E tra le lodi degli Achivi a terra 
Con mano invitta, lotteggiando, il pose. 
Tal costoro affrontasse ! Amare nozze 
Fòran le loro, e la lor vita un punto. 
Quanto a ciò che mi chiedi, io tutto intendo 
Schiettamente narrarti, e senza inganno 
Le arcane cose ch'io da Proteo appresi, 
Bai marino vecchion che mai non mente. 
Me, che alla patria ritornar bramava, 
Presso l'Egitto ritenean gli Bei, 
Perchè onorati io non gli avea di sacre 
Ecatombi legittime ; che sempre 
L'oblio de' lor precetti i Numi offese. 

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70 , ODISSEA (v. 447-482; 

Giace centra TEgitto, e aironde in mezzo 
Un* isoletta che g* appella Faro, 
Tanto lontana quanto correr puote 
Per un intero dì concavo legno 
Cui stridulo da poppa il vento spiri. 
Porto acconcio vi s'apre, onde il nocchiero. 
Poscia che Tacqua non salata attinse, 
Facilmente nel mar vara la nave, 
.Là venti dì mi ritenean gli Dei; 
Né delle navi i condottieri amici 
Comparver mai su per l'azzurro piano, 
Le immobili acque ad increspar col flato, 
E già con le vivande anco gii spirti 
Per fermo si.fallian, se una dea, fatta 
Di me pietosa, non m'apria lo scampo, 
Idotèa, del marin vecchio la figlia, 
Cui fieramente in sen l'alma io commossi. 
Occorse a me che solitario errava, 
Mentre i compagni dalla fame stretti 
Giravan 1* isoletta, ed i ricurvi 
Ami gettavan qua e là nell'onde. 
Forestier, disse, come fu vicina, 
Sei tu del senno e del giudicio in bando, 
degli affanni tuoi prendi diletto. 
Che così, a un ozio volontario in preda, 
Neil* isola ti indugi, e via non trovi 
D'uscirne mai? Langue frattanto il core 
De* tuoi compagni, e si consuma indarno. 

qual tu sii delle immortali Dive , 
Credi, io le rispondea, che da me venga 
Così lungo indugiar? Vien dai beati 
Del vasto cielo abitatori eterni. 
Ch'io temo aver non leggiermente offesi. 
Deh, poiché nulla si nasconde ai Numi, 
Dimmi, qual è di lor che qui m'arresta, 
E il mar pescoso mi rinserra intorno. 

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(v. 483-518) LIBRO IV. 71 

E repente la Dea: Forestier, nulla 
Celarti to ti prometto. Il non bugiardo 
Soggiorna in queste parti egizio veglio, 
L'immortal Proteo, mio creduto padre, 
Che i fondi tutti del gran mar conosce, 
E ubbidisce a Nettuno. Ei del viaggio 
Ti mostrerà le strade, e del ritorno. 
Dove, stando in agguato, insignorirti 
Di lui possa. E quello ancor, se il brami, 
Saprai da lui, che di felice o avverso 
Nella casa t'entrò, fìnchè lontano 
Per vie ne andavi perigliose e lunghe. 

Ma tu gli agguati, io replicai, m'insegna, 
Ond* io cosi improvviso a Proteo arrivi , 
Ch'ei non mi sfugga delle mani. Un nume 
Difficilmente da un mortai si doma. 

Questo avrai pur da me, la Dea riprese. 
Come salito a mezzo cielo è il Sole, 
S'alza il vecchio divin dal cupo fondo, 
E uscito dalla bruna onda, che il vento 
Occidentale increspagli sul capo. 
S'adagia entro i suoi cavi antri e s* addorme ; 
E spesso a lui dormon le foche intorno , 
Deforme razza di Àlosidna bella. 
Già pria dell'onda uscite, e il grave odore 
Lunge spiranti del profondo mare. 
lo te là guiderò, te acconciamente 
Collocherò, ratto che il di s'inalbi: 
Ma di quanti compagni appo la nave 
Ci sono, eleggi i tre che tu piti lodi. 
Ecco le usanze del vegliardo, e l'arti: 
Pria noverar le foche a cinque a cinque , 
Visitandole tutte ; indi nel mezzo 
Corcarsi anch' ei, quasi pastor tra il gregge. 
Vistogli appena nelle ciglia il sonno. 
Ricordatevi allor sol della forza, 

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72 ODISSKA. (v. 519^54) 

E lui, che molto si dibatte e tenta 

Guizzarvi delle man, fermo tenete. 

Ei d'ogni belva, che la terra pasce, 

Vestirà le sembianze, e in acqua e in foco 

Si cangerà di portentoso ardore; 

E voi gli fate delle braccia nodi 

Sempre piti indissolubili e tenaci. 

Ma quando interrogarti al fin l'udrai. 

Tal mostrandosi a te, quale, sdraiossi. 

Tu cessa, o prode, dalla forza, e il vecchio 

Sciogli, e sappi da lui chi è tra i Numi, 

Che ti contende la natia contrada. 

Disse, e nelle fiottanti onde s'immerse. 

Io, combattuto da pensier diversi. 
Colà n'andai, dove giacean del maro 
Su la sabbia le navi, a cui da presso 
La cena in fretta s'apprestò. Sorvenne 
La preziosa notte, e noi sul lido 
Ci addormentammo al mormorio dell'acque. 
Ma, poiché del mattin la bella figlia 
Consperse il ciel d'orientali rose, 
Lungo il lido io movea, molto ai Celesti 
Pregando, e i tre, nel cui valor per tutte 
Le men facili imprese io piti fidava , 
Conducea meco. La Deessa intanto 
Dal seno ampio del mare, in ch'era entrata. 
Quattro pelli recò del corpo tratte 
Novellamente di altrettante foche; 
E tramava con esse inganno al padre. 
Scavò quattro covili entro l'arena: 
Quindi s'assise, e ci attendea. Noi presso 
Ci femmo a lei, che subito levossi, 
E noi dispose ne' scavati letti, 
E i cuoi recenti ne addossò. Moleste 
Le insidie ivi tornavano ; che troppo 
Noiava delle foche in mar nutrite 

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(v. 555-590) LIBRO IV. 73 

L'orrendo puzzo. E chi a marina belva 

Può giacersi vicin? Se non che al nostro 

Stato provvide la cortese Diva, 

Che ambrosia, onde spirava alma fragranza, 

Venneci a por sotto le afflitte nari , 

Cui del mar più non giunse il grave odore. 

Tutto il mattino aspottavam con alma 
Forte e costante. Le deformi foche 
Dell'onde uscirò in frotta, e a mano a mano 
Tutte si distendevano sul lido. 
Uscio sul mezzogiorno il gran vegliardo, 
E trovò foche corpulente e grasse, 
Che attènto annoverò. Contò noi prima, 
Né di frode parea nutrir sospetto. 
Ciò fatto, ei pur nella sua grotta giacque. 
Ci avventammo con grida, e le robuste 
Braccia al vecchio divin gittammo intorno. 
Che l'arti sue non obliò in quel punto. 
Leone apparve e di gran giubba, e in drago 
Voltossi, ed in pantera, e in verro enorme, 
E corse in onda liquida, e in sublime 
Pianta chiomata verdeggiò. Ma noi 
Il tenevan fermo più sempre. Allora 
L'astuto veglio, che nel petto stanco 
Troppo sentiasi omai stringer lo spirto. 
Con queste voci interrogommi : Atride, 
Qual fu de' Numi, che d'insidiarmi 
Ti die il consiglio, e di pigliarmi a forza? 
Di che mestieri hai tu? Proteo, io risposi. 
Tu il sai: perchè il dimandi, e ancor t'infìngi? 
Sai che gran tempo 1* isoletta tiemmi. 
Che scampo quinci io non ritrovo, e sento 
Distruggermisi il core. Ah dimmi, quando 
Nulla celasi ai Dei, chi degli Eterni 
M'inceppa, e, mi rinchiude il mare intorno. 

Non dovevi salpar, riprese il Dio, 

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74 ODISSEA (7. 591-626) 

Che onorato pria Giove e gli altri Numi 

Di sagrifici non avessi opimi, 

Se in breve al natio suol giungere ardevi. 

Op la tua Patria, degli amici il volto, 

E la magion ben fabbricata il fato 

Riveder non ti dà, dove tu prima 

Del fiume Egitto, che da Giove scende. 

Non risaluti la corrente, e porgi 

Ecatombi perfette ai Dli beati. 

Che il bramato da te mar t'apriranno. 

A tai parole mi s'infranse il core, 
Udendo che d'Egitto in su le rive 
Ricondurmi io dovea per gli atri flutti , 
Lunga e diffìcil via. Pur dissi : Vecchio , 
Ciò tutto io compierò. Ma or rispondi, 
Ti priego, a questo, e schiettamente parla: 
Salvi tornaro co' veloci legni 
Tutti gli Achivi che lasciammo addietro, 
Partendo d'ili'ón, Nestore ed io? 
peri alcun d'inopinata morte 
Nella sua nave , o ai cari amici in grembo , 
Posate l'armi, per cui Troia cadde? 

Atride, ei replicò, perchè tal cosa 
Mi cerchi tu ? Quel eh' io nell'alma chiudo 
Saper non fa per te, cui senza pianto, 
Tosto che a te palese il tutto fla, 
Non rimarrà lunga stagione il ciglio. 
Molti colpi r inesorabil Parca, 
E molti non toccò. Due soli duci 
De' vestiti di rame Achei guerrieri 
Morirò nel ritorno; e ritenuto 
Dal vasto mar nel seno un terzo vive. 
Aiace ai legni suoi dai lunghi remi 
Perì vicino. Dilivrato in prima 
Dall'onde grosse, e su gli enormi assiso 
Girei macigni, a cui Nettun lo spinse, 

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(v. d2t.662) LIBRO IV. 75 

Potea scampar, benché a Minerra in ira, 
Se non gli uscia di bocca un orgoglioso 
Motto che assai gli nocque. Osò vantarsi 
Che in dispetto agli Dei vincer del mare 
Le tempeste varria. Nettuno udillo 
Boriante in tal guisa, e col tridente, 
Che in man di botto si piantò, percosse 
La Girea pietra, e in due spezzolla: Tuna 
Colà restava ; e l'altra ove sedea 
Della percossa travagliato il Duce, 
Si rovesciò nel pelago, e il portava 
Pel burrascoso mare, in cui, bevuta 
Molta salsa onda, egli perdeo la vita. 
Il tuo fratello col favor di Giuno 
Morte sfuggi nella cavata nave. 
Ma, come avvicinossi all'arduo capo 
Della M alea, fera tempesta il colse, 
E tra profondi gemiti portello . 
Sino al confln della campagna, dove 
Tieste un giorno, e allora Egisto, il figlio 
Di Tieste, abitava. E quinci ancora 
Parca sicuro il ritornar ; che i Numi 
Voltar subito il vento, e in porto entraro 
Gli stanchi legni. Agamennón di gioia 
Colmo gittossi nella patria terra, 
E toccò appena la sua dolce terra. 
Che a baciarla chinossi, e per la guancia 
Molte gli discorrean lagrime calde. 
Perchè la terra sua con gioia vide. 
Ma il discopri da una scoscesa cima 
L'esplorator, che il fraudolento Egisto 
Con promessa di due talenti d'oro 
Piantato aveavi. Ei, che spiando stava 
Dall'eccelsa veletta un anno intero, 
Non trapassasse ignoto, e, forse a guerra 
latalentato, il tuo fratello, corse 

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76 ODISSEA . (v. 663.698) 

Con Tannunzio al signor, che un'empia frode 
Repente ordì. Venti, e i piti forti elesse, 
E in agguato li mise, e imbandir feo 
Mensa festiva: indi a invitar con pompa 
Di cavalli e di cocchi andò l'Atride, 
Cose orrende pensando, e il ricondusse, 
E, accolto a mensa, lo scannò qual toro 
Cui scende su la testa innanzi al pieno 
Presepe suo l'inaspettata scure. 
Non visse d'Agamennone o d'Egisto 
Solo un compagno, ma di tutti corse 
Confuso e misto .nel palagio il sangue. 

E a me schiantossi il core a queste voci. 
Pianto io versava su l'arena steso, 
Né piti mirar del sol volea la luce. 
Ma come di plorar, di voltolarmi 
Sovra il nudo terren sazio gli parvi, 
Tal seguitava il m)n mendace vecchio: 
Resta, figlio d'Atrèo, dall'infinite 
Lagrime per un mal che omai compenso 
Non paté alcuno, e t' argomenta in vece, 
Più veloce che puoi, riedere in Argo. 
Troverai vivo ne' suoi tetti Egisto, 
l'avrà poco dianzi Oreste ucciso, 
E tu al funebre assisterai banchetto. 

Disse: e di gioia un improvviso raggio 
Nel mio cor balenava. Io già d'Aiace, 
Risposi, e del fratello assai compresi. 
Chi è quel terzo che il suo reo destino 
Vivo nel sen del mare, o estinto forse. 
Ritiene? Io d'udir temo, e bramo a un tempo. 

E novamente il non bugiardo veglio: 
D'Itaca il Re, che di Laerte nacque. 
Costui dirotto dalle ciglia il pianto 
Spargere io vidi in solitario scoglio. 
Soggiorno di Calipso, inclita Ninfa, 

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(v. 699-734) LIBRO iv. 77 

Che rimandarlo niega: ond*ei, cui solo 
Non avanza un naviglio, e non compagni 
Che il trasportin del mar su Tampio dorso, 
Star gli convien della sua patria in bando. 
Ma tu, tu, Menelao, di Giove alunno, 
Chiuder gli occhi non dèi nella nutrice 
Di cavalli Argo; che noi vuole il fato. 
Te neir Elisio campo, ed ai confini 
Manderan della terra i Numi eterni, 
La 've risiede Radamanto, e scorre 
Senza cura o pensiero all'uom la vita. 
Neve non mai, non lungo verno o pioggia 
Regna colà; ma di Favonio il dolce 
Fiato, che sempre l'Oceano invia, 
Que' fortunati abitator rinfresca. 
Perchè ad Elona sposo, e a Giove stesso 
Genero sei, tal sortirai ventura. 
Tacque, e saltò nel mare, e il mar 1* ascose. 

Io da vari pensier l'alma turbato 
Movea co' prodi amici in vèr le navi. 
La cena s'apprestò. Cadde la notte 
Dell'uom ristoratrice, e noi del mare 
Ci addormentammo sul tranquillo lido. 
Ma del mattin la figlia ebbe consperso 
Di rose orientai appena il cielo, 
Che nel divino mar varrammo i legni 
D'uguali sponde armati, o con le vele 
Gli alberi alzammo: entrare, e sovra i banchi 
I compagni sedettero, ed assisi 
Co* remi percotean l'onde spumose. 
Del fiume Egitto, che da Giove scende, 
Un'altra volta all'abborrita foce 
lo fermai le mie navi, e giuste ai Numi 
Vittime ofiersi, e ne placai lo sdegno. 
Eressi anco al german tomba, che vivo 
In quelle parti ne serbasse il nome. 

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78 ODISSEA (v. IS^'llO) 

DopQ ciò, rimbarcaimi, e con un vento 
Che mi feria direttamente in poppa, 
Pervenni folgorando ai porti miei. 
Or, Telemaco, via, tanto ti piaccia 
Rimaner, che l'undecima riluca 
Nell'oriente, o la duodecim' alba. 
Io ti prometto congedarti allora 
Con doni eletti: tre destrieri e un vago 
Cocchio, ed in oltre una leggiadra tazza 
Da libare ai Celesti, acciò non sorga 
Giorno che il tuo pensiero a me non torni. 

Il prudente Telemaco rispose: 
Gran tempo qui non ritenermi, Atride. 
Non che a me non giovasse un anno intero, 
La Patria e i miei quasi obliando, teco 
Queste case abitar; che alla tua voce 
L'alma di gioia ricercarmi io sento. 
Ma già muoion di tedio i miei compagni 
Nell'alta Pilo; e tu m'arresti troppo. 
Qual siasi il don di che mi vuoi far lieto, 
Un picciol sia tuo prezioso arnese. 
Ad Itaca i destrieri addur non penso, 
Penso lasciarli a te, bello de* tuoi 
Regni ornamento: perocché signore 
Tu sei d'ampie campagne, ove fiorisce 
Loto e cipero, ove frumenti e spelde. 
Ove il bianc'orzo d'ogni parte alligna. 
Ma non larghe carriere, e non aperti 
Prati in Itaca vedi: è dì caprette 
Buona nutrice, e a me di ver piti grata. 
Che se cavalli nobili allevasse. 
Nulla del nostro mare isola in verdi 
Piani si stende, onde allevar destrieri; 
E men deiraltre ancora Itaca mia. 

Sorrise il forte ne' conflitti Atride, 
£, la mano a Telemaco stringendo, 

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(v. 771-806) LIBRO IV. 79 

Sei, disse, o f glio, di buon sangue, e a questa 
Tua favella il dimostri. E bene, i doni 
Ti cambierò: farlo poss*io. Di quanto 
Lia mia reggia contien, ciò darti io voglio, 
Che più mi sembra prezioso e raro; 
Grande urna effigiata, argento tutta, 
Dei labbri in fuor, sovra cui Toro splende, 
Di Vulcano fattura. Io dall'egregio 
Fedirne, re di Sidone, un dì Tebbi, 
Quando il palagio suo me, che di Troia 
Venia, raccolse; e tu n'andrai con questa. 

Così tra lor si ragionava. Intanto 
DeirAtride i ministri ài suo palagio 
Conducean pingui pecorelle, e vino 
Di coraggio dator, mentre le loro 
Consorti il capo di bei veli adorne 
Candido pan recavano. In tal guisa 
Si mettea qui Talto convivio in punto. 

Ma in altra parte , e. alla magion davante 
Del magnanimo Ulisse, i Proci alteri 
Dischi lanciavan per diletto, e dardi 
Sul pavimento lavorato e terso, 
' Della baldanza lor solito campo. 
Solo i due capi, che di forza e ardire 
Tutti vinceano, il pari in volto ai Numi 
Eurimaco, ed Antinoo, erano assisi. 
S* aceostò loro, ed al secondo volse 
Di Fronio il figlio, Noemòn, tai detti :> 
Antinoo, il dì lice saper, che rieda, 
Telemaco da Pilo? Ei dipartissi 
Con la mia nave, che or verriami ad uopo, 
Per tragittar neir Elide, ove sei 
Pasconmi, e sei cavalle, ed altrettanti 
Muli non domi, che lor dietro vanno, 
E di cui, razza faticante, alcuno . 
Rimenar bramo, e accostumarlo al giogo. 

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80 ODISSEA. (v. 807-842) 

Stupiano i prenci, che ne* suoi poderi 
De' montoni al custode o a quel de* verri 
Trapassato il credeano, e non al saggio 
Figliuol di Neleo neireccelsa Pilo. 

Quando si dipartì? rispose il figlio 
D'Eupite, Antinoo. E chi seguillo? Scelti 
Giovani forse d'Itaca, o gli stessi 
Suoi mercenari e schiavi? E osava tanto? 
Schiatto favella. Saper voglio ancora, 
Se a mal cuor ti lasciasti il legno tórre, 
a lui, che tei chiedea, di grado il desti. 

Il diedi a lui, che mei chiedea, di grado, 
Noemón ripigliò. Chi potea mai 
Con si nobil garzone e si infelice 
Stare in sul niego? Gioventù seguillo 
Della miglior tra il popolo itacese, 
E condottier salia la negra nave 
Mentore, o un Dio che ne vestia l'aspetto : 
E maraviglio io ben ch'ieri su l'alba 
Mentore io scorsi. Or come allor la negra 
Nave salì, che veleggiava a Pilo? 
Disse, e del padre alla magion si rese. 

Atterriti rimasero. Cessaro 
Gli altri da' giuochi, e s'adagiaro anch'essi, 
E a tutti favellò d'Eupite il figlio: 
Se gli gonfiava della furia il core 
Di caligine cinto, e le pupille 
Nella fronte gli ardean come duo fiamme. 
Grande per fermo e audace impresa ò questa, 
Cui già nessun di noi fede prestava, 
Viaggio di Telemaco! Un garzone. 
Un fanciullo gittar nave nel mare, , 

Di tanti uomini ad onta, e aprire al vento 
Con la piti scelta gioventù le vele? 
Né il male qui s'arresterà: ma Giove 
A Telemaco pria franga ogni possa, 

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V. 843-878) LIBRO iv. 81 

Zhe una tal piaga dilatarsi io veggia. 

3a via, rapida nave e venti remi 

\ me, si ch'io lo apposti, e al suo ritorno 

Sei golfo, che divide Itaca e Same, 

tolgalo; e il folle con suo danno impari 

L'onde a stancar del genitore in traccia. 

3osì Antinoo parlò. Lodi e conforti 

311 davan tutti: indi sorgeano, e il piede 

Nell'alte stanze riponean d'Ulisse. 

Ma de' consigli che nutriano in mente, 
Penelope non fu gran tempo ignara. 
Ne la feo dotta il banditor Medonte, 
Che udia di fuori la consalta iniqua, 
E agli orecchi di lei pronto recolia. 
Ella noi vide oltrepassar la soglia, 
Che si gli disse; Araldo, onde tal fretta? 
Ed a che i Proci ti mandare? Forse 
Perchè d'Ulisse le solerti ancelle 
l>ai lavori si levino, e l'usato 
Convito apprestin loro? Oh fosse questo 
De' conviti l'estremo, e a me travaglio 
Più non desser, né altrui! Tristi! che, tutto 
Del prudente Telemaco il retaggio 
Per disertar, vi radunate in folla. 
E non udiste voi da' vostri padri, 
Mentr* eravate piccioletti e imberbi, 
I modi che tenea con loro Ulisse, 
Nessun in opre melestando, o in detti. 
Costume pur degli uomini scettrati. 
Che odio portano agli uni, e agli altri amore? 
Non offese alcun mai: quindi l'indegno 
Vostro adopi^ar meglio si pare e il morto 
Cho di tanti favor voi gli rendete. 

Ed il saggio Medonte: Ai Dei piacesse 
Che questo il peggior mal, Reina, fosse! 
Altro dai Proci se ne cova in petto 

Odiitea ^'9'^^^^ ^^ Gc^ogle 



82 ODISSEA (v. 879-914/ 

Più grave assai, che Giove sperda: il caro 
Figlio, che a Pilo sacra e alla divina 
Sparta si volse, per ritrar del padre. 
Ucciderti di spada al suo ritorno. 

Penelope infelice a tali acclenti 
Scioglier sentissi le ginocchia e il core. 
Per lungo spazio la voce mancolle. 
Gli occhi di pianto le s* empier, distinta 
Non poteale dai labbri uscir parola. 
Rispose al fine: Araldo, e perchè il %lio 
Da me staccossi? Qual cagion,- qual forza 
Sospingealo a salir le ratte navi. 
Che destrieri del mar sono, e l'immensa 
Varcano umidità? Brama egli dunque 
Che nò resti di sé nel mondo il nomo? 

Qual de* duo spinto, il banditor riprese, 
L'abbia sul mare, a domandar del padre. 
Se la propria sua voglia, o un qualche nume, 
Reina, ignoro. E sovra Torme sue 
Ritornò, così detto, il fido araldo. 

Fiera del petto roditrice doglia 
Penelope ingombrò; né, perchè molti 
Fossero i seggi, le bastava il core 
Di posare in alcun: sedea sul nudo 
Limitar della stanza, acuti lai 
Mettendo; e quante la serviano ancelle, 
SI di canuta età, come di bionda. 
Ululavano a lei d'intorno tutte. 
Ed ella, forte lagrimando. Amiche, 
Uditemi, dicea. Tra quante donne 
Nacquero e crebber meco, ambasce tali 
Chi giammai tollerò? prima un egregio 
Sposo io perdei, d'invitto cor, fregiato 
D'ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome 
Per l'EUada risuona, e tutta l'Argo. 
Poi le tempeste m'involaro il dolce 

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(v. 915-950) L1Ì3R0 IV. 83 

Mio parto in fama non ancor salito, 
E del viaggio suo nulla io conobbi. 
Sciauratel eravi pur ristante noto, 
Ch'ei nella cava entrò rapida nave: 
Né di voi fu, cui suggerisse il core 
Di scuotermi dal sonno? Ov'io la fuga 
Potuto avessi presentirne, certo 
Da me, benché a fatica, ei non partia, 
me lasciava nel palagio estinta. 
Ma de' serventi alcun tosto mi chiami 
L'antico Dolio, schiavo mio, che dato 
Fummi dal genitor, quand'io qua venni: 
Ed or le piante del giardin m'ha in cura. 
Vo' che a Laerte corra,* e il tutto narri, 
Sedendosi appo lui, se mai Laerte 
Di pianto aspersa la seni! sua guancia 
Mostrar credesse al popolo, e lagnarsi 
Di color che schiantar l'unico ramo 
Di lui vorriano, e del divino Ulisse. 

E la diletta qui balia Euriclèa, 
Sposa cara, rispose, o tu m'uccida, 
nelle stanze tue viva mi serbi. 
Parlerò aperto. Il tutto io seppi, e al figlio, 
Le candide farine e il rosso vino 
Consegnai; ma giurar col giuramento 
Più sacro io gli dovei, che ove agli orecchi 
Non ti giugnesse della sua partenza 
Aura d'altronde, e tu men richiedessi, 
Io tacerei, finché spuntasse in cielo 
La dodicesim' aurora, onde col pianto 
Da té non s'oltraggiasse il tuo bel corpo. 
Su via, ti bagna, e bianca veste prendi, 
E, con le ancelle tue nell'alto ascesa, 
Priega Minerva che il figliuol ti guardi: 
Né affligger piti con ambasciale il veglio 
Già per sé afflitto assai. No , tanto ai Numi 

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84 ODISSEA (v. 951-986) 

Non è d'Arcesio la progenie in ira, 

Che un germe viver non ne debba, a cui 

Queste muraglie sorgano, e i remoti 

Si ricuopran di mèsse allegri campi. 

Con queste voci le sopì nel petto 
La doglia, e il pianto le arrestò sul ciglio. 
Elia bagnossi, bianca veste prese, 
E, con le ancelle sue nell'alto ascesa, 
Pose il sacr'orzo nel canestro, e il sjile, 
E a Palla supplicò. M'ascolta, disse, 
deiregioco Giove inclita figlia. 
Se il mio consorte ne* paterni tetti 
Pingui d'agna o di bue cosce mai t*arse. 
Oggi per me ten risòvvenga: il figlio 
Guardami, e sgombra dal palagio i Proci, 
Di cui piti ciascun dì monta l'orgoglio. 
Scoppiò in un grido dopo tai parole, 
E l'atenèa Minerva il priego accolse. 
Tumulto fean sotto le oscure volte 
Coloro intanto, e alcun dicea: La molto 
Vagheggiata ì\eina omai le nozze 
Ci appresta, e ignora che al suo figlio morte 
S'apparecchia da noi. Tanto dal vero 
Quelle superbe menti ivan lontane. 

Ed Antinoo: Sciaurati, il dire incauto. 
Che potria dentro penetrar, frenate. 
Ma che piìi badiam noi? Tacitamente ' 

Quel che tutti approvar mettiamo in opra. [ 

Ciò detto, venti scelse uomini egregi. 
Ed al mare avvì'ossi. Il negro legno 
Varare, alzare l'albero, assettare 
Gli abili remi in volgitoi di cuoio, 
E le candide vele ai venti aprirò; 
Poi, recate arme dagli arditi servi. 
Nell'alta onda "fermar la negra nave. 
Quivi cenaro; e stavansi aspettando 

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V. 987-1022) LIBRO IV. 85 

Che più crescesse della notte il buio. 

Ma la grama. Penelope neiralto 
Giacea digiuna, non gustando cibo, 
Bevanda non gustando; e a lei nel petto 
Sul destin dubbio di si cara prole 
Fra la speme e il timor l'alma ondeggiava. 
Qaal de' lattanti leoncin la madre, 
Cui fan corona insidiosa intorno 
I cacciatori, che a temere impara, 
E in diversi pensier l'alma divide: 
Tal fra sé rivolvea cose diverse, 
Finché la invase un dolce sonno. Stesa 
Sul letto, e tutte le giunture sciolta, 
La donna inconsolabile dormia. 

Allor la Dea dall'azzurrino sguardo 
Nuova cosa pensò. Compose un lieve 
Fantasma, che sembrava in tutto Iftima, 
D'Icario un'altra figlia, a cui legato 
S'era con nodi maritali Eumelo, 
Che in Fere di Tessaglia avea soggiorno. 
Questa Iftima inviò d'Ulisse al letto, 
Che alla Reina tranquillasse il core, 
E i sospiri da lei sbandisse e il pianto. 
Pel varco angusto del fedel serrame 
Entro il fantasma, e standole sul capo, 
Riposi tu, Penelope, dicea, 
Nel tuo cordoglio? Gl'immortali Dei 
Lagrimosa non voglionti, né trista. 
Riederà il figliuol tuo, perchè de' Numi 
L'ira col suo fallir mai non incorse. 

E la reina, che dormia de* sogni 
Soavissimamente in su le porte: 
Sorella, a che venistti? Io mai da prima 
Non ti vedea, cosi da lunge alberghi; 
E or vuoi ch'io vinca quel martir che in cento 
Guise mi stringe l'alma, io, che un consorte 

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86 ODISSEA (v. 1023.-1058) 

Perdei sì buon, di si gran core, ornato 
D*ogni virtù tra i Greci, ed il cui nome 
Per TEllada risuona e l'Argo tutta! 
S'arroge a questo che il diletto figlio 
Partì su ratta nave, un giovinetto 
Delle fatiche e dell'usanze ignaro. 
Più ancor per lui, che per Ulisse, io piango, 
E temo, noi sorprenda o tra le genti 
Straniere, o in mare, alcun sinistro: tanti 
Nemici ha che l'insidiano, e di vita 
Prima il desian levar; ch'egli a me torni. 

Ratto riprese il simulacro oscuro; 
Scaccia da te questi ribrezzi, e spera. 
Compagna il siegue di cotanta possa. 
Che ognun per sé la brameria: Minerva, 
Cui pietà di te punse, e di cui fida 
Per tuo conforto ambasciatrice io venni. 

E la saggia Penelope a rincontro: 
Poiché una Dea sei dunque, o almeno udisti 
La voce d'una Dea, parlarmi ancora 
Di quell'altro infelice or non potrai? 
Vive? rimira in qualche parte il Sole? 
ne' bassi calò regni di Pluto? 

Ratto riprese il simulacro oscuro: 
S'ei viva, o no, non t'aspettar ch'io narri. 
Spender non piace a me gli accenti indarno. 
Disse; e pel varco, ond'era entrata, uscendo, 
Si mescolò co' venti, e dileguossi. 
Ma la Reina si destò in quel punto. 
Ed il cor si sentì d'un' improvvisa 
Brillar letizia, che lasciollo il sogno. 
Che sì chiaro le apparve innanzi l'alba. 

I Proci l'onde già fendeano, estrema 
Macchinando a Telemaco ruina. 
Siede tra la pietrosa Itaca e Same 
Un'isola in quel mar, che Astori è detta, 

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(▼• 1059-1062) LIBRO IV. 87 

Par dirupata, né già troppo grande» 
Ma con sicuri porti, in cui le navi 
D'ambo i lati entrar ponno. Ivi in agguato 
Telemaco attendean gl'iniqui Achei. 



LIBRO QUINTO 



ARGOMENTO 

Nuovo concilio degli Dei. — - Pallade si lagna che Ulisse ri- 
tenuto sia neirisola di Calipso. e che si tenti d*ammaszaro 
Telemaco. — Giove manda Mercurio a Calipso, che mal 
volentieri congeda Ulisse. '— Partenza di questo sovra una 
spezie di zatta da lui costrtitta. — Nettuno gli desta con- 
tro una orribil tempesta, per cui. spezzata la barca, ei get- 
tasi a nuoto: e con Taiuto d^una fascia, che Ino. Dea del 
mare, gli diede, approda, dopo infiniti patimenti , alV isola 
de* Feaci. 

Già l'Aurora, levandosi a Titone 
D'allato, abbandonava il croceo letto, 
E ai Dei portava ed ai mortali il giorno; 
E già tutti a concilio i Dei beati 
Sedean con Giove altitonante in mezzo, 
Cui di possanza cede ogni altro Nume. 

Memore Palla dell'egregio Ulisse, 
Che mal suo grado appo la Ninfa scorge, 
I molti ritesseane acerbi casi. 
O Giove, disse, e voi tutti d'Olimpo 
Concittadini, che in eterno siete, 
Spoglisi di giustizia e di pietade, 



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88 ODISSEA (v. 13-48) 

E iniquitate e crudeltà si vesta 

D'ora innanzi ogni Re, quando Tinìmago 

D'Ulisse piti non vive in un sol core 

Di quella gente eh* ei reggea da padre. 

Ei neir isola intanto, ove Calipso 

In cave grotte ripugnante il tiene. 

Giorni oziosi e travagliosi mena; 

E del tornare aHa sua Patria è nulla, 

Poiché navi non ha, non ha compagni 

Che il carreggin del mar su Tampio tergo. 

Che più? Il fìgliuol, che all'arenosa Pilo 

Mosse ed a Sparta, onde saver di lui, 

Tor di vita si brama al suo ritorno. 

Figlia, qual ti sentii fuggir parola 
Del recinto de* denti ? a lei rispose 
L'adunator di nubi olimpio Giove. 
Tu stessa in te non divisavi, come 
Rieda Ulisse alla Patria, e di que* tristi 
Vendetta faccia.^ In Itaca il figliuolo 
Per opra tua, chi tei contende? salvo 
Rientri, e Tonde navigate indarno • 
Rinavighi de* Proci il reo naviglio. 

Disse, e a Mercurio, sua diletta prole, 
Così si rivolgea; Mercurio, antico 
De* miei comandi apportator fedele. 
Vanne, e alla Ninfa delle crespe chiome 
Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse ) 
Le native contrade ornai rivegga. 
Ma noi guidi uom, né Dio. Parta su travi 
Con moltiplici nodi in un congiunte, 
E il ventesimo dì della feconda 
Scheria le rive, sospirando, attinga; 
E i Feaci l'accolgano, che quasi 
Degl'Immortali al par vivon felici. 
Essi qual nume onoreranlo, e al dolce 
Nativo loco il manderan per nave. 

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(v, 49-84) LIBRO V. 89 

Rame. in copia daranglì, ed oro e vestì, 
Quanto al fn seco dalla vinta Troia 
Condotto non avria, se con la preda. 
Che gli toccò, ne ritornava illeso: 
Che la Patria così, gli amici e Talto 
Riveder suo palagio, è a lui destino. 

Obbedì il prode messaggiero. Al piede 
S'avvinse i talar belli, aurei immortali, 
Che sul mare il portavano, e su i campi 
Della terra infiniti a par col vento. 
Poi l'aurea verga nelle man recossi, 
Onde i mortali dolcemente assonna. 
Quanti gli piace, e li dissonna ancora, 
G con quella tra man l'aure fendea. 
Come presi ebbe di Pieria i gioghi. 
Si calò d'alto, e si gittò sul mare: 
Indi l'acque radea velocemente. 
Simile al laro che pe' vasti golfi 
S'aggira in traccia de' minuti pesci, 
E spesso nel gran sale i vanni bagna. 
Non altrimenti sen venia radendo 
Molte onde e molte l'Argicida Ermete. 
Ma tosto che fu all'isola remota, 
Salendo allor dagli azzurrini flutti. 
Lungo il lido ei sen già, finché vicina 
S'offerse a lui la spaziosa grotta. 
Soggiorno della Ninfa il crin ricciuta, 
Cui trovò i| Nume alla sua grotta in seno. 
Grande vi splendea foco, e la fragranza 
Del cedro ardente e delibar dente tio 
Per tutta si spargea l'isola intorno. 
Ella, cantando con leggiadra voce. 
Fra i tesi fili dell'ordita tela 
Lucida spola d'or lanciando andava. 
Selva ognor verde l'incavato speco 
Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni, 

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90 ODISSEA (v. 85.120) 

E gli spiranti odor bruni cipressi; 
E tra i lor rami fabbricato il nido 
S'aveano augelli dalle lunghe penne, 
Il gufo, lo sparviere e la loquace 
Delle rive del mar cornacchia amica. 
Giovane vite di purpurei grappi 
S'ornava, e tutto rivestia lo speco. 
Volvean quattro bei fonti acque d'argento. 
Tra so vicini prima, e poi divisi 
L'un dairaltro e fuggenti; e di viole 
Ricca si dispiegava in ogni dove 
De* molli prati Timmortal verzura. 
Questa scena era tal, che sino ~ a un Nume 
Non potea farsi ad essa, e non sentirsi 
Di maraviglia colmo e di dolcezza. 
Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto 
Lodatola in suo core, all'antro cavo, 
Non indugiando più, dentro si mise. 

Calipso, inclita Dea, non ebbe in lui 
Gli occhi affissati, che il conobbe; quando, 
Per distante che l'un dall'altro alberghi, 
Celarsi l'uno all'altro i Dei non ponno. 
Ma nella grotta il generoso Ulisse 
Non era: mesto sul deserto lido. 
Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi 
Con dolori, con gemiti, con pianti 
Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare 
Sempre agguardava, lagrime stillando. 

La Diva il Nume interrogò, cui posto 
Su mirabile avoa seggio lucente: 
Mercurio, Nume venerato e caro, 
Che della verga d'or la man guernisci, 
Qual mai cagione a me, che per l 'addietro 
Non visitavi, oggi t'addusse? Parla. 
Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna, 
Disdirti io non saprei, se il pur volessi. 

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(V. 121rl56) LIBRO V. 91 

Sa via, ricevi Tòspital convito: 
Poscia favellerai. Detto, la mensa, 
Che .ambrosia ricopria, gli pose avanti, 
Ed il purpureo nettare versogli. 
Questo il celeste messaggiero e quella 
Prendea; né prima nelle forze usate 
Tornò,* che apria le labbra in tali accenti : 
Tu. Dea me Dio dunque richiedi? Il vero. 
Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro. 
Questo viaggio di Saturno il figlio 
Mal mio grado mi die. Chi vorria mai 
Varcar tante onde salse, infinite onde. 
Dove città non sorge, e sacrifici 
Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri? 
Ma il precetto di Giove a un altro Nume 
Né violar, né obliar lice. Teco, 
Disse l'Egidarmato, i giorni mena 
L'uom più gramo tra quanti alla cittade 
Di Priamo innanzi combattean nove anni. 
Finché il decimo al fin. Troia combusta. 
Spiegare in mar le ritornanti vele. 
Ma nel cammino ingiuriar Minerva, 
Che destò le bufere, e immensi flutti 
Coutra lor sollevò. Tutti perirò 
Di quest* uomo i compagni ; ed ei dal vento 
Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato. 
Or tu costui congederai di botto; 
Che non morir dalla sua terra lunge. 
Ma la Patria bensi, gli amici e Tatto 
Riveder suo palagio, è a lui destino. 

Inorridì Calipso, e, con alate 
Parole rispondendo: Ah, Numi ingiusti. 
Sclamò, che invidia non più intesa é questa, 
Che se una Dea con maritale amplesso 
Si congiunge a un mortai, voi noi soffrite? 
Quando la tinta di rosato Aurora 

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92 ODISSEA (v. 157-192) 

Orione rapì, voi, Dei, cui vita 
Facile scorre, acre livor mordea, 
Finché in Ortigia il rintracciò la casta 
Dai seggio auro Diana, e d'improvvisa 
Morte il colpi con invisilnl dardo. 
E allor che venne inanellata il crine 
Cerere a Giasì'on tutta amorosa, 
E nel maggese, che il pesante aratro 
Tre volte aperto avea, se gli concesse, 
Giove, cui Topra non fu ignota, uccise 
Giasìon con la folgore affocata. 
Così voi, Dei, con invid* occhio al fianco 
Mi vedete un eroe da me serbato, 
Che solo stava in su i meschini avanzi 
Della nave, che il telo igneo di Giove 
Nel mare oscuro gli percosse e sciolse. 
Io racco^liealo amica, io .lo nutria 
Gelosamente, io prometteagli eterni 
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni. 
Ma quando troppo è ver che alcun di Giove 
Precetto violare a un altro Nume 
Non lice, od obliar, parta egli e solchi. 
Se il comandò TEgidarmato, i campi 
Non seminati. Io noi rimando certo; 
Che navi a me non sono, e non compagni 
Che del mare il carreggino sul tergo. 
Ben sovverrògli di consiglio, e il modo 
Gli additerò, che alla sua dolce terra 
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso. 

Ogni modo il rimanda, Targicida 
Soggiunse, e pensa che infiammarsi d'ira 
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno. 
E sul fin di tai detti a lei si tolse. - 

L'Augusta Ninfa, del Saturnio udita 
La severa imbasciata, il prode Ulisse 
Per cercar s'avviò. Trovollo assiso 

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(v. 193-228) LIBRO V. 93 

Del mare in su la sponda, ove le guance 

Di lagrime rigava, e consumava 

Col pensier del ritorno i suoi dolci anni; 

Che della Ninfa non.pungealo amore: 

E se le notti nella cava grotta 

Con lei vogliosa non voglioso passa, 

Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno, 

Su i lidi assiso e su i romiti scogli, 

Con dolori, con gemiti, con pianti 

Struggasi l'alma, e l'infecondo mare, 

Lagrime spesse lagrimando, agguarda. 

Calipso, illustre Dea, standogli appresso. 
Sciagurato, gli disse, in questi pianti 
Più non mi dar, né consumare i dolci 
Tuoi begli anni così: la dipartita. 
Non che vietrati, agevolarti io penso. 
Su via, le travi nella selva tronche^ 
Larga e con alti palchi a te congegna 
Zattera, che sul mar fosco ti porti. 
Io di candido pan, che l'importuna 
Fame rintuzzi, io di purissim'ondà, 
E di rosso licer, gioia dell'alma. 
La carcherò: ti vestirò non vili 
Panni, e ti manderò da tergo un vento. 
Che alle contrade tue ti spinga illeso, 
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia, 
Con cui di senno in prova io già non vegno. 

Raccapricciossi a questo il non mai vinto 
Dalle sventure Ulisse, e, Dea, rispose 
Con alate parole, altro di fermo, 
Non il congedo mio, tu volgi in mente, 
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi 
Del diffìcile mar flutti tremendi, 
Che le navi più ratte, e d'ugnai fianchi 
Munite, e liete di quel vento amico 
Che da Giove partì, varcano appena. 

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94 ODISSEA (v. 229-264) 

No, su barca sì fatta, e a tuo dispetto, 
Non salirò, dove tu pria non degni 
Giurare a me con giuramento grande. 
Che nessuno il tuo cor danno m'ordiscoi 

Sorrise l'Atlantide, e, della mano 
Divina careggiandolo, la lingua 
Sciolse in tai voci: Un cattivello sei. 
Né ciò che per te fa, scordi giammai. 
Quali parole mi parlasti? Or sappia 
Dunque la terra e il Ciel superno, e Tatra, 
Che sotterra si volve, acqua di Stige, 
Di cui nò più solenne han né pìii sacro 
Gl'Iddii beati giuramento; sappia, 
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce. 
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io 
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi. 
Giustizia regge la mia mente, e un'alma 
Pietosa, non di ferro, in me s'annida. 

Ciò detto, abbandonava il lido in fretta, 
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta. 
Colà, dond'era i'Argicida sorto. 
S'adagiò il Laerziade; e la Dea molti 
Davante gli mettea cibi e licori. 
Quali ricever può petto mortale. 
Poi gli. s'assise a fronte ; e a lei le ancelle 
L'ambrosia e il roseo nettare imbandirò. 

Come ambo paghi della mensa furo, 
Con tali accenti cominciava l'alta 
Di Calipso beltade: di Laerte 
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse, 
Cosi tu parti adunque, e alla nativa 
Terra e alle case de' tuoi padri vai? 
Va', poiché sì t'aggrada, e va' felice. 
Ma se tu scorger del pensier potessi 
Per quanti affanni ti comanda il fato 
Prima passar, che al patrio suolo arrivi, 

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(v. 265-300) LIBRO V. 95 

Questa casa con me sempre vorresti 
Custodir, ne son certa, e immortai vita 
Da Calipso accettar; benché si viva 
Brama t'accenda della tua consorte, 
A cui giorno non è che non sospiri. 
Pur non cedere a lei né di statura 
Mi vanto, né di volto: umana donna 
Mal può con una Dea, né le s'addice, 
I>i persona giostrare, e di sembianza. 

Venerabile Iddia, riprese il ricco 
D'ingegni Ulisse, non voler di questo 
Meco sdegnarti: appien conosco io stesso 
Che la saggia Penelope tu vinci 
Di persona non men, che di sembianza. 
Oiudice il guardo^ che ti stia di contra. 
Ella nacque mortale, e in te né morte 
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo. 
Questo il desio che mi tormenta sempre, 
Veder quel giorno al fin, che alle dilette 
Piagge del mio natal mi riconduca. 
Che se alcun me percoterà de' Numi 
Per le fosche onde, io soffrirò chiudendo 
Forte contra i disastri anima in petto. 
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi 
Già ne sostenni; e sosterronne ancora. 

Disse ; e il sol cadde, ed annottò. Nel seno 
Si ritiraro della cava grotta 
Più interno e oscuro, e in dolce sonno avvolti 
Tutte le cure lor mandare in bando. 

Ma come del mattin la figlia, l'alma 
Dalle dita di rose Aurora apparve, 
Tunica e manto alle sue membra Ulisse, 
E Calipso alle sue larga ravvolse 
Bella gonna, sottil, bianca di neve; 
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un velo 
Sovra l'or crespo della chioma impose. 

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% ODISSEA (v: 301-336) 

Né d'Ulisse a ordinar la dipartita 
Tardava. Scure di temprato rame, 
Grande, manesca e d'ambo i lati aguzza. 
Con leggiadro d'oliva e bene attato 
Manubrio, presentògli e una polita 
Vi aggiunse ascia lucente: indi all'estremo 
Dell'isola il guidò, dove alte piante 
Crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti, 
Ciascun risecco di gran tempo e arsiccio. 
Che gli sdruccioli agevole sull'onda. 
Le altere piante gli additò col dito, 
E alia sua grotta il pie torse la Diva. 

Egli a troncar cominciò il bosco: l'opra 
Nelle man dell'eroe correa veloce. 
Venti distese al suolo arbori interi: 
Gli adeguò, li polì, l'un destramente 
Con l'altro pareggiò. Calipso intanto, 
Recava seco gli appuntati succhi. 
Ed ei forò le travi e insieme unille, 
E con incastri assicurolle e chiovi. 
Larghezza il tutto avea, quanta ne danno 
Di lata nave trafficante al fondo 
Periti fabbri. Su le spesse travi, 
Combacianti tra sé, lunghe stendea 
Noderose assi, e il tavolato alzava. 
L'albero con l'antenna ersevi ancora, 
E costrusse il timon, che in ambo i lati 
Armar gli piacque d'intrecciati salci 
Contra il marino assalto, e molta selva 
Gittò nel fondo per zavorra o stiva. 
Le tue tele, o Calipso, in man gli andare, 
E buona gli uscì pur di man la vela. 
Cui le funi legò, legò le sarte. 
La poggia e i'orza: al fin, possenti leve 
Supposte, spinse il suo naviglio in mare, 
Che il di quarto spi end ea. Jja Dea nel quinto 

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(v. 337-372) LIBRO v. 97 

Congedollo dall'isola: odorate 

Vesti gli cinse dopo un caldo bagno; 

Due otri, Tun di rosseggiante vino. 

Dì limpid'acqua Taltro, e un zaino, in cui 

Molte chiudeansi dilettose dapi. 

Collocò nella barca; e fu suo dono 

Un lenissimo ancor vento innocente, 

Che mandò innanzi ad increspargli il mare. 

Lieto l'eroe dell'innocente vento, 
La vela dispiegò. Quindi al timone 
Sedendo, il corso dirigea con arte; 
Né gli cadea su le palpebre il sonno, 
Mentre attento le Pleiadi mirava, 
E il tardo a tramontar Boote, e l'Orsa 
Che detta è pure il Carro, e là si gira, 
Guardando sempre in Orione, e sola 
Nel liquido Oceàn sdegna lavarsi: 
L'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca 
Lasciar dovea, come la Diva ingiunse. 
Dieci pellegrinava e sette giorni 
Su i campi d'Anfìtrite. Il dì novello. 
Gli sorse incontro co* suoi monti ombrosi 
L'isola de'Feaci, a cui la strada 
Conducealo piti corta, e che apparia 
Quasi uno scudo alle fosche onde sopra. 

Sin dai monti di Solima lo scórse 
Veleggiar per le salse onde tranquille 
Il possente Nettun, che ritornava 
Dall'Etiopia, e nel profondo core 
Più crucciato che mai, squassando il capo. 
Poh! disse dentro a sé, nuovo decreto, 
Mentr'io fui tra gli Etiopi, intorno a Uiisse 
Fér dunque i Numi? Ei già la terra vede 
De'Feaci, che il, fato a lui per meta 
Delle sue lunghe disventure assegna. 
Pur molto, io credo, a tollerar gli resta. 
Odissea 7 

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08 , ODISSEA (v. 373-408) 

Tacque; e, dato piglio al gran tridente, 
Le nubi radunò, sconvolse l'acque, 
Tutte incitò di tutti i venti Tire, 
E la terra di nuvoli coverse, 
Coverse il mar; notte di ciel giù scese. 
S'avventare sul mar quasi in un groppo 
Ed Euro e Noto, e il celere Ponente, 
E Aquilon, che pruine aspre su Tali 
Reca, ed immensi flutti innalza e volve. 
Discior sentissi le ginocchia e il core 
Di Laerte il figliuol, che tal si dolse 
Nel secreto deiralma: Ahi me infelice! 
Che di me sarà omai? Temo, non torni 
Verace troppo della Ninfa il detto, 
Che al patrio nido io giungerei per mezzo 
Delle fatiche solo e deirangbscie. 
Di quai nuvole il cielo ampio inghirlanda 
Giove, ed il mar conturba? E come tutti 
Fremono i venti? A certa morte io corro. 
Oh tre fiate fortunati e quattro. 
Cui perir fu concesso innanzi a Troia, 
Per gli Atridi pugnando! E perchè allora 
Non caddi anch'io, che al morto Achille intorno 
Tante i troiani in me lance scagliaro? 
Sepolto i Greci co* funebri onori 
M'avriano, e alzato ne' lor canti al cielo, 
Or per via così infausta ir deggio a Dite. 

Mentre cosi doleasi, un'onda grande 
Venne d'alto con furia, e urtò la barca, 
E rigirolla; e lui, che andar lasciossi 
Dalle mani il timon, fuori ne spinse. 
Turbine orrendo d'aggroppati venti 
L'albero a mezzo gli fiaccò: lontane 
Vela ed antenna caddero. Ei gran tempo 
Stette di sotto, mal potendo il capo 
Levar dall'onde impetuose e grosse; 

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(v. 409-444) LIBRO V. 99 

Che le vesti gravavanlo, che in dono 
Da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta 
Dalla bocca gli uscia, gli piovea molta 
Dalla testa e dal crine onda salata. 
Non però della zatta il prese oblio: 
Ma, da sé i flutti respingendo, ratto 
L'apprese, e già di sopra, il fin di morte 
Schivando, vi sedea. Rapiala il fiotto 
Qua e là per lo golfo. A quella guisa 
Che sovra i campi il Tramontan d'autunno 
Fascio trabalza d'annodate spine, 
I venti trabalzavano sul mai»6. 
Or Noto da portare a Borea Toffre, 
Ed or, perchè davanti a sé la cacci, 
Euro la cede d'Occidente al vento. 

La bella il vide dal tallon di perla 
Figlia di Cadmo, Ino chiamata slÌ tempo 
Che vivea tra i mortali: or nel mar gode 
Divini onori, e Leucotèa si noma. 
Compunta il cor per lui d'alta pietade. 
S'alzò dell'onda fuor, qual mergo, a volo, 
E, da le travi bene avvinte assisa. 
Cosi gli favellò: Perché meschino, 
S'accese mai con te d'ira si acerba 
Lo Scotitor della terrena mole, 
Che ti semina i mali? Ah! non fia certo 
Ch'ei, per quanto il desìi, spenga i tuoi giorni. 
Fa', poiché vista m* hai d'uomo non folle. 
Ciò ch'io t'insegno. I panni tuoi svestiti, 
Lascia il naviglio da portarsi ai venti, 
E a nuoto cerca il Feacese lido^ 
Che per meta de' guai t'assegna il fato. 
Ma questa prendi, e la t'avvolgi al petto, 
Fascia immortai, né temer morte o danno. 
Tocco della Feacia il lido appena. 
Spogliala, e in mar dal continente lungi 

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100 ODISSEA (v. 445-480 

La gitta, torci nel gittarla il volto. 
Ciò detto, e a lui Timmortal fascia data. 
Rientrò, pur qual mergo, in seno al fosco 
Mare ondeggiante, che su lei si chiuse. 

Pensoso resta e in forse il paziente 
Laerziade divino, e con sé stesso, 
Raddoppiando i sospir, tal si consiglia: 
Ohimè! che nuovo non mi tessa inganno 
De' sempiterni alcun, che dal mio legno 
Partir m'ingiunge, lo così tosto penso 
Non ubbidirgli; che la terra, dove 
Di scampo ei m'affidò, troppo* è lontana. 
Ma ecco quel che ottimo parmi: quanto 
Congiunte rimarran tra lor le travi, 
Non abbandonerolle, e co' disastri 
Fermo io combatterò. Sciorralle il flutto? 
Porrommi a nuoto; né veder so meglio. 

Tai cose in sé volgea, quando Nettuno, 
Sollevò ujQ'onda immensa, orrenda, grave 
Di monte in guisa, e la sospinse. Come 
Disperse qua e là vanno le secche 
Paglie, di cui sorgea gran mucchio in prima, 
Se mai le investe un furioso turbo, 
Le tavole pel mar disperse andaro. 
Sovra un sol trave a cavalcioni Ulisse 
Montava: i panni che la Dea Calipso i 

Dati gli avea, svesti, s'avvolse al petto 
L' immortai benda, e si gittò ne' gorghi 
Boccon, le braccia per notare aprendo. 
Né già s'ascose dal ceruleo Iddio, 
Che, la testa crollando, A questo modo 
Erra, dicea tra sé, di flutto in flutto 
Dopo tante sciagure, e a genti arriva 
Da Giove amate: benché speme io porti 
Che né tra quelle brillerai di gioia. 
Cosi Nettuno; e della verde sferza 

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(V. 481-516) LIBRO V. 101 

Toccò i caralli, alle leggiadre chiome. 
Che il condussero ad Ega, ove gli splende 
Nobile altezza di real palagio. 

Pallade intanto, la prudente figlia 
Di Giove, altro pensò. Fermò gli alati 
Venti, e silenzio impose loro, e tutti 
Gli avvinse di sopor, fuorché il veloce 
Borea, che, da lei spinto, i vasti flutti 
Dinanzi a Ulisse infranse, ond'ei le rive 
Del vago di remar popol Feace 
Pigliar potesse, ed ingannar la Parca. 
Due giorDÌ in cotal foggia, e tante notti 
Per l'ampio golfo errava, e spesso il core 
Morte gli presagia. Ma quando l'Alba 
Cinta la fronte di purpuree rose 
Il dì terzo recò, tacquesi il vento, 
E un tranquillo seren regnava intorno. 
Ulisse allor, cui levò in alto un grosso 
Flutto, la terra non lontana scòrse, 
Forte aguzzando le bramose ciglia. 
Quale appar dolce a un fìgliuol pio la vista 
Del genitor che su dolente letto 
Scarno, smunto, distrutto, e da un maligno 
Demone giacque lunghi di percosso, 
E poi del micidial morbo cortesi 
Il disciolser gli Dei: tale ad Ulisse 
La terra e il verde della selva apparve. 
Quinci ei, notando, ambi movea di tutta 
Sua forza i piedi a quella volta. Come 
Presso ne fu, quanto d'uom corre un grido. 
Fiero il colpì romor: poiché i ruttati 
Sin dal fondo del mar flutti tremendi. 
Che agli aspri si rompean lidi Tonchiosi 
Strepitavan, mugghiavano, e di bianca 
Spuma coprian tutta la sponda, mentre 
Porto capace di navigli, o seno 

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102 ODissfiA (v. 517-552) 

Non vi s'apria, ma littorali punte 
Risaltavano in fuori, e scogli. e sassi. 

Le forze a tanto ed il coraggio Ulisse 
Fallir si sente, e dice a sé, gemendo: 
Qual prò che Giove il disperato suolo 
Mostri, e io m'abbia la via per Tonde aperta, 
Se dell'uscirne fuor non veggio il come? 
Sporgon su l'onde acuti sassi, a cui 
L'impetuoso flutto intorno freme, 
E una rupe va su liscia e lucente: 
Né così basso è il mar, che nell'arena 
Fermare il pie securameute io valga. 
Quindi, s'io trar men voglio, un gran maroso 
Sovra di sé può termi, e in dura pietra 
Cacciarmi; o s'io lungo le rupi cerco 
Notando un porto, o una declive schiena. 
Temo, non procellosa onda m'avvolga, 
E sospirando gravemente in grembo 
Mi risospinga del pescoso mare. 
Forse un de' mostri ancor, che molti nutre 
Ne' gorghi suoi la nobile Anfìtrite, 
M'assalirà: che l'odio io ben conobbi, 
Che m'ha quel Dio per cui la terra trema. 

Stando egli in tai pensieri, una sconcia onda 
Traportollo con sé vèr l'ineguale 
Spiaggia, che lacerata in un sol punto 
La pelle avriagli, e sgretolate l'ossa. 
Senza un consiglio, che nel cor gli pose 
L'occhicerulea Diva. Afferrò ad ambe 
Mani la rupe, in ch'ei già dava, e ad essa 
Gemendo s'attenea. Deluso intanto 
Gli passò sulla testa il violento 
Flutto: se non che poi tornando indietro. 
Con nuova furia il ripercosse, e lunge 
Lo sbalzò della spiaggia al mare in grembo. 
Polpo così dalla pietrosa tana 

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(v. 553-588) LIBRO v. 103 

Strappato Tien; salvo che a lui non pochi 
Restan lapilli nelle branche infìtti; 
E Ulisse in vece la squarciata pelle 
Delle nervose man lasciò alla rupe. 
L'onde allora il coprirò, e l'infelice 
Contra il fato perla: ma infuse a lui 
Nuovo pensier T Occhiazzurina. Sorto 
Dall'onde, il lido costeggiava, ai flutti. 
Che vel portavan, contrastando, e attento 
Mirando sempre, se da qualche parte 
Scendesse una pendice, o un seno entrasse: 
Né dall'opra cessò, che d'un bel fiume 
Giunto si vide all'argentina foce. 
Ottimo qui gli sembrò il loco al fine, 
Siccome quel che né di sassi aspro era. 
Né discoperto ai venti. Avvisò ratto 
Il puro umor. che devolveasi al mare, 
E tal dentro di sé preghiera feo: 
chiunque tu sii Re di quest'acque. 
Odimi: a te. cui sospirai cotanto. 
Gli sdegni di Nettuno e le niinacce 
Fuggendo, io m'appresento. È sacra cosa 
Per l'Immortali ancor l'uom, che d'altronde 
Venga errando, com'io, che dopo molti 
Durati affanni ecco alla tua corrente 
Giungo, e ai ginocchi tuoi. Pietà d'Ulisse, 
Che tuo supplice vedi, o Re, ti prenda. 

Disse ; ed il Nume acchetò ih corso; e l'onda 
Ritenne, sparse una perfetta calma, 
E alla foce il salvò del suo bel flume. 
L'eroe, tocca la terra, ambo i ginocchi 
Piegò, piegò le nerborute braccia: 
Tanto il gran sale l'affìiggea. Gonfiava 
Tutto quanto il suo corpo, e per la bocca 
Molto mar gli sgorgava, e per le nari, 
Ed ei senza respiro e senza voce 

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104 ODISSEA {t. 589-tf24) 

Giaceasi, e spento di vigore affatto; 

Che troppa nel suo corpo entrò stanchezza; 

Ma come il fiato ed il pensier riebbe. 

Tosto dal petto la divina benda 

Sciolse, e gittolla ove amareggia il fiume. 

La corrente rapi vaia; né tarda 

A riprenderla fu con man la Dea. 

Ei, ddironda ritrattosi, chinossì 

Su i molli giunchi, e baciò Talma Terra. 

Poi nel secreto della sua grand'alma 

Cosi parlava, e sospirava insieme: 

Eterni Dei, che mi rimane ancora 

Di periglioso. a tollerar? Dov'io 

Questa gravosa notte al fiume in riva 

Vegghiassi, Taer freddo e il molle guazzo 

Potrian me di persona e d'alma infermo 

Struggere al tutto; che su i primi albori 

Nemica brezza spirerà dal fiume. 

Salirò al colle in vece, ed all'ombrosa 

Selva, e m'addormirò tra i folti arbusti. 

Sol che non vieti la fiacchezza o il ghiado, 

Che il sonno in me passi furtivo? Preda " 

Diventar delle fere e pasto io temo. 

Dopo molto dubbiar questo gli parve 
Men reo partito. Si rivolse al bosco. 
Che non luuge dall'acque a un poggio in cima 
Pea di He mostra, e s'internò tra due 
Si vicini arboscei, che dalla stessa 
Radice uscir pareano, ambi d'ulivo. 
Ma domestico Tun, l'altro selvaggio. 
La forza non croUavali de' venti. 
Né l'igneo Sole co' suoi raggi addentro 
Li saettava, né le dense piogge 
Penetravan tra lor: sì uniti insieme 
Crebbero, e tanto s'intrecciare i rami. 
Ulisse sottentrovvi, e ammonticossi, 

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(v. 625-642) LIBRO V. 105 

Di propria man comodo letto, quando 
Tal ricchezza era qui di foglie sparse, 
Che ripararvi uomini tre, non che uno. 
Potuto avriano ai più crudeli verni. 
Gioì alla vista delle molte foglie 
L'uom divino, e corcossi entro alle foglie, 
E a sé di foglie sovrappose un monte. 
Come se alcun che solitaria suole 
Gondar la vita in sul confìn d'un campo. 
Tizzo nasconde fumeggiante ancora 
Sotto la hruna cenere, e del foco, 
Perchè cercar da sé lungi noi debha. 
Serba in tal modo il prezioso seme: 
Così celossi tra le foglie Ulisse. 
Pallade allor, che di si rea fatica 
Bramava torgli l'importuno senso, 
Un sonno gli versò dolce negli occhi. 
Le dilette palpebre a lui velando. 



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LIBRO SESTO 



ARGOMENTO 

Pallade va nelFisola de' Feaci, ed appare in sogno a Nauaica 
figlia del re Alcinoo; e l'esorta condursi al fiume a lavar 
le vesti, avvicinandosi il giorno delle sue nozze. — Nausica, 
ottenuto dal padre il cocchio esce della cittii. — Lavate le 
vesti, mettesi a giocare alla palla colle sue ancelle. — Lo 
strepito risveglia Ulisse, che ancor dormia, e che presen- 
tanosi alla Principessa, pregala di sowenimento, -* Ella il 
soccorre di cibo e vestito, e guidalo alla città. 



Mentre sepolto in un profondo sonno 
Colà posava il travagliato Ulisse, 
Minerva al popol de*Feaci, e ali alta 
Lor città s'avviò. Questi da prima 
Ne* vasti d'Iperèa fecondi piani 
Far dimora solean, presso 1 Ciclopi, 
Gente di cuor superbo, e a' suoi vicini 
Tanto molesta più, quanto piti forte. 
Quindi Nausitoo, somigliante a un Dio, 
Di tal sede levoUi, e in una terra. 
Che dagli uomini industri il mar divide. 
Gli allogò, nella Scheria; e qui condusse 
Alla cittade una muraglia intorno, 
Le case fabbricò, divise i campi, 
B agl'Immortali i sacri templi eresse. 
Colpito dalla Parca, ai foschi regni 
Era già sceso, e Alcinoo, che i beati 
Numi assennato avean, reggea lo scettro. 

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(v. 19-54) LIBRO VI. 107 

L*occhicilestra Dea, che sempre fissa 
Nel ritorno d'Ulisse avea la mente, 
Tenne verso la reggia, e alla secreta 
Dedalea stanza si rivolse, dove 
Giovinetta dormia, che le Immortali 
D'indole somigliava e di fattezze^ 
Naosica, del re figlia; ed alla porta. 
Che rinchiusa era, e risplendea nel buio, 
Giacean due, Tuna quinci e Taltra quindi, 
Pudiche ancelle, cui le Grazie istesse 
Di non vulgar beltà la faccia ornare. 

La Dea che gli occhi in azzurrino tinge. 
Quasi fiato leggier di picciol vento, 
S'avvicinò della fanciulla al letto, 
E sul capo le stette, e, preso il volto 
Della figlia del prode in mar Dimante 
Molto a lei cara, e ugual d'etade a lei, 
Cotali le drizzò voci nel sonno: 
Deh, Nausica, perchè te così lenta 
La genitrice partorì? Neglette 
Lasci giacerti le leggiadre vesti, 
Benché delle tue nozze il dì s'appressi, 
Quando le membra tue cinger dovrai 
Delle vesti leggiadre, e a quelli offrirne, 
Che scorgeranti dello sposo ai tetti. 
Cosi fama s'acquista, e ne gioisce 
Col genitor la veneranda madre. 
Dunque i bei panni, come il cielo imbianchi. 
Vadasi a por nell'onda: io nell'impresa, 
Onde trarla più ratto a fin tu possi. 
Compagna ti sarò. Vergine, io credo. 
Non rimarrai gran pezza; e già di questo. 
Tra cui nascesti e tu, popol feace 
I migliori ti ambiscono. Su via. 
Spuntato appena in Oriente il Sole, 
Trova l'inclito padre, e de' gagliardi 

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108 ODISSEA (v. 55-90) 

Muli il richiedi, e del polito carro, 

Che i pepli, gli scheggiali e i preziosi 

Manti conduca: poiché sì distanno 

Dalia città i lavacri, che del cocchio 

Valerti, e non del piede, a te s'addice. 

Finiti ch*ehbe tali accenti, e messo 

Consiglio tal della fanciulla in petto. 

La Dea, che guarda con azzurre luci, 

AirOlimpo tornò, tornò alla ferma 

De' sempiterni Dei sede tranquilla. 

Che né i venti commovono, né bagna 

La pioggia mai, né mai la neve ingombra ; 

Ma un seren puro vi si spande sopra 

Da nube alcuna non offeso, e un vivo 

Candido lume la circonda, in cui 

Si giocondan mai sempre i Dii beati. , 

L'Aurora intanto d'in su l'aureo trono 
Comparve in Oriente, e alla sopita ' 

Vergine dal bel peplo i lumi aperse. i 

La giovinetta s'ammirò del sogno, ' 

E al padre per narrarlo, ed alla madre 1 

Corse, e trovoUi nel palagio entrambi. . I 
La madre assisa al focolare, e cinta j 

Dalle sue fanti, e, con la destra al fuso, I 

Lane di fina porpora torcea. j 

Ma nel caro suo padre, in quel che al grande j 
Concilio andava, ove attendevanlo i capi 
De'Feacesi, s'abbattè Nausica, 
E, stringendosi a lui, Babbo mio dolce, 
Non vuoi tu farmi apparecchiar, gli disse, 
L'eccelso carro dalle lievi ruote, 
Acciocché le neglette io rechi al fiume 
Vesti oscurate, e nitide le torni? 
Troppo a te si convien, che tra i soprani 
Nelle consulte ragionando siedi, 
Seder con monde vestimenta in dosso. 

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(V. 91-126) LIBRO VI. 109 

GÌDque in casa ti vedi amati :^li, 

Due già nel maritaggio, e tre cui ride 

Celibe fior di giovinezza in. volto. 

Questi al ballo ir vorrian con panni sempre 

Giunti dalle lavande allora allora. 

E tai cose a me son pur tutte in cura. 

Tacquesi a tanto; che toccar le nozze 
Suo giovanili non s'ardia col padre. 
Ma ei comprese il tutto, e sì rispose: 
Né di questo io potrei, nò d'altro, o figlia, 
Non soddisfarti. Va': l'altro impalcato 
Carro veloce appresteranti i servi. 
Disse; e gli ordini diede, e pronti i servi 
La mular biga dalle lievi ruote 
Trasser fuori, e allestirò, e i forti muli - 
Vi miser sotto, e gli accoppiare. Intanto 
Venia Nausica con le belle vesti, 
Che su la biga lucida depose. 
Cibi graditi e di sapor diversi 
La madre collocava in gran paniere, 
E nel capace sen d'otre caprigno 
Vino infondea soave: indi alla figlia. 
Ch'era sul cocchio, perchè dopo il bagno 
Sé con le ancelle, che seguianla, ungesse. 
Porse in ampolla d'or liquida oliva. 
Nausica in man le rilucenti briglie 
Prese, prese la sferza, e die di questa 
Sovra il tergo ai quadrupedi robusti. 
Che si moveano strepitando, e i passi 
Sensa posa allungavano, portando 
Le vesti, e la fanciulla, e non lei sola. 
Quando ai fianchi di lei sedean le ancelle. 

Tosto che fur dell'argentino fiume 
Alla pura corrente, ed ai lavacri 
Di viva ridondanti acqua perenne, 
Da cui macchia non è che non si terga, 

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110 ODISSEA (V. 127-162)1 

Sciolsero i muli, e al Torticoso fiume, ' 

Il verde a morsecchiar cibo soave 
Del mèle al pari, li mandaro in riva. ! 

Poscia dal cocchio su le braccia i drappi 
Recavansi, e gittavangli neironda, 
Che nereggiava tutta; e in larghe fosse 
Gianli con presto pie pestando a prova. 
Purgati e netti d'ogni lor bruttura, 
L'uno appo l'altro gli stendean sul lido, 
Là dove le pietruzze il mar poliva. 
Ciò fatto, si bagnò ciascuna, e s'unse, 
E poi del fiume pasteggiar sul margo: 
Mentre d'alto co' raggi aureolucenti 
Gli stesi drappi rasciugava il Sole. 
Ma, spento della mensa ogni desio, 
Una palla godean trattar per gioco, 
Deposti prima dalla testa i veli; 
Ed il canto intonava alle compagne 
Nausica bella dalle bianche braccia. 
Come Diana per gli eccelsi monti 

del Taigeto muove, o d'Erimanto, 
Con la faretra agli omeri, prendendo 
De' ratti cervi e de' cinghiai diletto : 
Scherzan, prole di Giove, a lei d'intorno 
Le boscherecce Ninfe, onde a Latona 
Serpe nel cor tacita gioia; ed ella 

Va del capo sovrana, e della fronte 
Visibilmente a tutte l'altre, e vaga 
Tra loro è più qual da lei meno è vinta: 
Così spiccava tra le ancelle questa 
Da giogo maritai vergine intatta. 
Nella stagion che al suo paterno tetto, 

1 muli aggiunti, e ripiegati i manti, 
Ritornar disponea, nacque un novello 
Consiglio in mente all'occhiglauca Diva, 
Perchò Ulisse dissonnisi, e gli appaia 

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(v. 163-198) UBRO VI. Ili 

La giovinetta dalle nere ciglia, 
Che de' Feaci alla cittade il guidi. 
Nausica in man tolse la palla, e ad nna 
Delle compagne la scagliò: la palla 
Desviossi dal segno a cui volava. 
E Bel profondo vortice cade. 
Tutte misero allora un alto grido, 
Per cui si ruppe incontanente il sonno 
Nel capo a Ulisse, che a seder drizzossi, 
Tal cose in sé volgendo; Ahi fra qual gente 
Mi ritrovo io? Cruda, villana, ingiusta, 
O amica degli estrani, e ai Dii sommessa? 
Quel, che Torecchio mi percosse, un grido 
Femminil parmi di fanciulle Ninfe, 
Che de' monti su i gioghi erti, e de' fiumi 
Nelle sorgenti, e per l'erbose valli 
Albergano. son forse umane voci. 
Che testé mi ferirò? Io senza indugio 
Dagli stessi occhi miei sapronne il vero. 

Ciò detto, uscia l'eroe fuor degli arbusti, 
E con la man gagliarda in quel che uscia, 
Scemò la selva d'un foglioso ramo. 
Che velame gli valse ai fianchi intorno. 
Quale dal natio monte, ove la pioggia 
Sostenne e i venti impetuosi, cala 
Leon, che nelle sue forze confida: 
Foco son gli occhi suoi ; greggia ed armento, 
O le cerve salvatiche, al digiuno 
Ventre ubbidendo, parimente assalta. 
Né, perchè senta ogni pastore in guardia, 
Tutto teme investir l'ovile ancora: 
Tal, benché nudo, sen veniva Ulisse, 
Necessità stringendolo, alla volta 
Delle fanciulle dal ricciuto crine, 
Cui, lordo di salsuggine, come' era. 
Sì fiera cosa rassembrò, che tutte 

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112 ODISSEA (V. 199-234) 

Fuggirò qua e là per TalteVive. 
Sola d'Alcinoo la diletta figlia, 
Cui Pallade nell'alma infase ardire, 
E francò d'ogni tremito le membra, 
Piantossegli di centra, e immota stette. 
In due pensieri ei di videa la mente: 
le ginocchia strignere a Nausica, 
Di supplicante in atto, o di lontano 
Pregarla molto con blande parole, 
Che la città mostrargli, e d'una vesta 
Rifornirlo, volesse, A ciò s'attenne; 
Che dello strigner de* ginocchi sdegno 
Temea che in lei si risvegliasse. Accenti 
Dunque le inviò blandi e accorti a un tempo. 

Regina, odi i miei voti. Ah degg'io Dea 
Chiamarti, o umana donna? Se tu alcuna 
Sei delle Dive che in Olimpo han seggio. 
Alla beltade, agli atti, al maestoso 
Nobile aspetto, io l' immortai Diana, 
Del gran Giove la figlia, in te ravviso. 
E se tra quelli, che la terra nutre. 
Le luci apristi al dì, tre volte il padre 
Beato, e tre la madre veneranda, 
E beati tre volte i tuoi germani, 
Cui di conforto almo s'allarga e brilla 
Di schietta gioia il cor, sempre che in danza 
Veggiono entrar sì grazioso germe. 
Ma felice su tutti oltra ogni detto 
Chi potrà un dì nelle sue case addurti 
D'illustri carca nuziali doni. 
Nulla di tal s'offerse unqua nel volto 
di femmina, o d'uomo, alle mie ciglia: 
Stupor, mirando, e riverenza tiemmi. 
Tal quello era bensì, che un giorno in Delo, 
Presso l'ara d'Apollo, ergerai io vidi 
Nuovo rampollo di mirabil palma: 

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(v. 235-270) LIBRO VI. 113 

Che a Delo ancora io mi condussi, e molta 
Mi seguia gente armata in quel viaggio 
Che in danno riuscir doveami al fine. 
E com'io, fissi nella palma gli occhi, 
Colmo restai di maraviglia, quando 
Di terra mai non surse arbor sì bello, 
Così te, donna, stupefatto ammiro, 
E le ginocchia tue, benché m'opprima 
Dolore immenso, io pur toccar non oso. 
Me uscito deirOgigia isola dieci 
Portava giorni, e dieci il vento e il fiotto. 
Scampai dalFonda ier soltanto, e un Nume 
Su queste piagge, a trovar forse nuovi 
Disastri, mi gittò; poscia che stanchi 
Di travagliarmi non cred'io gli Eterni. 
Pietà di me, Regina, a cui la prima, 
Dopo tante sventure, innanzi io vegno, 
Io, che degli abitanti, o la campagna 
Tengali, o la città, nessun conobbi. 
La cittade m'addita, e un panno dammi, 
Che mi ricopra; dammi un sol, se panni, 
Qua recasti con te, di panni invoglio. 
E a te gli Dei, quanto il tuo cor desia. 
Si compiaccian largir: consorte e figli, 
E un sol volere in due; però ch'io vita 
Non so più invidiabile, che dove 
La propria casa con un' alma sola 
Veggonsi governar marito e donna. 
Duol grande i tristi n'hanno, e gioia i buoni: 
Ma quei ch'esultan più, sono i due sposi. 

forestier, tu non mi sembri punto 
Dissennato e dappoco, allor rispose 
La verginetta dalle bianche braccia. 
L'Olimpio Giove, che sovente al tristo 
Non men che al buon felicità dispensa. 
Mandò a te la sciagura, e tu da forte 

Odissea DigitzedbyGoOglI 



114 ODISSEA (v. 271-306) 

La so&terrai. Ma, poiché ai nostri lidi 
Ti convenne approdar, di veste, o d'altro. 
Che ai supplici si debba, ed ai meschini, 
Non patirai disagio. Io la cittade 
Mostrarti non ricuso, e il nome dirti 
Degli abitanti. È de'Feaci albergo 
Questa fortunata isola; ed io nacqui 
Dal magnanimo Alcinoo, in cui la somma 
Del poter si restringe e dell'impero. 

Tal favellò Nausica; e alle compagne, 
Olà, disse, fermatevi. In qual parte 
Fuggite voi, perchè v'apparse un uomo? 
Mirar credeste d'un nemico il volto? 
Non fu, non è, e non fi a chi a noi s'attenti 
Guerra portar: tanto agli Dei siam cari. 
Oltre che in sen dell'ondeggiante mare 
Solitari viviam, viviam divisi 
Da tutto l'altro della stirpe umana. 
Un misero è costui, che a queste piagge 
Capitò errando, a cui pensare or vuoisi. 
Gli stranieri, vedete, ed i mendichi 
Vengon da Giove tutti, e non v'ha dono 
Picciolo sì, che lor non torni caro. 
Su via, di cibo e di bevanda il nuovo 
Ospite soccorrete; e pria d'un bagno 
Colà nel fiume, ove non puote il vento. 

Le compagne ristéro, ed a vicenda 
Si rincoraro; e, come avea d'Alcinoo j 

La figlia ingiunto, sotto un bel frascato i 

Menaro Ulisse, e accanto a lui le vesti 
Poser, tunica e manto, e la rinchiusa 
Nell'ampolla dell'or liquida oliva: ' 

Quindi ad entrar col pie nella corrente ' 

Lo inanimirò. Ma l'eroe: Fanciulle, 
Appartarvi da me non vi sia grave, 1 

Finché io questa salsuggine marina ' 

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(r. 307-342) libro vi. 115 

Mi terga io stesso, e del salubre m'unga 

Dell'oliva licor, conforto ignoto 

Da lungo teinpo alle mie membra. Io certo 

Non laverommi nel cospetto vostro; 

Che tra voi starmi non ardisco ignudo. 

Trasser le ancelle indietro, ed a Nausica 
Ciò riportaro. Ei dalle membra il sozzo 
Nettunio sai, che gì* incrostò le larghe 
Spalle ed il tergo, si togliea col fiume, 
E la bruttura del feroce mare 
Dal capb s'astergea. Ma come tutto 
Si fu lavato ed unto, e di que' panni 
Vestito, ch'ebbe da Nausica in dono, 
Lui Minerva, la prole alma di Giove, 
Maggior d'aspetto, e più ricolmo in faccia 
Rese, e più fresco, e de' capei lucenti, 
Che di giacinto a fior parean sembianti, 
Su gli omeri cader gli feo le anella. 
E qual se dotto mastro, a cui dell'arte 
Nulla celaro Pallade e Vulcano, 
Sparge all'argento il liquid'oro intorno 
Sì, che all'ultimo suo giunge con l'opra: 
Tale ad Ulisse TAtenèa Minerva 
Gli omeri e il capo di decoro asperse, 
Ad Ulisse, che poscia, ito in disparte. 
Su la riva sedea del mar canuto. 
Di grazia irradiato e di beltade. 

La donzella stordiva, ed all'ancelle 
Dal crin ricciuto disse: Un mio pensiero 
Nascondervi io non posso. Avversi, il giorno 
Che le nostre afferrò sponde beate. 
Non erano a costui tutti del cielo 
Gli abitatori: egli d'uom vile e abbietto 
Vista m'avea da prima, ed or simile 
Sembrami a un Dio che su l'Olimpo siede. 
Oh colui fosse tal, che i Numi a sposo 

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116 ODISSEA (v. 343.378) 

Mi destinaro! Ed oh piacesse a lui 

Fermar qui la sua stanza! OrsìJ, di cibo 

Sovvenitelo, amiche, e di bevanda. 

Quelle ascoltaro con orecchio teso, 

E il comando seguir: cibo e bevanda 

All'ospite imbandirò^ e il paziente 

Divino Ulisse con bramose fauci 

L*uno e Taltra prendea, qual chi gran tempo 

Bramò ì ristori della mensa indarno. 

Qui Tocchinera vergine novello 
Partito immaginò. Sul vago carro 
Le ripiegate vestimenta posa, 
Aggiunse i muli di forte unghia, e salse. 
Poi cosi Ulisse confortava: Sorgi, 
Stranier, se alla cittade ir ti talenta, 
E il mio padre veder, nel cui palagio 
S' accoglieran della Feacia i capi. 
Ma, quando folle non mi sembri punto, 
Cotal modo terrai. Finché moviamo 
De* buoi tra le fatiche e de' coloni, 
Tu con le ancelle dopo il carro vieni 
Non lentamente: io ti sarò per guida. 
Come da presso la cittade avremo, 
Divideremci. É la città da un alto 
Muro cerchiata, e due bei porti vanta 
D'angusta foce, un quinci, e Taltro quindi 
Su le cui rive tutti in lunga fila 
Posan dal mare i naviganti legni. 
Tra un porto e l'altro si distende il fòro 
Di pietre quadre, e da vicina cava 
Condotte, lastricato; e al fòro in mezzo 
L'antico tempio di Nettun si leva. 
Colà gli arnesi delle negre navi. 
Gomene e vele, a racconciar s'intende, 
E i remi a ripolir: che de'Feaci 
Non lusingano il core archi e farètre, 

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(v. 379-414) LIBRO VI. 117 

Ma veleggianti o remiganti navi, 

Su cui passano allegri il mar spumante. 

Di cotestoro a mio potere io sfuggo 

Le voci amare, non alcun da tergo 

Mi morda, e tal, che s'abbattesse a noi, 

Della feccia più vii. Chi è, non dica. 

Quel forestiero che Nausica siegue. 

Bello d'aspetto e grande? Ove trovollo? 

Certo è lo sposo. Forse alcun di quelli. 

Che da noi parte il mar, ramingo giunse. 

Ed ella il ricevè, che uscia di nave: 

da lunghi chiamato ardenti voti 

Scese di cielo, jq le comparve un Nume 

Che seco riterrà tutti i suoi giorni. 

Più bello ancor, se andò ella stessa in traccia 

D'uom d'altronde venuto, e a lui donossi. 

Dappoi che i molti, che l'ambiano, illustri 

Feaci tanto avanti ebbe in dispetto. 

Cosi diriano; e crudelmente offesa 

Ne saria la mia fama, lo stessa sdegno 

Concepirei centra chiunque osasse. 

De' genitori non contenti in faccia. 

Pria meschiarsi con gli uomini, che sorto 

Fosse delle sue nozze il dì festivo. 

Dunque a' miei detti bada; e leggiermente 

Ritorno e scorta impetrerai dal padre. 

Folto di pioppi ed a Minerva sacro 

Ci s'offrirà per via bosco fronzuto. 

Cui viva fonte bagna, e molli prati 

Cingono: ivi non più dalla cittade 

Lontan, che un gridar d'uomo, il bel podere 

Giace del padre, e l'orto suo verdeggia. 

Ivi, tanto che a quella ed al paterno 

Tetto io giunga, sostieni; e allor che giunta 

Mi crederai, tu pur t'inurba, e cerca 

Il palagio del Re. Del Re il palagio 

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118 ODISSEA (v. 415-450) 

Gli occhi tosto a sé chiama, e un faacialli&o 
Vi ti potria condur; che de'Feaci 
Non sorge ostello che il paterno adegui. 
Entrato nel cortil, rapidamente 
Sino alla madre mia per le superbe 
Camere varca. Ella davanti al foco, 
Che del suo lume le colora il volto, 
Siede, e, poggiata a una colonna, torce, 
Degli sguardi stupor, purpuree lane. 
Siedonle a tergo le fantesche, e presso 
S'alza del padre il trono, in ch'ei, qual Dio, 
S'adagia, e della vite il nettar bee. 
Declina il trono, e stendi alle ginocchia 
Della madre le braccia; onde tra poco 
Del tuo ritorno alle natie contrade. 
Per remote che sien, ti spunti il giorno. 
Studiati entrarle tanto o quanto in core; 
E di non riveder le patrie sponde. 
Gli alberghi aviti, e degli amici il volto. 
Bandisci dalla mente ogni sospetto. i 

Detto così, della lucente sferza I 

Die su le groppe ai vigorosi muli, | 

Che pronti si lasciaro il fìume addietro. ^ 

Venian correndo, ed alternando a gara, i 

Bello a vedersi, le nervose gambe; ' 

E la donzella, perchè Ulisse a piede 
Lei con le ancelle seguitar potesse, 
Attenta carreggiava, e fea con arte 
Scoppiare in alto della sferza il suono. 
Cadea nell'acque occidentali il Sole, 
Che al sacro di Minerva illustre bosco 
Furo; ed Ulisse ivi s' assise. Quindi 
A Minerva pregava in tali accenti: 
Odimi, invitta dell'Egioco figlia. 
Ed oggi almen fa' pieni i voti miei 
Tu, che pieni i miei voti unqua non 

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(v. 451-458) LIBRO VI. 119 

Finché su l'onde mi sbalzò Nettuno. 
Tu dammi, che gradito, e non indegno 
Di pietade, ai Peaci io m' appresenti. 

Disse, e Palla Tudì: ma non ancora 
Visibilmente gli assistea, per tema 
Del zio possente, al cui tremendo cruccio 
Era, pria che i natii lidi toccasse, 
Bersaglio eterno il pari ai Numi Ulisse. 



LIBRO SETTIMO 



ARGOMENTO 

Naasica giunge alla citt^ ed alla reggia, e Ulisse poco dopo, 
a cui Minerva sotto umana forma presentasi , e cui di più 
cose informa, che saper gli conviene. — Stupore di lui alla 
vista del palagio d'Alcinoo , e descrizione così di questo, 
come del famoso giardino. — Entrato nel palagio, supplica 
la regina Arete, dalla quale, come pur dai Re e dagli altri 
capi, è con benignità ricevuto. — Interrogato dalla Regina, 
che riconobbe le vesti ch'egli avea indosso, narra in qual 
modo capitò, lasciata Calìpso, all'isola de* Feaci. 



Mentre così pregava il paziente 
Divino Ulisse, dal vigor de' muli 
Portata era Nausica alla cittade. 
Giunta d'Alcinoo alla magion sublime, 
S'arrestò nel vestibolo; e i germani. 
Belli al par degli Eterni, intorno a lei 
D'ogni parte venian: sciolsero i muli, 
E le vesti recaro entro la reggia. 
Ma la fanciulla il piede alla secreta 

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120 ODISSEA (v. 10-45) 

Movea sua stanza, e raccendeale il foco 
Eurimedusa, una sua vecchia fante, 
Nata in Epiro, e su le negre navi 
Condotta, e al prode Alcinoo oiferta in dono, 
Perchè ai Feaci ei comandava, e lui, 
Qual se un Dio favellasse, udian le genti. 
Costei Nausica dal braccio di neve 
RaUevò nel palagio; ed ora il foco 
Raccendeale, e mettea la cena in punto. 
Ulisse intanto sorse, e il cammin prese 
Della città. Ma l'Atenèa Minerva, 
Che da lui non torcea rocchio giammai. 
Di molta il cinse impenetrabil nebbia, 
Onde nessun Feace o di parole, 
Scontrandolo, il mordesse, o il domandasse 
Del nome e della patria. Ei già già entrava 
Nell'amena città, quando la Diva 
Gli occhi cerulea se gli fece incontro, 
Non dissimile a vergine che piena 
Sul giovinetto capo urna sostenti. 
Stettegli a fronte in tal sembianza, e Ulisse 
Così la interrogava: figlia, al tetto 
D'Alcinoo, che tra questi uomini impera, 
Vuoi tu condurmi 9 Io forestier di lunge, 
E dopo molti guai venni, né alcuno 
Della città conobbi o del contorno. 
Ospite padre, rispondea la Diva 
Dai glauchi lumi, il tetto desiato 
Mostrar ti posso di leggier; che quello . 
Del mio buon genitor per poco il tocca. 
Ma in silenzio tu seguimi, e lo sguardo 
Non drizzare al alcun, non che la voce. 
Render costoro agli stranieri onore 
Non sanno punto, né accoglienze amiche 
Trova, o carezze qui, chi altronde giunga. 
Essi fidando nelle ratte navi, 

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(t. 46-81) LIBRO VII. 121 

Per favor di Nettuno il vasto mare 

In un istante varcano; veloci 

Come Tale o il pensier sono i lor legni. 

Dette tai cose, frettolosa Palla 
Gli entrava innanzi, e Torme ei ne calcava; 
Né i Feaci scorgeanlo andar tra loro, 
Cosi volendo la possente Diva, 
Pallade, che al suo ben sempre intendea, 
E di sacra ravvolse oscura nube. 
Ulisse i porti e i ben costrutti legni 
Maravigliava, e le superbe piazze, 
Ove i prenci s'assembrano, e le lunghe. 
Spettacolo ammirando, eccelse mura 
Di steccati munite e di ripari. 
Ma non prima d'Alcinoo alle regali 
Case appressare, che Minerva* disse: 
Eccoti, ospite padre, in faccia il tetto 
Che mi richiedi: là vedrai gli alunni 
Di Giove, i prenci, a lauta mensa assisi. 
Cacciati dentro, e non temer: l'uom franco 
D'ogni difficoltate, a cui s'incontri, 
Meglio si trae, benché di lunge arrivi. 
Pria la regìua, che si noma Arete, 
E comun con Alcinoo il sangue vanta, 
Ti s'oflfrirà alla vista. 11 Dio che scuote 
Del suo tridente la terrena mole, 
Un bambin ricevè dalla più bella 
Donna di quell'età, da Peribèa, 
Figlia minor di Eurimedonte, a cui 
De' Giganti obbedia l'oltracotata 
Progenie rea, che per le lunghe guerre 
Tutta col suo Re stesso al fin s' estinse. 
Nettun di lei s'accese, e n'ebbe un figlio, 
Nausitoo generoso, il qual fu padre 
Di Ressenore e Alcinoo; e sul Fsace 
Popol regnava. Il primo, a cui fallia 

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122 ODISSEA (v. 82-117) 

Prole del miglior sesso, avea di poco 

Nella sua reggia la consorte addotta, 

Che Apollo dall'argenteo arco il trafisse; 

Nò rimase di lui che una figliuola^ 

Arete, e questa in moglie Alcinoo tolse, 

E venerolla fieramente: donna 

Non vive in nodi maritali stretta. 

Che si alto al suo sposo in mente sieda. 

E in gran pregio non men Thanno, ed amore 

Portanle i figli, e i cittadini ancora. 

Che a lei, quandunque va per la cittade, 

Gli occhi alzan, come a Diva, e con accenti 

Festivi la ricevono; che senno 

Né a lei pur manca vèr chi piti tien caro, 

E le liti non rado ella compone. 

Se un loco prender nel suo cor tu sai. 

La terra, dove i lumi apristi al giorno. 

La magion de* tuoi padri, e degli amici 

I noti volti riveder confida. 

Detto, la Dea eh' è nelle luci azzurra 
Su pel mare infruttifero lanciossi, 
Lasciò la bella Scheda, e Maratona 
Trovò, ed Atene dalle larghe vie, 
E nel suo tempio entrò, che d'Erettèo 
Fu ròcca inespugnabile. Ma Ulisse 
All'ostello reale il pie movea, 
E molte cose rivolgea per l'alma. 
Pria ch'ei toccasse della soglia il bronzo: 
Che d'Alcinoo magnanimo l'augusto 
Palagio chiara, qual di Sole o Luna, 
Mandava luce. Dalla prima soglia 
Sino al fondo correan due di massiccio 
Rame pareti risplendenti, e un fregio 
Di ceruleo metal girava intorno. 
Porte d'or tutte la inconcussa casa 
Chiudean : s'erg>an dal limitar di bronzo 

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(v. 118-153) LIBRO VII. 123 

Saldi stipiti argentei, ed un argenteo 
Sosteneano architrave, e anello d'oro 
Le porte ornava; d'ambo i lati a cui 
Stavan d'argento e d'or vigili cani. 
Fattura di Vulcan, che in lor ripose 
Viscere dotte, e da vecchiezza immuni 
TemperoUi, e da morte, onde guardato 
Fosso d'Alcinoo il glorioso albergo, 
B quanto si stendean le due pareti. 
Eranvì sedie quinci e quindi affisse 
Con fini pepli sovrapposti, lunga 
Delle donne di Scheria opra solerte. 
Qui de' Feaci s'assideano i primi , 
La mano ai cibi ed ai licer porgendo, 
Che lor metteansi ciascun giorno avante: 
K la notte garzoni in oro sculti 
Su piedistalli a grande arte construtti 
Spargean lume con faci in su le mense. 
Cinquanta il Re servono ancelle: l'une 
Sotto pietra ritonda il biondo grano 
Frangono; e l'altre o tesson panni, o fusi 
Con la rapida man rotano assise , 
Movendosi ad ognor, quali agitate 
Dal vento foglie di sublime pioppo. 
Splendono i drappi a maraviglia intesti, 
Come se un olio d'or su vi scorresse. 
Poiché quanto i Feaci a regger navi 
Gente non han che li pareggi, tanto 
Valgon tele in oprar le Feacesi, 
Cui mano industre più che alle altre donne 
Diede Minerva, e più sottile ingegno. 

Ma di fianco alla reggia un orto grande,- 
Quanto ponno in dì quattro arar due tori, 
Stendesi, e viva siepe il cinge tutto. 
Alte vi crescon verdeggianti piante, 
11 pero e il melagrano, e di vermigli 

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124 ODISSEA (v. 154-189> 

Pomi carico il melo, e col soave 

Fico nettareo la canuta oliva. 

Né il frutto qui, regni la state, o il verno. 

Pére, e non esce fuor: quando si dolce 

D'ogni stagione un zefìretto spira, 

Che mentre, spunta Tun, Taltro matura, 

Sovra la pera giovane e su l'uva. 

L'uva e la pera invecchia, e i pomi a i fichi 

Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata 

Vi lussureggia una feconda vigna, 

De* cui grappoli il Sol parte dissecca 

Nel più aereo ed aprico, e parte altrove 

La man dispicca dai fogliosi trxilci, 

calca il pie ne' larghi tini: acerbe 

Qua buttan Tuve i redolenti fiori, 

E di porpora là tingonsi e d'oro. 

Ma del giardino in sul confin tu vedi 

D'ogni erba e d'ogni fior sempre vestirsi 

Ben eulte aiuole, e scaturir due fonti 

Che non taccion giammai: l'una per tutto 

Si dirama il giardino, e l'altra corre, 

Passando del cortil sotto alla soglia, 

Sin davanti al palagio; e a questa vanno 

Gli abitanti ad attignere. Sì bella 

Sede ad Alcinoo destinare i Numi. 

Di maraviglia tacito, e, sospeso 
Ulisse colà stava; e visto ch'ebbe 
Tutto, e rivisto con secreta lode. 
Nell'eccelsa magion ratto si mise. 
Trovò i Feaci condottieri e prenci, 
Che libavan co' nappi all'Argicida 
Mercurio, a cui libar solean da sózzo, 
Come del letto gli assalia la bramà> 
E innanzi trapassò dentro alla folta 
Nube che Palla gli avea sparsa intorno, 
Finché ad Arete e al suo marito giunse, 

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V. 190-225) LifeRO VII. 128 

Circondò con le braccia alla reina 
Le ginocchia; ed in quel da lui staccossi 
La nube sacra, e in vento si disciolse. 
Tutti repente ammutolirò, e forte 
Stupian, guardando Tuom che alla reina 
Supplicava in tal forma: del divino 
Ressenore figliuola, illustre Arete, 
A.lle ginocchia tue dopo influiti 
Disgistri io vegno, vegno al tuo consorte, 
E a questi Grandi ancor, cui di felici 
Menar gli Dei concedeano, e ne' figli 
Le ricchezze domestiche e gli onori 
Che s'acquistaro, tramandare. Or voi 
Scorta m'apparecchiate, acciocché in breve 
Alla patria io mi renda ed agli amici, 
Da cui vivo lontan tra i guai gran tempo. 

Disse, e andò al focolare, e innanzi al foco 
Sovra l'immonda cenere sedette: 
Né alcun fra tanti apria le labbra. Al fine 
Parlò Teroe vecchio Etenèo, che in pronto 
Molte avea cose trapassate, e tutti 
Di facondia vincea^ non men che d'anni. 
Alcinoo, disse con amico petto, 
Poco ti torna onor, che su l'immonda 
Cenere il forestier sieda: e se nullo 
Muovesi, egli é perchè un tuo cenno aspetta. 
Su via, levai di terra, e in«sedia il poni 
Borchiettata d'argento; e ai banditori 
Mescer comanda, onde al gran Giove ancora 
Che del fulmine gode, e s'accompagna 
Co' venerandi supplici, libiamo. 
La dispensiera poi di quel che inserbo 
Tiene, presenti al forestier per cena. 

Alcinoo, udito ciò, lo scaltro Ulisse 
Prese per man, dal focolare alzoUo, 
E l'adagiò sovra un lucente seggio, 

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126 ODISSEA (v. 226-261) 

Fatto sorgerne prima il più diletto 

De' suoi figliuoli che sedeàngli accanto, 

L'amico di virtù Laodamante. 

Tosto Tancella da bel Taso d'oro 

Purissim* acqua nel bacìi d'argento 

Gli versava, e stendea desco polito, 

Su cui l'onesta dispensiera bianchi 

Pani venne ad imporre, e di serbate 

Dapi gran copia. Ma la sacra possa 

Di Alcinoo al banditori Pontonoo, il rosso 

Licore infondi nelle tazze, e in gipo 

Recalo a tutti, onde al Gran Giove ancora, 

Che del fulmino gode, e s'accompagna 

Co' venerandi supplici, libiamo. 

Disse; e Pontonoo il buon licore infuse, 
E il recò, propinando, a tutti in giro. 
Ma il Re, come libato ebbero, e a piena 
Voglia bevuto, in tai parole uscio: 
condottieri de' Feaci, o capi , 
Ciò che il cor dirvi mi consiglia, udite. 
Già banchettati foste: i vostri alberghi 
Cercate adunque, e riposate. Al primo 
Raggio di Sole in numero più spessi 
Ci adunerem, perchè da noi s'onori 
L'ospite nel palagio, e più superbe 
Vittime immoleransi : indi con quale 
Scorta al suol patrio, per lontan che giaccia, 
Possa, non pur senza fatica o noia, 
Ma lieto e rapidissimo condursi. 
Diviseremo. Esser dee nostra cura 
Che danno non l'incolga in sin ch'ei tocco 
Non abbia il suol natio. Colà poi giunto, 
Quel soffrirà, che le severe Parche 
Nel dì del suo natale a lui filare. 
E se un Dio fosse dall'Olimpo sceso? 
Altro s'avvolgeria disegno in mente 

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(Y. 262^297) LIBRO VII. 127 

De* Numi allora. Spesso a noi mostrarsi 
Nell'ecatombe più solenni, e nosco 
Starsi degnaro ad una mensa. Dove 
Un qualche viandante in lor s'avvenga, 
Non l'occultano a noi, che per vetusta 
Origine lor siam molto vicini, 
Non altrimenti che i Ciclopi antichi, 
E de' Giganti la selvaggia stirpe. 

Alcinoo, gli rispose il saggio . Ulisse, 
Muta questo pensiero. Io dell'immenso 
Cielo ai felici abitatori eterni 
Né d'indole somiglio, né d'aspetto. 
Somiglio ai figli de' mortali, e a quanti 
Voi conoscete in più angoscioso stato. 
Né ad alcuno di lor cedo ne* mali; 
Tanti e sì gravi men creare i Numi. 
Or cenar mi lasciate, ancor che afflitto; 
Però che nulla io so di più molesto 
Che il digiun ventre, di cui l'uom mal puote 
Dimenticarsi per gravezze o doglie. 
Nel fondo io son de* guai; pur questo interno 
Signor,, che mai di domandar non resta. 
Vuol ch'io più non rammenti i danni miei 
E ai cibi stenda ed ai licer la mano. 
Ma voi, comparso in Oriente il giorno, 
Rimandarmi vi piaccia. Io non ricuso, 
Visti i miei servi, l'alte case e i campi. 
Gli occhi al lume del Sol chiuder per sempre. 

Disse ; e tutti assentiano, e fean gran ressa, 
Che lo stranier, che ragionò sì bene , 
Buona scorta impetrasse. Al fin, libato 
Ch'ebbero, e a pien bevuto, il proprio albergo 
Ciascun cercava, per entrar nel sonno. 
Sol nella reggia rimaneasi Ulisse, 
E presso gli sedeano Alcinoo e Arete, 
Mentre le ancelle del convito i vasi 

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128 ODISSEA (v. 298-333) 

Dalla mensa toglieano. Arete prima 

Gli favellò, come colei che il manto 

Riconobbe, e la tunica, leggiadre 

Vesti, che di sua man tessute avea 

Con le sue fanti, e che or vedeagli in dosso. 

Stranier, gli disse con alate voci. 

Di questo io te cercar voglio la prima: 

Chi sei tu? Donde sei? Da chi tai panni? 

Non ci fai creder tu che ai nostri lidi 

Misero, errante e naufrago approdasti? 

E il saggio Ulisse replicolle: Forte, 
Regina, i mali raccontar che molti 
M* inviaro gli Dei. Quel che più brami 
Sapei?e, io toccherò. Lontana giace 
Un'isola nel mar che Ogigia è detta. 
Quivi d'Atlante la fallace figlia 
Dai ben torti capei, Calipso, alberga, 
Terribil Dea, con cui nessun de' Numi 
. Conversa, o de* mortali. Un genio iniquo 
Con lei me solo a dimorar constrinse, 
Dappoi che Giove a me per l'onde oscure 
La ratta nave folgorando sciolse. 
Tutti morti ne furo i miei compagni: 
Ma io, con ambe mani alla carena 
Della nave abbracciatomi, per nove - 
Giorni fui traportato, e nella fosca 
Decima notte all' isoletta spinto 
Della Dea, che m' accolse e unicamente 
Mi trattava e nodriva, e promettea 
Da morte assicurarmi e da vecchiezza: 
Né però il cor mi piegò mai nel petto. 
Sette anni interi io mi vedea con lei, 
E di perenni lagrime i divini 
Panni bagnava, che mi porse in dono. 
Ma tosto che l'ottavo anno si volse. 
La Diva, o fosse imperiai messaggio 

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(v. 334-369) LIBRO vii. 129 

Del figliuol di Saturno, o di lei stessa 
Mutamento improvviso, alle mie case 
Ritornar confortavami. Su travi 
Da multiplicì nodi in un congiunto 
Con molti doni accommiatommi : pane 
Candido e dolce vin diemmi, e odorate 
Vesti vestimmi, e, ad incresparmi il mare. 
Un placido mandò vento innocente. 
Io dieci viaggiava e sette giorni 
Su le liquide strade. Al nuovo albore 
Mi sorse incontro co* suoi monti ombrosi 
L'isola vostra, e a me infelice il core 
Ridea, benché altri guai m'apparecchiasse 
Nettun, che incitò i venti, il mar commosse, 
Mi precise la via; né più speranza 
Già m'avanzava, che il naviglio frale 
Me gemente portasse all'onde sopra. 
Ruppelo al fine il turbo. A nuoto allora 
Misurai questo mar, finché alla vostra 
Contrada il vento mi sospinse e il flutto. 
Quivi alla terra, nell'uscir delì'acqu^e, 
Franto un'onda m'avria, che mo i* acute 
Punte cacciava, e in disamabil riva: 
Se non ch'io, ritirandomi dal lido, 
Tanto notava, che a un bel fiume sceso 
Da Giove io giunsi, ove opportuno il loco 
Parvemi, e liscio, né in balia de' venti. 
Scampai, le forze raccogliendo. Intanto 
Spiegò i suoi veli la divina Notte, 
Ed io, lasciato da una parte il fiume, 
Sovra un letto di foglie e tra gli arbusti 
Giacqui, e m'infuse lungo sonno un Dio. 
Dormii l'intera notte insino all'alba, 
Dormii sino al meriggio; e già calava 
Verso Occidente il sole, allor che il dolce 
Sonno m'abbandonò. Vidi le ancelle 

Oautea ^ ^^ ^^ ^ Google . 



130 ODISSEA (v. 370-405) 

Della tua figlia trastullar su Terba, 
E lei tra quelle, che una Dea mi parve, 
E a cui preghiere io porsi; ed ella senno 
Mostrava tal, qual non s'attende mai 
L*uom da una età si fresca, in cui s'abbatta. 
Perchè la fresca età sempre folleggia. 
Ella recente pan, vino possente , 
Ella comodo bagno a me nel fiume. 
Ed ella vesti. Me infelice il fato 
Render potrà, ma non potrà bugiardo. 

Ed Alcinoo repente: Ospite, in questo 
La mia figlia sfalli, che non condusse 
Te con le ancelle alla magion, quantunque 
Tu a lei primiera supplicato avessi. 

Eccelso eroe, non mi biasmar, rispose 
Lo scaltro Ulisse, per cagion sì lieve 
La incoi pabil fiinciulla. Ella m'ingiunse i 

Di seguitarla con le ancelle: ed io I 

Men guardai per timor che il tuo vedermi 
T'infiammasse di sdegno. Umana, il sai, I 

Razza noi siamo al sospettare inchina. i 

Ed Alcinoo di nuovo: Ospite, un'alma I 

Già non s'annida in me, che fuoco prenda ' 
Sì prontamente. Alla ragione io cedo, 
E quel che onesto è più, sempre io trasceJgo. 
Ed oh piacesse a Giove, a Palla e a Febo, 
Che, qual ti scorgo, e d'un parer con meco 
Sposa volessi a te far la mia figlia. 
Genero mio chiamarti, e la tua stanza 
Fermar tra noi! Case otterresti e beni 
Da me, dove il restar non ti sgradisse: 
Che ritenerti a forza, e l'ospitale 
Giove oltraggiar, nullo qui fia che ardisca. 
Però così su l'alba il tuo viaggio 
Noi disporrem, che abbandonarti al sonno 
Nella nave potrai, mentre i Feaci 

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(v. 406-441) LIBRO- VII. 131 

L'azzurra calma romperaii co* remi: 
Né cesseraii, che nella patria messo 
T'abbiano, e ovunque ti verrà desio, 
Foss'anco oltre TEubèa, cui più lontana' 
D'ogQÌ alt^a region che alzi dal mare, 
Dicon que* nostri che la vider, quando 
A Tizio, figlio della terra, il biondo 
Radamanto condussero. All' Eubèa 
S'indrizzàr, l'afferrar, ne ritornaro 
Tutto in un giorno; e non fu grave impresa. 
Conoscerai quanto sien bene inteste 
Le nostre navi, e i giovani gagliardi 
Nel voltar sottosopra il mar co' remi. 

Gioì a tai detti il paziente Ulisse, 
E le braccia levando, Giove padre. 
Sclamò, tutte adempir le sue promesse 
Possami Alcinoo! Ei gloria eterna avranne, 
Ed io porrò nelle mie case il piede. 

Queste correan tra lor parole alterne. 
Ma la reina candida le braccia, 
Arete intanto alle fantesche impose 
Il letto collocar sotto la loggia. 
Belle gittarvi porporine coltri, 
E tappeti distendervi, e ai tappeti 
Manti vellosi sovrapporre. Uscirò 
Quelle, tenendo in man lucide faci. 
Il denso letto sprimacciaro in fretta, 
E rientrate. Sorgi, ospite, or puoi, 
Dissero a Ulisse, chiuder gli occhi al sonno: 
Nò punto al forestier l'invito spiacque. 
Cosi ei sotto il portico sonante 
Là s'addorniia ne' traforati letti. 
Alcinoo si corcò del tetto eccelso 
Ne' penetrali ; e a lui da presso Arete, 
La consorte real, che a sé ed a lui 
Preparò di sua mano il letto e i sonni. 

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LIBRO OTTAVO 



ARGOMENTO 



Congresso de* Feaci, in cui si delibera se UHsse debba essere 
alla patria sua ricondotto. •— Alcinoo d& un solenne con- 
vito , nel quale Demodoco canta d*una contesa che Ulisse 
medesimo e Achille ebbero un giorno tra loro. — li primo 
non può ritenere le lagrime. — Si passa ai giuochi, ov*egli 
dò, prova di sé al disco, ed ove Demodoco canta la rete di 
Vulcano. — * Doni che si fanno ad Ulisse. — Questi ad un 
secondo convito sente ricordare dallo stesso cantore il gran 
cavallo di legno e la caduta di Troia ; e si lascia di nuovo 
cadere il pianto dagli occhi. — Alcinoo allora il sollecita a 
manifestarsi, a dire il suo nome, e a raccontare le sue av- 
venture. 



Ma tosto che rosata ambo le palme 
Comparve in ciel T aggiornatrice Aurora, 
Surse di letto la sacrata possa 
Del magnanimo Alcinoo, e il divin surse 
Rovesciator delle cittadi Ulisse. 
La possanza d'Alcinoo al parlamento, 
Che i Feaci tenean presso le navi. 
Prima d'ogni altro mosse, A mano a mano 
Veniano i Feacesi, e su polite 
Pietre sedeansi. L'occhiglauca Diva, 
Cui d'Ulisse il ritorno in mente stava. 
Tolte del regio banditor le forme. 
Qua e là s'avvolgea per la cittade, 
E appressava ciascuno, e. Su, dicea, 

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(V. 15-50) LIBRO Vili. 133 

Su, prenci e condottieri, al fòro, al fòro, 
Se udir vi cai dello stranier che giunse 
Ad Alcinoo testé per molto mare, 
E assai pili, che deiruom, del Nume ha in viso. 

Disse, e tutti eccitò. Della raccolta 
Gente furo in brev* ora i seggi pieni. 
Ciascun guardava con le ciglia in arco 
Di Laerte il fìgliuol: che a lui Minerva 
Sovra il capo dijffuse e su le spalle 
Divina grazia, ed in grandezza e in fiore 
Crebbelo, e in gagliardia, perch* ei ne* petti 
Destar potesse riverenza e affetto, 
E de' nobili giuochi, ove chiamato 
Fosse a dar di sé prova, uscir con vanto. 

Concorsi tutti, e in una massa uniti. 
Tra loro arringò Alcinoo in questa guisai 
condottieri de* Feaci, e prenci , 
Ciò che il cor dirvi mi comanda, udite. 
Questo a me ignoto forestier, che venne 
Ramingo, e ignoro ancor, se donde il Sole 
Nasce, o donde tramonta, ai tetti miei, 
Scorta dimanda pel viaggio, e prega 
Gli sia ratto concessa. Or noi Tusanza 
Non seguirem con lui? Uomo, il sapete. 
Ai tetti miei non capitò, che mesto 
Languir dovesse sovra queste piagge 
Per difetto di scorta i giorni e i mesi. 
Traggasi adunque nel profondo mare 
Legno dall'onde non battuto ancora, 
E s'eleggan cinquanta e due garzoni, 
Tra il popol tutto, gli ottimi. Costoro, 
Varato il legno, e avvinti ai banchi i remi, 
Subite e laute ad apprestar m'andranno 
Mense, che a tutti oggi imbandite io voglio. 
Ma quei che di bastone ornan la mano. 
L'ospite nuovo ad onorar con meco 

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134 ODISSEA (v. 51-86; 

Vengano ad una; e il banditor mi chiami 
L'immortale Demòdoco, a cui Giove 
Spira sempre de* canti il più soave. 
Dovunque l'estro che rinfiamma, il porti. 

Detto, si mise in via. Tutti i scettrati 
Seguianlo ad una; e all' iraraortal cantore 
L'araldo indirizzavasì, I cinquanta 
Garzoni, e due, come il Re imposto avea. 
Furo del mar non seminato al lido , 
La nave negra nel profondo mare 
Trassero, alzare l'albero e la vela. 
I lunghi remi assicurar con forti 
Lacci di pelle, a maraviglia il tutto; 
E, le candide vele al vento aperte, 
Arrestare nell'alta onda la nave: 
Poscia d'Alcinoo ritrovar l'albergo. 
Già i portici s'empiean, s'empieano i chiostri. 
Non che ógni stanza, della varia gente. 
Che s'accogliea, bionde e canute teste, 
■ Una turba infinita. Il re quel giorno . 
Diede al sacro coltel dodici agnelle, 
Otto corpi di verri ai bianchi denti, 
E due di tori dalle torte corna. 
Gli scoiar, gli acconciar, ne apparecchiaro 
Convito invidiabile. L'araldo 
Ritorno feo, per man guidando il vate. 
Cui la musa portava immenso amore. 
Benché il ben gli temprasse e il maje insieme: 
Degli occhi il vedovò, ma del piti dolce 
Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo 
Sedia d'argento borchiettata a lui 
Pose, e l'affisse ad una gran colonna: 
Poi la cetra vocale a un aureo chiodo 
Gli appese sovra il capo, ed insegnògli. 
Come a staccar con mano indi l'avesse. 
Ciò fatto, un desco gli distese avanti 

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(v. 87-122) LIBRO vili. 135 

Con panier sopra, e una capace tazza 
Oad' ei, qual volta nel pungea desio, 
Del vermiglio licer scaldasse il petto. 
Come la fame rintuzzata, e spenta 
Fu la sete in ciascun, l'egregio vate, 
Che già tutta sentiasi in cor la Musa, 
De' forti il pregio a risonar si volse, , 
Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo 
Salse in que* dì la fama. Era l'antica 
Tenzon d'Ulisse e del peliade Achille, 
Quando di acerbi detti ad un solenne 
Convito sacro si ferirò entrambi. 
Il re de* prodi Agamennón gioia 
Tacitamente in sé, visti a contesa 
Venire i primi degli Achei : che questo 
Dalla caduta d'Ilio era il segnale. 
Tanto da Febo nella sacra Pito, 
Varcato appena della soglia il marmo, 
Predirsi allora udì, che di que' mali. 
Che sovra i Teucri, per voler di Giove, 
Rovesciarsi doveano, e su gli Acbivi, 
Si cominciava a dispiegar la tela. 

A tai memorie il Laerziade, preso 
L'ampio ad ambe le man purpureo manto, 
Sei trasse in testa, e il nobil volto ascose. 
Vergognando che lagrime i Feaci 
Vedesserlo stillar sotto le ciglia. 
Tacque il cantor divino: ed ei, rasciutte 
Le guance in fretta, dalla testa il manto 
Si tolse, e, dato a una ritonda coppa 
Di piglio, libò ai Numi. I Feacesi, 
Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli 
Il poeta eccitavano, che apria 
Novamente le labbra; e novamente 
Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse, 
Così, gocciando lagrime, da tutti 

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136 ODISSEA (v. 123-158; 

Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide, 
E l'adocchiò, sedendogli da presso , 
Oltre che forte sospirare udillo; 
E, più non aspettando; Udite, disse, 
Bella Feacia condottieri e prenci. 
Già del comun convito, e dell'amica 
De^ conviti soleniii arguta cetra. 
Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi 
Proviamci, perchè l'ospite, com'aggia 
Rimesso il pie nelle paterne case, 
Narri agli amici, che l'udranno attenti, 
Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso. 
Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente. 

Disse, ed entrò in cammino; e i prenci insieme 
Seguianlo. Ma l'araldo, alla caviglia 
Riappiccata la sonante cetra, 
Prese il cantor per mano, e fuor del tetto 
Menollo: indi guidavalo per quella 
Strada in cui posto erasi Alcinoo e 1 capi. 
Movean questi veloce al fòro il piede, 
E gente innumerabile ad un corpo 
Lor tenea dietro. Ed ecco sorger molta. 
Per cimentarsi, gioventù forzuta. 
Sorse Acroneo ed Ocialo, Eleatrèo sorse, 
E Nauteo e Primneo e Anchialo: levossi 
Eretmeo ancor, Pontèo, Proto, Toóne, 
Non che Anabesinèo, non che Amfiàlo, 
Di Polineo Tectonide la prole; 
E non eh* Burlalo all'omicida Marte 
Somigliante, e Naubòlide, che tutti. 
Ma dopo il senza neo Laodamante, 
Vincea di corpo e di beltà. Né assisi 
I tre restar figli d'Alcinoo: desso 
Laodamante, Alio, che al rege nacque 
Secondo, e Clitonèo pari ad un Nume. 

.Del corso fu la prima gara.> Un, lungo 



(v. 159-194) LièRo Vitt. 137 

Spazio stendeasi alla carriera; e tutti 

Dalle mosse volavano in un groppo, 

Densi globi di polvere levando. 

Avanzò gli altri Clitonèo, che, giunto 

Della carriera al fin, lasciolli indietro 

Quell'intervallo, che i gagliardi muli 

I tardi lascian corpulenti buoi. 

Se lo stesso noval fendono a un'ora. 

Saccedè al corso l'ostinata lotta. 

Ed Eurialo prevalse. Il maggior salto 

Ainfiàlo spiccollo, e il disco lungo 

Non iscagliò nessun, com* Elàtrèo. 

Laodamante, il real figlio egregio, 

Nel pugile severo ebbe la' palma. 

Fine al diletto de* certami posto, 
Parlò tra lor Laodamante: Amici* 
Su via, Testraneo domandiafn di queste 
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese. 
Di buon taglio e' mi sembra; e, dove ai fianchi 
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi 
Guardisi, e al fermo eolio, una robusta 
Natura io veggio, e non mi par che ancora 
Degli anni verdi Tabbandoni il nerbo. 
Ma il fransero i disagi all'onde in grembo: 
Che non è, quanto il mar, siccome io credo. 
Per ìsconfìgger Tuom, benché assai forte. 

Laodamante, il tuo parlar fu bello, 
Eurialo rispondea. Però l'abborda 
Tu stesso, e il tenta: e a fuori uscir l'invita. 

Ck)me d'Alcinoo l'incolpabil figlio 
Questo ebbe udito, si fé innanzi, e, stando 
Nel mezzo. Orsù gli disse, ospite padre. 
Tu ancor ne* giochi le tue forze assaggia. 
Se alcun mai ne apparasti a' giorni tuoi : 
E degno è ben che non ten mostri ignaro, 
Quando io non so per Tuom gloria maggiore 

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138 ODISSEA (v. 195-230) 

Che del pie con prodezza e della mano. 

Mentre in vita riman, poter valersi. 

T'arrischia dunque, e la tristezza sgombra 

Dairalma. Poco il desiato istante 

Del tuo viaggio tarderà: varata 

Fu già la nave, e i rèmigi son pronti. 

Ma cosi gli rispose il saggio Ulisse: 
Laodamante, a che cotesto invito, 
Deridendomi quasi? Io più, che giochi, 
Disastri volgo per l'afflitta mente, 
Io, che tanto patii, sostenni tanto, 
E or qui, mendico di ritorno e scorta, 
Siedomi, al Re pregando, e al Popol tutto. 

Il bravo Eurialo a viso aperto allora: 
Uom non mi sembri tu, che si conosca 
Di quelle pugne che la stirpe umana 
Per suo diletto esercitar costuma. 
Tu m'hai vista di tal, che presso nave 
Di molti banchi s'aifaccendi, capo 
Di marinari al trafficare intesi. 
Che in mente serba il carico, ed al vitto 
Pensa, e ai guadagni con rapina fatti: 
Ma nulla certo dell'atleta tieni. 

Mirollo bieco, e replicògli Ulisse: 
Male assai favellasti, e ad uom protervo 
Somigli in tutto. Così è ver che i Numi 
Le più care non dan doti ad un solo. 
Sembiante, ingegno e ragionar che piace. 
L'un bellezza non ha, ma della mente 
Gl'intèrni sensi in cotal guisa esprime, 
Che par delle parole ornarsi il volto. 
Gode chiunque il mira. Ei, favellando 
Con soave modestia, e franco a un tempo. 
Spicca in ogni consesso; e allor che passa 
Per là città, gli occhi a sé attrae, qual Nume. 
L'altro nel viso e nelle membra un mostra 

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(v. 231-266) LIBRO vili. ^ 139 

Degl* immortali Dei: pur non si vede 
Grazia che ai detti suoi s'avvolga intorno. 
Così te fregia la beltà, né meglio 
Formar saprian gli stessi Eterni un volto: 
Se non che poco della mente vali. 
Mi trafiggesti Tanìma nel petto, 
Villane voci articolando: io nuovo 
Non son de' giochi, qual tu cianci, e credo 
Anzi, ch'io degli atleti andai tra i primi, 
Finché potei de* verdi anni e di queste 
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche 
Durai, tra Tarmi penetrando e Tonde, 
Gl'infortuni domare. E non pertanto 
Cimenterommi : che mordace troppo 
Fu il tuo sermon, né più tenermi io valgo. 

Disse; e co' panni stessi, in ch'era involto, 
Lanciossi, ed afferrò massiccio disco. 
Che quelli, onde giocar solean tra loro, 
Molto di mole soverchiava, e pondo. 
Roteilo in aria, e con la man robusta 
Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci, 
Que' naviganti celebri, que* forti 
Remigatori, s'abbatterò in terra 
Per la foga del sapio, il qu^l,' partito 
Da sì valida destra, i segni tutti 
Rapidamente sorvolò. Minerva, 
Vestite umane forme, il segno pose, 
E all'ospite conversa. Un cieco, disse. 
Trovar, palpando, tei potria: che primo. 
Né già di poco, e solitario sorge. 
Per questa prova dunque alcun timore 
Non t'anga: lunge dal passarti, alcuno 
Tra i Feaci non fìa che ti raggiunga. 

Rall egrossi a tai voci, e si compiacque 
Il Laerziade, che nel circo uom fosse 
Che tanto il favori a. Quindi ai Feaci 

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140 ODISSEA (v, 267-302) 

Più mollemente le parole volse: 
Quello arrivate, o damigelli, e un altro 
Pari, o più grande, fulminarne in breve* 
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri 
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora. 
Chi far periglio di sé stesso agogna. 
Venga in campo con me : poiché di vero 
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo 
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo 
Laodamante, che ricetto dammi. 
Chi entrar vorrebbe con l'amico in giostra? 
Stolto e da nulla e senza dubbio, e tutte 
Storpia le imprese sue, chiunque in mezzo 
D'un popolo stranier con chi l'alberga 
Si presenta a contendere. Degli altri 
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti 
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto, 
Come colui che non mi credo imbelle. 
Quale il cimento sia. L'arco lucente 
Trattare appresi: imbroccherei primaio, 
Saettando un guerrier dell'oste avversa, 
Benché turba d'amici a me d'intorno 
Centra quell'oste disfrenasse i dardi. 
Sol-Filottete mivincea dell'arco, 
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci: 
Ma quanti su la terra or v* ha mortali , 
Cui la forza del pane il cor sostenta, 
Io di gran lunga superar mi vanto: 
Che non vo' pormi io già co' prischi eroi. 
Con Eurito d' Ecalia, e con Alcide, 
Che agli Dei stessi di scoccar nell'arte 
Si pareggiare. Che ne avvenne? Giorni 
Sorser pochi ad Eurito, e le sue case 
Noi videro invecchiar, poscia che Apollo 
Forte si corruccio che disfidato 
L'avesse all'arco, e di sua man l'uccise. 

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(v. 303-338) LIBRO vili. 141 

Dell'asta poi, quanto nessun di freccia 
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo 
Non mi vantaggi alcun: che, tra che molto 
M'afflisse il mare, e che non fu il mio lagno 
Sempre vettovagliato, a me, qual prima, 
Non ubbidisce l'infedel ginocchio. 

Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo 
Rispose: Forestier, la tua favella 
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto 
De' motti audaci, onde colui ti morse. 
La virtù mostrar vuoi che t'accompagna, 
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga, 
Più biasimata non fia. Ma tu m'ascolta. 
Acciocché un di, quando nel tuo palagio 
Sederai con la sposa e i f gli a mensa, 
E quel che di gentile in noi s'annida, 
Rimembrerai, possi a un illustre amico 
Favellando narrar, quali rodammo 
Studi dagli avi per voler di Giove. 
Non Siam né al cesto, né alla lotta egregi; 
Ma rapidi moviam, correndo, i passi, 
E a maraviglia navighiamo. In oltre 
Giocondo sempre il banchettar ci torna. 
Musica e danza, ed il cangiar di veste, 
I tepidi lavacri e i letti molli. 
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo 
Pregio dell'arte della danza avete, 
Fate che lo straniero a' suoi più cari. 
Risalutate le paterne mura, 
Piacciasi raccontar, quanto anche al tallo 
Non che al nautico studio ed alla corsa, 
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio. 
E tu, Pontonoo, per l'arguta cetra. 
Che nel palagio alla colonna pende. 
Vanne, e al divin Demodoco la reca. 
Sorse, e parti l'araldo; e al tempo stesso 

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142 ODISSEA (v. 339-374) 

Sorsero i nove a presedere ai giuochi 

Giudici eletti dai comuni voti, 

Ed il campo agguagliaro, e dilataro, 

Riaft)sse alquanto le persone, il circo. 

Tornò l'araldo con la cetra, e in mano 

La pose di Demodoco, che al circo 

S'adagiò in mezzo. Danzatori allora 

D'alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni, 

Peano al vate corona, ed il hel circo 

Co* presti piedi- percoteano. Ulisse 

De* frettolosi pie gli sfolgorìi 

Molto lodava; e non si riavea 

Dallo stupor che gl'ingombrava il petto. 

Ma il Poeta divin, citareggiando. 
Del bellicoso Marte, e della cinta 
Di vago serto il crin Vener Ciprigna, 
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo 
Lor conversar nella superba casa 
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto 
Letto macchiò nefandamente, molti 
Doni oflferti alla Dea. con cui la vinse. 
Repente il Sole, che la colpa vide, 
A Vulcan nunzìolla; e questi, udito 
L'annunzio doloroso, alla sua negra - 
Fucina corse, un* immortai vendetta 
Macchinando nell'anima. Sul ceppo 
Piantò una magna incude; e col martello 
Nodi, per ambo imprìgionarli, ordia 
A frangersi impossibili, o a disciorsi. 
Fabbricate le insidie, ei, centra Marte 
D'ira bollendo, alla secreta stanza. 
Ove steso giaceagli il caro letto. 
S'avviò in fretta, e alla lettiera bella. 
Sparse per tutto i fini lacci intorno, 
E molti sospendeane all'alte travi, 
Quai fila sottilissime d'aragna, 

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(v. 375-410) LIBRO vili. 143 

Con tanta orditi e si ingegnosa fraude, 

Che né d*un Dio li potea l'occhio torre. 

Poscia che tutto degl' industri inganni 

Circondato ebbe il letto, ir fìnse in Lenno, 

Terra ben fabbricata, e più che ogni altra 

Cittade, a lui diletta. In questo mezzo 

Marte, che d*oro i corridori imbriglia, 

Alle vedette non istava indarno. 

Vide partir l'egregio fabbro, e, sempre 

Nel cor portando la di vago serto 

Cinta il capo Ciprigna, alla miagione 

Del gran mastro de' fuochi in fretta mosse. 

Ritornata di poco era la Diva 

Dal Saturnide onnipossente padre 

Nel coniugale albergo; e Marte, entrando. 

La trovò che posava, e lei per mano 

Prese, e a nomo chiamò: Venere, disse. 

Ambo ci aspetta il solitario letto. 

Di casa uscì Vulcano: altrove a Lenno 

Vassene, e ai Sinti di selvaggia voce. 

Piacque l'invito a Venere, e su quello 
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci 
Lor s'avvolgean per cotal guisa intorno. 
Che stendere una man, levare un piede. 
Tutto era indarno; e s'accorgeano al fine, 
Non aprirsi di scampo alcuna via. 
S'avvicinava intanto il fabbro illustre, 
Che volta die dal suo viaggio a Leimo: 
Perocché il Sole spiator la trista 
Storia gli raccr^ntò. Tutto dolente 
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi 
Neir atrio: immensa ira l'invase, e tale 
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti 
Dell* Olimpo l'udir gli abitatori. 
O Giove padre, e voi, disse, beati 
Numi, che d* immortai vita godete, 

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144 ODISSEA (v. 411-446) 

Cose venite a rimirar da riao, 
Ma pure insopportabili: Ciprigna, 
Di Giove figlia, me, perchè impedito 
De' piedi son, cuopre d'infamia ognora. 
Ed il suo cor nell'omicida Marte 
Pone, come in colui che bello e sano 
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo. 
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli, 
Che tal non mi dovean mettere in luce. 
Parenti miei? Testimon siate, o Numi, 
Del lor giacersi uniti, e dell'ingrato 
Spettacol che oggi sostener m'è forza. 
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo. 
Benché si accesi, e a cotai sónni in preda 
Più non vorranno abbandonarsi. Certo 
Non si svilupperan d'este catena. 
Se tutti prima non mi torna il padre 
Quei, eh* io posi in sua man, doni dotali 
Per la fanciulla svergognata: quando 
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede, 
Ma del proprio suo cor non donna punto. 

Disse; e i Dei s'adunare alla fondata 
Sul rame casa di Vulcano. Venne 
Nettuno, il Dio per cui la terra trema, 
Mercurio venne de* mortali amico. 
Venne Apollo dal grande arco d'argento. 
Le Dee non già; che nelle stanze loro 
Riteneale vergogna. Ma^ i datori 
D'ogni bramato ben Dei sempiterni 
Nell'atrio s'adunar: sorse tra loro 
Un rìso inestinguibile, mirando 
Di Vulcan gli artifìci; e alcun, volgendo 
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia: 
Fortunati non sono i nequitosi 
Fatti, e il tardo talor Taglie arriva. 
Ecco Vulcan, benché sì tardo, Marte, 

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(v. 447-482) LIBRO viir. 145 

Che di velocità tutti d'Olimpo 
Vince gli abitator, cogliere: il colse, 
Zoppo essendo, con Tarte; onde la multa 
Dell'adulterio gli può tórre a dritto. 

Allor così a Mercurio il gaio Apollo: 
Figlio di Giove, messaggero accorto. 
Di grate cose dispensier cortese, 
Yorrestù avvinto in si tenaci no^i 
Dormire all'aurea Venere da presso? 

Oh questo fosse, gli rispose il Nume 
Licenzioso, e ad opre turpi: avvezzo. 
Fosse, o Sir dall'argenteo arco, e in legami 
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto, 
E intendessero i Numi in me lo sguardo 
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria 
Dormire all'aurea Venere da presso. 

Tacque ; e in gran riso i Sempiterni diero. 
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano, 
L'inclito mastro, senza fin pregava. 
Liberasse Gradico, e con alate 
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t'entro 
Mallevador, che agi' Immortali in faccia 
Tutto ei compenserà, com'è ragione. 

Questo, rispose il Dio dai pie distorti 
Al Tridentier dalle cerulee chiome. 
Non ricercar da me. Triste son quelle 
Malleverie che dannosi pe' tristi. 
Come legarti agl'Immortali in faccia 
Potrai, se Marte, de' suoi lacci sciolto. 
Del debito, fuggendo, anco s'affranca? 

Io ti satisfarò, rispose il Nume 
Che la terra circonda, e fa tremarla. 

E il divin d'ambo i pie zoppo ingegnoso: 
Bello non fora il ricusar, né lice. 
Disse, e d'un sol suo tocco i lacci infranse. 

Come liberi fur, saltaro in piede, 

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146 obissÈsA (v. 483-518) 

lil Marte in Tracia corse: ma la Diva 
Del riso amica, riparando a Cipri, 
In Pafo si fermò, dove a lei sacro 
Frondeggia un bosco, ed un aitar vapora. 
Qui le Grazie lavaro, e del fragrante 
Olio, che la beltà cresce de* Numi, 
Unsero a lei le delicate membra: 
Poi così la vestir, che meraviglia 
Non men che la Dea stessa, era il suo manto. 

Tal cantava Demodoco; ed Ulisse 
E que* remiga tor forti, que* chiari 
Navigatori, di piacere, udendo, 
Le vene ricercar sentiansi, e l'ossa. 

Ma di Laodamante e d'Alio soli. 
Che gareggiar con loro altri non osa, 
Ad Alcinoo mirar la danza piacque. 
Nelle man tosto la leggiadra palla 
Si recaro, che ad essi avea Tindustrè 
Polibo fatta, e colorata in rosso. 
L*un la palla gittava in vèr Je fosche 
Nubi, curvato indietro; e l'altro, un salto 
Spiccando, riceveala, ed al compagno 
La rispingea senza fatica o sforzo. 
Pria che di nuovo il suol col pie toccasse. 
Gittata in alto la vermiglia palla, 
La nutrice di molti amica terra 
Co* dotti piedi cominciare a battere,' 
A far volte e rivolte alterne e rapide, 
Mentre lor s'applaudia dagli altri giovani 
Nel circo, e acute al ciel grida s'alzavano. 

Così ad Alcinoo T Itacese allora: 
de' mortali il più famoso e grande, 
Mi promettesti danzatori egregi, 
E ingannato non m'hai. Chi può mirarli 
.Senza inarcar dello stupor le ciglia? 

.Gioì d'Alcinoo la sacrata possa, 

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(v. 519-554) LièRo vnt. 147 

E ai Feaci rivolto, Udite, disse. 

Voi che per sangue e merto i primi siete. 

Saggio assai parmi il forestiero, e degno 

Che di ricchi rorniam doni ospitali. 

Dodici reggon questa gente illustri 

Capi, e tra loro io tredicesmo siedo. 

Tunica e manto, ed un talento d'oro 

Presentiamgli ciascuno, e tosto, e a un tempo, 

Ond'ei, così donato, alla mia cena 

Con più gioia nel cor vegna e s'assida. 

Eurialo, che il ferì d'acerbi motti, 

Co* doni, e in un con le parole, il plachi. 

Assenso die ciascuno, e un banditore 
Mandò pe'doni; e così Eurialo: Alcinoo, 
Il più famóso de* mortali e grande. 
L'ospite io placherò, come tu imponi. 
Oli oflfrirò questa di temprato rame 
Fedele spada, che d'argento ha l'elsa, 

La vagina d'avorio; e fu l'avorio 

Tagliato dall' artefice di fresco. 

Non l'avrà, io penso, il forestiere a sdegno. 
Ciò detto, a Ulisse in man la spada pose 

Con tali accenti: Ospite padre, salve. 

Se dura fu profferta e incauta voce. 

Prendala e seco il turbine la porti. 

E a te della tua donna e degli amici, 

Donde lungi, e tra i guai, gran tempo vivi, 

Giove conceda i desiati aspetti. 
Salve, gli replicò subito Ulisse, 

Amico, e tu. Gli abitator d'Olimpo 

Dianti felici di; né mai nel petto 

Per volger d'anni uopo o desir ti nasca 

^•i questa spada ch'io da te ricevo, 
(enchò placato già sol da' tuoi detti, 
'acque ; e il buon brando agli omeri sospese. 
Già dechinava il Sole, e inna^zi^^ 



148 obissEA (v. 5è5-590) 

Stavano i doni. Gli onorati araldi 

Nella reggia portaro i doni eletti, 

Che dai figli del Re tolti, e airaugusta 

Madre davante collocati furo. 

Alcinoo entrò alla reggia, e seco i prenci, 

Che altamente sederò; e del Re il sacro 

Valore in forma tal parlò ad Arete: 

Donna, su via, la piti sald' arca e bella 

Fuor traggi, ed una tunica vi stendi, 

E un manto, di cui nulla offenda il lustro. 

Scaldisi in oltre allo stranier nel cavo 

Rame sul foco una purissim*onda, 

Perch'ei, le membra asterse, e visti in bello 

Ordin riposti do'Feaci i doni. 

Meglio il cibo gli sappia, e più gradito 

Scendagli al core per Torecchio il canto. 

Io questa gli darò di pregio eccelso 

Mia coppa d'oro, acciò non sorga giorno, 

Ch*ei d'Alcinoo non pensi, al Saturnide 

Libando nel suo tetto, e agli altri Numi, 

Disse; ed Arete alle sue fanti ingiunse 
Porre il treppiede in su le braccia ardenti. 
Quelle il treppiede in su le ardenti brace 
Posero, e versar Tonda, e le raccolte 
Legno accendeanvi sotto: il cavo rame 
Cingean le fiamme, e si scaldava il fonte. 
Arete fuor della secreta stanza 
Trasse dell'arche la piti salda e bella, 
E tutti con la tunica e col manto 
Vi allogò i doni in vestimenta e in oro. 
Indi assennava. l'ospite: il coverchio 
Metti tu stesso, e bene avvolgi il nodo. 
Non forse alcun ti nuoccia, ove te il dolce 
Sonno cogliesse nella negra nave. 

L'accorto eroe, che non udilla indarno, 
Mise il coverchio, e l'intricato nodo 

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(y. 591-626) libro viii. 149 

Prestamente formò, di cui mostrato 
Gli ebbe il secreto la dedalea Circe. 
E qui ad entrar la dispensiera onesta 
L'invitava nel bagno. Ulisse vide 

I lavacri fumar tanto più lieto, 
Che tai conforti s'accostar di rado 
Al suo corpo dal dì che della Ninfa 
Le grotte più noi ritenean, dov'era 
D'ogni cosa adagiato al par d'un Nume. 

Lavato ed unto per le scorte ancelle, 
E di manto leggiadro e di leggiadra 
Tunica cinto, alla gioconda mensa 
Da' tepidi lavacri Ulisse giva. 
Nausica, cui splendea tutta nel volto 
La beltà degli Dei, della superba 
Sala fermossi alle lucenti porte. 
Sguardava Ulisse, e l'ammirava, e queste 
Mandavagli dal sen parole alate: 
Felice, ospite, vivi, e ti ricorda. 
Come sarai nella natia tua terra, 
Di quella, onde pria venne a te salute. 

Nausica, del prò Alcinoo inclita figlia, 
Ulisse, rispondeale, oh! così Giove, 
L'altitonante di Giunon marito, 
Voglia che il di del mio ritorno spunti , 
Com' io nel dolce ancor nido nativo 
Sempre, qua! Dea, t'onorerò: che fosti 
La mia salvezza tu, fanciulla illustre. 

Già le carni partiansi, e nelle coppe 
Gli umidi vini si mesceano. Ed ecco 

II banditor venir, guidar per mano 
L'onorato da tutti amabil vate, 

E adagiarlo, facendogli d'un' alta 
Colonna appoggio, ai convitati in mezzo. 
Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta 
Schiena di pingue dentibi^iico verro 

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150 ODISSEA (v. 627-662) 

Tagliò un florido brano, ed all'araldo, 
Te', disse, questo, e al vate il porta, ond' lo 
Rendagli, benché afflitto, un qualche onore. 
Chi è che in pregio e in riverenza i vati 
Non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui 
Sì dolci melodie la Musa impara. 

Portò Taraldo il dono, e il vate il prese, 
E per l'alma gli andò tacita gioia. 

Alle vivande intanto e alle bevande 
Porgean la mano; e furo spenti appena 
Della fame i desiri e della sete. 
Che il saggio Ulisse tali accenti sciolse: 
Demodoco, io te sopra ogni vivente 
Sollevo, te, che la canora figlia 
Del sommo Giove, o Apollo stesso inspira. 
Tu i casi degli Achivi, e ciò che oprare. 
Ciò che soffrirò, con estrema cura. 
Quasi visto l'avessi, o da que' prodi 
Guerrieri udito, su la cetra poni. 
Via, dunque, siegui, e l'edifìzio canta 
Del gran cavallo, che d'intesto travi. 
Con Pallade al suo fianco, Epèo construsse, 
E Ulisse penetrar feo nella ròcca 
Dardania pregno (stratagemma insigne !) 
Degli eroi per cui Troia andò in faville. 
Ciò fedelmente mi racconta, e tutti 
Sclamar m'udranno, ed attestar che il petto 
Di tutta la sua fiamma il Dio t'accende. 

Demodoco, che pieno era del nume. 
D'alto a narrar prendea, come gli Achivi, 
Gittate il foco nelle tende, i legni 
Parte salirò, e aprir le vele ai venti. 
Parte sedean col valoroso Ulisse 
Ne' fianchi del cavallo entro la ròcca. 
I Troi, standogli sotto in cerchio assisi 
Wolte cose dicean, ma incerte tutte, 

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(v. 663-698) LIBRO viii. 151 

E in tre sentenze dmdeansi' o il cavo 
Legno intagliato lacerar con Tarmi, 
O addurlo in cima d'una rupe, e quindi 
Precipitarlo, o il simulacro enorme 
AgH adirati Numi offrire in voto. 
Questo prevalse alfin: poiché destino 
Era che allor perisse Ilio superbo, 
Che ricettata nel suo grembo avesse 
L'immensa mole intesta, ove de' Greci, 
Morte ai Troi per recar, sedeano i capi. 
Narrava pur, come de* Greci i figli, 
Fuor di quella versatisi, e lasciate 
Le cave insidie, la cittade a terra 
Gittaro; e come, mentre i lor compagni 
Guastavan qua e là palagi e templi, 
Ulisse di Deifobo alla casa 
Col divin Menelao corse, qual Marte, 
E un duro v'ebbe a sostener conflitto, 
Donde usci vincitore, auspice Palla. 
A tali voci, a tai ricordi Ulisse 
Struggeasi dentro, e per le smorte guance 
Piovea lagrime giù dalle palpebre. 
Qual donna piange il molto amato sposo 
Che alla sua terra innanzi, e ai cittadini 
Cadde e ai pargoli suoi, da cui lontano 
Volea tener l'ultimo giorno; ed ella. 
Che moribondo il vede e palpitante, 
Sovra lui s'abbandona, ed urla e stride. 
Mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo 
Le va battendo, e gli omeri, e le intima 
Schiavitù dura, e gran fatica e strazio. 
Sì che già del dolor la miserella 
Smunto ne porta e disfiorato il volto: 
Così Ulisse di sotto alle palpebre 
Consumatrici lagrime piovea. 
Pur del suo pianto non s'accorse alcuno, 

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152 ODissKA (v. 699-734) 

Salvo re Alcinoo, che sedeagU appresso, 
E gemere il sentia; però ai Feaci, 
Udite, disse, o condottieri e prenci: 
Deponga il Tate la sonante cetra; 
Che a tutti il canto suo grato non giunge. 
Bai primo istante ch'ei toccoUa, in pianto 
Cominciò a romper l'ospite, a cui siede 
Certo un'antica in sen cura mordace. 
La mano adunque dalle corde astenga; 
E lieto allo stranier del par che a noi, 
Che il ricettammo, questo giorno cada. 
Consiglio altro non v'ha. Per chi tal festa? 
Per chi la scorta preparata, e i doni. 
D'amistà pegni, e le accoglienze oneste? 
Un supplice straniero ad uom, che punto 
Scorga diritto, è di fratello in vece. 
Ma tu di quel eh' io domandarti intendo , 
Nulla celarmi astutamente: meglio 
Torneranno a te stesso. Il nome dimmi. 
Con che il padre solca, solea la madre, 
E i cittadin chiamarti, ed i vicini: 
Che senza nome uom non ci vive in terra. 
Sia buono o reo, ma, come aperse gli occhi, 
Da* genitori suoi l'acquista in fronte. 
Dimmi il tuo suol, le genti e la cittade. 
Sì che la nave d'intelletto piena 
Prenda la mira, e vi ti porti. I legni 
Della Feacia di nocchier mestieri 
Non han, né di timon : mente hanno, e tutti 
Sanno i disegni di chi stavvi sopra, 
Conoscon le cittadi e i pingui campi, 
E senza tema di ruina o storpio , 
Rapidissimi varcano, e di folta , 
Nebbia coverti, le marine spume. 
Bensì al padre Nausitoo io dire intesi , 
Cfce ri^ttun centra noi forte s'adira, 

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(v. 735-759) LIBRO viii. 153 

Perchè illeso alla Patria ogni mortale 
Riconduciamo; e che un de* nostri legni 
Ben fabbricati, al suo ritorno, il Dio 
Struggerà nelle fosche onde; e la nostra 
Cittade coprirà d'alta montagna. 
Ma effetto abbiano, o no, queste minacce, 
Tu mi racconta, né fraudarmi il vero, 
I mari scorsi e i visitati lidi. 
Parlami delle genti, e delle terre 
Che di popol ridondano, e di quante 
Veder t'avvenne nazioni agresti. 
Crudeli, ingiuste, o agli stranieri amiche, 
A cui timor de* Numi alberga in petto. 
Né mi tacer, perchè secreto piangi 
Quando il fato di Grecia e d' Ilio ascolti. 
Se venne dagli Ì)ei strage cotanta, 
Lor piacque ancor che degli eroi le morti 
Fossero il canto dell'età future. 
Ti perì forse un del tuo sangue a Troia. 
Genero prode, o suocero, i più dolci 
Nomi al cor nostro dopo i figli e i padri? 
O forse un fido, che nell* alma entrarti 
Sapea, compagno egregio? È qual fratello 
L'uom che sempre usa teco, e a cui fornirò 
D'alta prudenza l'intelletto i Numi. 



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LIBRO NONO 



ARGOMENTO 

Ulisse iaconincia il racconto delle av7eiiture sue dopo la sua 
partenza di Troia. — Battaglia co* Ciconi . che arean soc- 
corso i Troiani. -> Arrivo al paese de* Loto&gi. o sia man- 
giatori del loto. — Descrizione d*una singolare isoletta, e 
della spelonca del ciclope Polifemo. — Questi gli divora sei 
de* compagni; ed egli, dopo averlo accecato, si salva con 
gli altri, mediante uno stratagemma nuovo che seppe in- 
ventare. 



Alcinoo Rege, che ai mortali tutti 
Di grandezza e di gloria innanzi vai, 
Bello è l'udir, gli replicava Ulisse, 
Cantor, come Demodoco, di cui 
Pari a quella d'un Dio suona la voce: 
Né spettacolo piti grato havvi, che quando 
Tutta una gente si dissolve in gioia, 
Quando alla mensa, che il cantor rallegra, 
Molti siedono in ordine, e le lanci 
Colme di cibo son, di vino l'urne, 
Donde coppier nell'auree tazze il versi, 
E ai convitati assisi il porga in giro. 
Ma tu la storia de' miei guai domandi, 
Perch* io rinnovi ed inacerbi il duolo. 
Qual pria dirò, qual poi, qual nell'estremo 
Racconto serberò delle sventure, 
Che gravi e molte m' inviare i Numi? 
Prima il mio nome, acciò, se vita un giorno 

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(v. 19-54) LIBRO IX. 155 

Mi si concede riposata e ferma, 

Deirospitalità ci unisca il nodo. 

Benché quinci lontan sorga il mio tetto. 

Ulisse, il figlio di Laerte, io sono, 

Per tutti accorgimenti al mondo in pregio, 

E già noto per fama in sino agli astri. 

Abito la serena Itaca, dove 

Lo scotifronde Nerito si leva 

Superbo in vista, ed a cui giaccion molte 

Noa lontane tra loro isole intorno, 

Dulichio, Same, e la di selve bruna 

Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste, 

Itaca al polo si rivolge, e meno 

Dal continente fugge: aspra di scogli. 

Ma di gagliarda gioventù nutrice. 

Deh qual giammai Tuom piti della natia 

Sua contrada veJer cosa può dolce? 

Calipso, inclita Diva, in cave grotte 

Mi ritenea, mi ritonea con arte 

Nelle sue case la dedalea Circe, 

Desiando d'avermi entrambe a sposo. 

Ma né Calipso a me, né Circe il core 

Piegava mai; che di dolcezza tutto 

La patria avanza, e nulla giova un ricco 

Splendido albergo a chi da* suoi disgiunto 

Vive in estrania terra. Or tu mi chiedi 

Quel che da Troia prescriveami Giove 

Lacrimabil ritorno; ed io tei narro. 

Ad Ismaro, de* Ciconi alia sede. 
Me, che lasciava Troia, il vento spinse. 
Saccheggiai la città, strage menai, 
Degli abitanti; e sì, le molte robe 
Dividemmo, e le donne, che^ alla preda 
Ciascuno ebbe ugual parte. Io gli esortava 
Partir subito e in fretta; e i forsennati, 
Dispregiando il mio dir, pecore pingui, 

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Ì56 ODISSEA (v. 55-90} 

Pingui a scannar tortocòrnuti tori« 

E larghi nappi ad asciugar sul lido. 

S'allontanaro in questo mezzo, e voce 

Diero i Cleoni ai Cleoni vicini. 

Che piti addentro abitavano. Costoro, 

Che in numero vincean gli altri, ed in forza, 

E battagliare a pie, come dal carro, 

Sapean del pari, mattutini, e tanti, 

Quante son fronde a primavera e fiori. 

Vennero; e allor di cielo a noi meschini 

Riversò addosso un grave sinistro Griove. 

Stabile accanto alle veloci navi 

Pugna si commettea: d'ambo le parti 

Volavan le pungenti aste omicide. 

Finché il mattin durava, e il sacro sole 

Acquistava del ciel, benché. più scarsi, 

Sostenevam della battaglia il nembo. 

Ma come il sol, calandosi all'Occaso, 

L'ora menò, che dal pesante giogo 

Si disciolgono i buoi, Tachiva forza 

Fu dall'aste de' Cleoni respinta. 

Sei de' compagni agli schinieri egregi 

Perdo ogni nave: io mi salvai col resto. 

Lieti nel cor della schivata morte, 
E de' compagni nella pugna uccisi 
Dolenti in un, ci allargavam dal lido; 
Ma le ondivaghe navi il lor cammino 
Non proseguian, che tre fiate in prima 
Non si fosse da noi chiamato a nome 
Ciascun di quei chegiacean freddi addietro. 
L'adunator de' nembi olimpio Giove 
Contro ci svegliò intanto una feroce 
Tempesta boreal, che d'atre nubi 
La terra a un tempo ricoverse e il mare, 
E la notte di cielo a piombo scese. 
Le vele ai legni, che moveansi obiic^ui, 

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(V. 91-126) LTtìRO i^. ISt 

Squarciò in tre e quattro parti il forte turbo. 
Noi pel timore ammainammo, e ratto 

I navigli affrettammo in Ter la spiaggia. 
Ove due giorni interi, e tante notti, 
Posavam lassi, e addolorati e muti. 

Ma come l'alba dai capelli d*oro 

II di terzo recò, gli alberi alzati, 
E dispiegate le candide vele. 
Entro i navigli sedevam, la cura 

Ài timonier lasciandone, ed al vento. 
Tempo era quello da toccar le amate 
Sponde natie: se non che Borea, e un' aspra 
Corrente me, che la Malea girava. 
Respinse indietro, e da Citerà svolse. 
Per nove infausti dì sul mar pescoso 

I venti rei mi traportaro. Al fine 
Nel decimo sbarcammo in su le rive 
De' Lotofagi, un popolo a cui cibo 

É d*una pianta il florido germoglio. 
Entrammo nella terra, acqua attignemmo , 
E pasteggiammo appo le navi. Estinti 
Della fame i desiri e della sete. 
Io due scelgo de* nostri, a cui per terzo 
Giungo un araldo, e a investigar li mando, 
Quai mortali il paese alberghi e nutra. 
Partirò, e s'affrontare a quella gente. 
Che, lungo dal voler la vita loro, 

II dolce loto a savorar lor porse. 
Chiunque l'esca dilettosa e nuova 
Gustato avea, con le novelle indietro 
Non bramava tornar: colà bramava 
Starsi, e, mangiando del soave loto. 
La contrada natia sbandir dal petto. 

^ ver ch'io lagrimosi al mar per forza 

Li ricondussi, entro i cavati legni 

Li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi: 

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15S omssftA (v. 127462) 

E agli altri risalir con gran prestezza 
Le negre navi comandai, non forse 
Ponesse alcun nel dolce loto il dente, 
E la Patria cadesse^li dai core. 
Quei le navi saliano, e sovra i banchi 
Sedean Tun dopo Taìtro, e gian battendo 
Co* pareggiati remi il mar canuto. 

Ci portammo oltre, e de* Ciclopi altieri, 
Che vivon senza leggi, a vista fummo. 
Questi lasciando ai Numi ogni pensiero, 
Né ramo o seme por, né soglion gleba 
Col vomere spezzar; ma il tutto viene 
Non seminato, non piantato o arato. 
L'orzo, il frumento e la gioconda vite, 
Che si carca di grosse uve, e cui Giove 
Con pioggia tempestiva educa e cresce. 
Leggi non han, non radunanze, in cui 
Si consulti tra lor: de* monti eccelsi 
Dimoran per le cime, o in antri cavi; 
Su la moglie ciascun regna e su i figli , 
Né l'uno all'altro tanto o quanto guarda. 
Ai Ciclopi di centra, e né vicino 
Troppo, né lunge, un* isoletta siede 
Di foreste ombreggiata, ed abitata 
Da un* infinita nazion di capre 
Silvestri, onde la pace alcun non turba; 
Che il cacciator, che per burroni e boschi 
Si consuma la vita, ivi non entra. 
Non aratore o mandrian v'alberga. 
Manca d'umani totalmente, e solo 
Le belanti caprette, inculta, pasce. 
Però che navi dalle rosse guance 
Tu cerchi indarno tra i Ciclopi, indarno 
Cerchi fabbro di nave a saldi banchi , 
Su cui passare i golfi, e le straniere 
Città trovar, qual delle* genti è usanza, 

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(v. 163-198) LIBRO tx. 150 

Che spesso van Tuna dell'altra ai lidi, 
E all'isola deserta addur coloni. 
Malvagia non è certo, e in sua stagione 
Tutto darebbe. Molli e irrigui prati 
Spiegansi in riva del canuto mare. 
Si vestirian di grappi ognor le viti, 
E così un pingue suolo il vomer curvo 
Riceverla, che altissima troncarvi 
Potriasi ai tempo la bramata mèsse. 
Che del porto dirò? Non v*ha di fune 
Né d'ancora mestieri; e chi già entrovvi. 
Tanto vi può indugiar, che de\nocchieri 
Le voglie si raccendono, e secondi 
Spirino i venti. Ma del porto in cima 
S'apre una grotta, sotto cui zampilla 
L'argentina onda d'un fonte, e a cui 
Fan verdissimi pioppi ombra e corona. 
Là smontavamo, e per l'oscura notte, 
Noi, spenta ogni veduta, un Dio scorgea: 
Che una densa caligine alle navi 
Stava d'intorno, né splendea di cielo 
La luna, che d'un nembo era coverta. 
Quindi nessun l'isola vide, e i vasti 
Flutti al lido volventisi, che prima 
Approdati non fossimo. Approdati, 
Tutte le vele raccogliemmo, uscimmo 
Sul lido, e l'alba dalle rosee dita, 
Nel sonno disciogliendoci, aspettammo. 

Sorta la figlia del mattino appena, 
L' isoletta, che in noi gran maraviglia 
Destò, passeggiavamo. Allor le Ninfe, 
Prole cortese dell'egioco Giove, 
Per fornir di convito i miei compagni. 
Quelle capre levare. E, noi repente, 
Presi i curvi archi e le asticciuole acute, 
E tre schiere di noi fatte, in tal guisa 

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l6Ò ODISSEA (v. Ì99-234; 

Il monte fulminammo, e il bosco tutto, 
Ch* io non so, se dai Numi in sì brev' ora 
Fu concessa giammai caccia si ricca. 
Dodici navi mi seguiano, e nove 
Capre ottenne ciascuna; io dieci n'ebbi, 
Tutto quel giorno sedevamo a mensa 
Tra carni immense e prezioso vino: 
Poicbè restava sulle navi ancora 
Del licore, onde molte anfore e molte 
Riempiuto avevam, quando la sacra 
Dispogliammo de'Cicdhi cittade. 
E de' Ciclopi nel vicin paese 
Levate intanto tenevam le ciglia, 
E salir vedevamo il fumo, e miste 
Col belo dell'agnello e delle capre 
Raccoglievam le voci. Il sole ascoso. 
Ed apparse le tenebre, le menfibra 
Sul marin lido a riposar gettammo. 

Ma come del mattin la figlia sorse. 
Tutti chiamati a parlamento, Amici, 
^ Dissi, vi piaccia rimaner, mentr' io 
Della gente a spiar vo col mio legno. 
Se ingiusta, soperchievole, selvaggia, 
di core ospitai siasi, ed a cui 
Timor de* Numi si racchiuda in petto. 
Detto, io montai la nave, e ai remiganti 
Montarla ingiunsi, e liberar la fune. 
E quei ratto ubbidirò; e già su i banchi 
Sedean l'un dopo l'altro, e gian battendo 
Co' pareggiati remi il mar canuto. 

Giunti alla terra, che sorgeaci a fronte. 
Spelonca eccelsa nell'estremo fianco 
Di lauri opaca, e al mar vicina, io vidi. 
Entro giaceavi innumerabil greggia. 
Pecore e capre; e di recise pietre 
Composto, e di gran pini e querce ombrose, 

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(v. 235-270) LIBRO IX. 161 

Alto recinto vi correa d'intorno. 
Uom gigantesco abita qai, che lungo 
Pasturava le pecore solingo. 
In disparte costui vivea da tutti, 
E cose inique nella mente cruda 
Covava: orrendo mostro, né sembiante 
Punto alla stirpe che di pan si nutre, 
Ma più presto al cucuzzolo selvoso 
D*una montagna smisurata, dove 
Non gli s'alzi da presso altro cacume. 
Lascio i compagni della nave a guardia, 
E con dodici sol, che i più robusti 
Mi pareano, e più arditi, in via mi pongo, 
Meco in otre caprin recando un negro 
Licer nettareo, che ci dio Marone 
D'Evantèo figlio, e sacerdote a Febo, 
Cai d'Ismaro le torri eran in cura. 
Soggiornava del Dio nel verde bosco, 
E noi di santa riverenza tocchi 
Con la moglie il salvammo, e con la prole. 
Quindi ei mi porse incliti doni: sette 
Talenti d'or ben lavorato, un'urna 
D'argento tutta, e dodici d'un vino 
Soave, incorruttibile, celeste. 
Anfore colme; un vin ch'egli, la casta 
Moglie e la fida dispensiera solo. 
Non donzelli sapeanlo, e non ancelle. 
Quandunque ne bevean, chi empia la tazza, 
Venti metri infondean d'acqua di fonte, 
E tal dall'urna scoverchiata odore 
Spirava, e sì divin, che somma noia 
Stato saria non confortarne il petto. 
Io dell'alma bevanda un otre adunque 
Tenea, tenea vivande a un zaino in grembo: 
Che ben diceami il cor, quale di strana 
Forza dotato le gran membra, e insieme 
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162 ODISSEA (v. 271-306; 

Debil conoscitor di leggi e dritti, 
Salvatic*uom mi si farebbe incontra. 

Alla spelonca divenuti in breve, 
Lui non trovammo, che per l'erte cime 
Le pecore lanigere aderbava. 
Entrati, gli occhi stupefatti in giro 
Noi portavam: le aggraticciate corbe 
Cedeano al peso de* formaggi, e piene 
D'agnelli e di capretti eran le stalle; 
E i piti grandi, i mezzani, i nati appena, 
Tutti come l'etade, avean del pari 
Lor propria stanza; e i pastorali vasi. 
Secchie, conche, catini, ov*ei le poppe 
Premer solca delle feconde madri, 
Entro il siero notavano. Qui forte, 
I compagni prega vanmi che, tolto 
Pria di quel cacio, si tornasse addietro, , 
Capretti s'adducessero ed agnelli ' ' 

Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse. 
Ma io non volli, benché il meglio fosse: 
Quando io bramava pur vederlo in faccia, 
E trar doni da lui, che riuscirci 
Ospite sì inamabile dovea. l 

Racceso il foco, un sacrifizio ai Numi i 

Femmo e assaggiammo del rappreso latte: I 
Indi l'attendevam nell'antro assisi. 

Venne, pascendo la sua greggia, e in collo 
Pondo non lieve di rìsecca selva, 
Che la cena cocessegli, portando. 
Davanti all' antro gittò il carco, e tale 
Levossene un romor, che sbigottiti 
Nel più interno di quel ci ritraemmo. 
Ei dentro mise le feconde madri, 
E gì' irchi a cielo aperto, ed i montoni 
Nella corte lasciò. Poscia una vasta 
Sollevò in alto ponderosa pietra, 

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(v. 307342) LIBRO IX. 163 

Che ventiduo da quattro ruote e forti 
Carri di loco non avriano smossa, 
E r ingresso accecò della spelonca. 
Fatto, le agnello assiso, e le belanti 
Capre mugnea, tutto serbando il rito, 
E a questa i parti mettea sotto , e a quella. 
Mezzo il candido latte insieme strinse, 
E su i canestri d'intrecciato vinco 
Collocollo ammontato: e Taltro mezzo. 
Che dovea della cena esser bevanda, 
Il riceverò i pastorecci vasi. 

Di queste sciolto cotidiane cure, 
Mentre il foco accendea, ci scòrse e disse: 
Forestieri, chi siete? E da quai lidi 
Prendeste a frequentar Tumide strade? 
Siete voi trafficanti? errando andate, 
Come corsali, che la vita in forse. 
Per danno altrui recar, metton su i flutti? 
Della voce al rimbombo, ed all'orrenda 
Faccia del mostro, ci s'infranse il core. 
Pure io così gli rispondea: Siam Greci, 
Che di Troia partiti e trabalzati 
Su pel ceruleo mar da molti venti. 
Cercando il suol natio, per altre vie, 
E con viaggi non pensati, a queste, 
Cosi piacque agli Dei, sponde afferrammo. 
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo 
Queir Atride Agamennone che il mondo 
Empieo della sua fama, ei che distrusse 
Città si grande, e tante genti ancìse. 
Ed or, prostesi alle ginocchia tue, 
Averci ti preghiam d'ospiti in grado, 
E d'un tuo dono rimandarci lieti. 
Ah! temi, o potentissimo, gli Dei: 
Che tuoi supplici slam, pensa, e che Giove 
Il supplicante vendica, e l'estrano, 

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164 ODISSEA (v. 343-378) 

Giove ospitai, che raccompagna, e il rende 
Venerabile altrui. Ciò detto, io tacqui. 

Ed ei con atroce alma: ti fallisce, 
Straniero, il senno, o tu di lunge vieni. 
Che vuoi che i Numi io riverisca e tema. 
L' Egidarmato di Saturno fglio 
Non temono i Ciclopi, o gli altri Iddii: 
Che di loro slam noi molto piti forti. 
Né perchè Giove inimicarmi io debba, 
A te concederò perdono, e a questi 
Compagni tuoi, se a me il mio cor noi detta. 
Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo 
Di questa terra, o a più propinquo lido? 

Così egli tastommi; ed io, che molto 
D'esperienza ricettai nel petto, 
Ravvistomi del tratto, incontanente 
Arte in tal modo gli rendei per arte: 
Nettuno là, 've termina e s'avanza 
La vostra terra con gran punta in mare, 
Spinse la nave mia centra uno scoglio, 
E le spezzate tavole per l'onda 
Sen portò il vento. Dair estremo danno 
Con questi pochi io mi sottrassi appena. 
Nulla il barbaro a ciò ; ma, dando un lancio, 
La man ponea sovra i compagni, e due 
Brancavane ad un tempo, e quai cagnuoli, 
Percoteali alla terra, e ne spargea 
Le cervella ed il sangue. A brano a brano 
Dilacerolli, e s'imbandì la cena. 
Qual digiuno leon, che ih monte alberga, 
Carni ed interiora, ossa e midolle. 
Tutto vorò, consumò tutto. E noi 
A Giove ambo le man tra il pianto alzammo, 
Spettacol miserabile scorgendo 
Con gli occhi nostri, e disperando scampo. 

Poiché la gran ventraia empiivto s'ebbe, 

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(v. 379-414) LIBRO IX, 165 

Pasteggiando dell'uomo, e puro latte 
Tracannandovi- sopra, in fra le agnello 
Tatto quant'era ei si distese, e giacque. 
Io, di me ricordandomi, pensai 
Farmigli presso, e la pungente spada 
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove 
La corata dal fegato si cinge. 
Ferirlo. So non ch'io vidi che certa 
Morte noi pure incontreremo, e acerba: 
Che non era da noi tór dall'immenso 
Vano dell'antro la sformata pietra 
Che il Ciclope fortissimo v' impose. 
Però, gemendo, attendevam l'aurora. 

Sorta l'aurora, e tinto in rosso il cielo, 
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse 
Pecore belle, acconciamente il tutto , 
E i parti a quésta mettea sotto , e a quella. 
Né appena fu delle sue cure uscito. 
Che altri due mi ghermì de' cari amici , 
E carne umana desinò. Satollo, 
Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto 
Senza fatica il disonesto sasso, 
Che dell'antro alla bocca indi ripose, 
Qual chi a faretra il suo coverchio assesta, 
Poi su pel monte si mandava il pingue 
Gregge davanti, alto per via fischiando. 

Ed io tutti a raccolta i miei pensieri 
Chiamai, per iscoprir, come di lui 
Vendicarmi io potessi, e un'immortale 
Gloria comprarmi col favor di Palla. 
Ciò alfin mi parve il meglio. Un verde, enorme 
Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse 
Di terra, onde fermar con quello i passi. 
Entro la stalla a inaridir giacca. 
Albero scorger credevam di nave 
Larga, mercanteggiante, e l'onde brune 

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166 ODISSEA (v. 415-450) 

Con venti remi a valicare usata: 
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi 
Quanto è sei piedi, e la recisa parte 
Diedi ai compagni da polirla. Come 
Polita fu, da un lato io raffilai. 
L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo, 
Ch'ivi in gran copia s'accogliea, Tascosi. 
Quindi a sorte tirar coloro io feci, 
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope 
L'adusto palo conficcar nell'occhio. 
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno. 
Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto 
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera, 
E dai campi tornava il fier pastore, 
Che la sua greggia di lucenti lane 
Tutta introdusse nel capace speco: 
di noi sospettasse, o prescrivesse 
Così il Saturnio. Novamente imposto I 

Quel, che rimosso avea, disconcio masso ^ | 

Pecore e capre alla tremola voce i 

Mungea sedendo, a maraviglia il tutto, 
E a questa mettea sotto , e a quella i parti. I 
Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo i 

Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro. \ 
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo 
D'edra una coppa. Te', Ciclope, io dissi: ' 

Poiché cibasti umana carne, vino I 

Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse | 

Bevanda carreggiava il nostro legno. j 

Questa, con cui libar, recarti io volli. 
Se mai, compunto di nuova pietade, 
Mi rimandassi alle paterne case. j 

Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo! 
Chi più tra gl'infiniti uomini in terra 
Fia che s'accosti a te? Male adoprasti. 
La coppa ei tolse, e bebbe, ed un supremo 

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(v. 451.486) LIBRO IX. 167 

Del soave licor prese diletto, 

E un* altra volta men chiedea: Straniero, 

Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa 

Subito il nome tuo, perch'io ti porga 

L'ospitai dono che ti metta in festa. 

Vino ai Ciclopi la feconda terra 

Produce col favor di tempestiva 

Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa: 

Ma questo è ambrosia e nettare celeste. 

Un* altra volta io gli stendea la coppa. 
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide 
Nella stoltezza sua tre volte il fondo. 
Quando m' accorsi che saliti al capo 
Del possente licor gli erano i fumi, 
Voci blande io drizzavagli: il mio nome. 
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi 
Tu del promesso a me dono ospitale. 
Nessuno è il nome; me la madre e il padre 
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici. 
Ed ei con fiero cor: L'ultimo ch'io 
Divorerò, sarà Nessuno. Questo 
Riceverai da me dono ospitale. 

Disse, e die indietro, e rovescion cascò. 
Giacea nell'antro con la gran cervice 
Bipiegata su Temerò; e dal sonno. 
Che tutti doma, vinto, e dalla molta 
Crapula oppresso, per la gola fuori 
Il negro vino, e della carne i pezzi, 
Con sonanti mandava orrendi rutti. 
Immantinente dell' ulivo il palo 
Tra la cenere io spinsi ; e in questo gli altri 
Rincorava, non forse alcun per tema 
M'abbandonasse nel miglior dell' opra. 
Come verde quantunque, a prender fiamma 
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi 
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai 

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168 ODISSEA (v. 487-522) 

Con intorno i compagni; un Dio per fermo 

D'insolito ardimento il cor ci armava. 

Quelli afferrar l'acuto palo, e in mezzo 

Dell'occhio il confìccaro; ed io di sopra, 

Levandomi su i pie, movealo in giro. 

E come allor che tavola di nave 

Il trapano appuntato investe e fora. 

Che altri il regge con mano, altri tirando 

Va d'ambo i lati le coregge, e attorno 

L' instancabil trapano si voi ve: 

Sì nell'ampia lucerna il trave acceso 

Noi giravamo. Scaturiva il sangue, 

La pupilla bruciava, ed un focoso 

Vapor, che tutta la palpebra e il ciglio 

Struggeva, uscia della pupilla, e l'ime 

Crepitarne io sentia rotte radici. 

Qual se fabbro talor nell'onda fredda 

Attuffò un'ascia o una stridente scure, 

E temprò il ferro, e gli die forza; tale 

L'occhio intorno al troncon cigola e frigge. 

Urlo il Ciclope sì tremendo mise, 
E tanto l'antro rimbombò, che noi 
Qua e là ci spargemmo impauriti. 
Ei f»or cavossi dell'occhiaia il trave, 
E da sé lo scagliò di sangue lordo. 
Furiando per doglia; indi i Ciclopi, 
Che non lontani le ventose cime 
Abitavan de* monti in cave grotte. 
Con voce alta chiamava. Ed i Ciclopi 
Quinci e quindi accorrean, la voce udita, 
E, soffermando alla spelonca il passo, 
Della cagione il richiedean del duolo. 
Per quale offesa, o Polifemo, tanto 
Gridasti! mai? Perchè così ci turbi 
La balsamica notte e i dolci sonni? 
Furati alcun la greggia? o uccìder forse 

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(v. 523-558) LIBRO ix. 189 

Con inganno ti vuole, o a forza aperta? 

E Polifemo dal profondo speco: 

Nessuno, amici, uccidemi, e ad inganno, 

Non già con la virtude. Or se nessuno 

Ti nuoce, rispoudeano, e solo alberghi, 

Da Giove è il morbo, e non v*ha scampo. Al padre 

Puoi bene, a re Nettun, drizzare i prieghi. 

Dopo ciò, ritornar su i lor vestigi: 

Ed a me il cor ridea, che sol d'un nome 

Tutta si fosse la mia frode ordita. 

Polifemo da duoli aspri crucciato. 
Sospirando altamente, e brancolando 
Con le mani, il pietron di loco tolse. 
Poi, dove l'antro vaneggiava, assiso 
Stavasi con le braccia aperte e stese, 
Se alcun di noi, che tra le agnello uscisse. 
Giungesse ad aggrappar; tanta ei credèo 
Semplicitade in me. Ma io gli amici 
E me studiava riscattar, correndo 
Per molte strade con la mente astuta : 
Che la vita ne andava, e già pendea 
Su le teste il disastro. Al fine in questa. 
Dopo molto girar, fraudo io m'arresto. 
Montoni di gran mole, e pingui e belli. 
Di folta carchi porporina lana, 
Rinchiudea la caverna. Io tre per volta 
Prendeane, e in un gli unia tacitamente 
Co' vinchi attorti, sovra cui solea 
Polifemo dormir: quel ch'era in mezzo. 
Portava sotto il ventre un de' compagni. 
Cui fean riparo i due ch'ivan da lato, 
E così un uomo conducean tre bruti. 
Indi afferrai pel tergo un ariete 
Maggior di tutti, e della greggia il fiore ; 
Mi rivoltai sotto il lanoso ventre, 
E, le mani avvolgendo entro ai gran velli, 

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170 ODISSEA (v. 559-594) 

Con fermo cor mi v*attenea sospeso. 
Così, gemendo, aspettavam l'aurora. 

Sorta Taurora, e tinto in ro§eo il cielo, 
Fuor della grotta i maschi alla pastura 
Gittavansi; e le femmine non munte, 
Che gravi molto si sentian le poppe, 
R'iempiean di belati i lor serragli. 
Il padron, cui ferian continue doglie, 
D'ogni montone, che diritto stava, 
Palpava il tergo; e non s'avvide il folle 
Che dalle pance del velluto gregge 
Pendean gli uomini avvinti. Ultimo uscià 
De' suoi velli bellissimi gravato 
L'ariete, e di me, cui molte cose 
S'aggiravan per l'alma. Polifemo 
Tai detti, brancicandolo, gli volse: 
Ariete dappoco, e perchè fuori 
Così da sezzo per la grotta m'esci? 
GlAr non solevi dell'agnelle addietro 
Restarti: primo, e di gran lunga, i molli 
Fiori del prato a lacerar correvi 
Con lunghi passi ; degli argentei fiumi 
Primo giungevi alle correnti; primo 
Ritornavi da sera al tuo presepe : 
Ed oggi ultimo sei. Sospiri forse 
L'occhio del tuo signor? l'occhio che un tristo 
Mortai mi svelse co* suoi rei compagni ; 
Poiché doma col vin m'ebbe la mente, 
Nessuno, ch'io non credo in salvo ancora. 
Oh! se a parte venir de' miei pensieri 
Potessi, e, voci articolando, dirmi, 
Dove dalla mia forza ei si ricovra, 
Ti giuro che il cervel della percossa 
Testa schizzata scorreria per l'antro, 
Ed io qualche riposo avrei da' mali 
Che nessuno recommi, un uom da nulla. 

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(v. 595*630) LIBRO IX. 171 

Disse; e da so lo spingea fuori al pasco. 

Tosto che dietro a noi V infame speco 
Lasciato avemmo, ed il cortile ingiusto, 
Tardo a sciormi io non fui dairariete, 
E poi gli altri a slegar, che, ragunate, 
Molte in gran fretta piedilunghe agnello, 
Cacciavansele avanti in sino al mare. 
Desiati apparimmo, e come usciti. 
Dalle fauci di Morte, a quei che in guardia 
Rimaser della nave, e che i compagni. 
Che non vedeano, a lagrimar si diero.. 
Ma io non consentiala, e con le ciglia 
Cenno lor fea di ritenere il pianto, 
E comandava lor che, messe in nave. 
Le molte in pria vellosplendenti agnello. 
Si fendessero i flutti. E già il naviglio 
Salian, sedean su i banchi, e percotendo 
Gian co* remi concordi il bianco mare. 
Ma come fummo un gridar d'uom lontani, 
Cosi il Ciclope io motteggiai: Ciclope, 
Color che nel tuo cavo antro, le grandi 
Forze abusando, divorasti, amici 
Non eran dunque d'un mortai da nulla , 
E il mal te pur coglier dovea. Malvagio! 
Che la carne cenar nelle tue case 
Non temevi degli ospiti. Vendetta 
Però Giove ne prese, e gli altri Numi. 

A queste voci Polifemo in rabbia 
Montò più alta, e con istrana possa 
Scagliò d'un monte la divelta cima. 
Che davanti alla prua caddemi: al tonfo 
L'acqua levossi, ed innondò la nave 
Che alla terra crudel, dai refluenti 
Flutti portata, quasi a romper venne. 
Ma io, dato di piglio a un lungo palo. 
Ne la staccai, pontando; ed i compagni 

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172 ODISSEA (v. 631-666) 

D'incurvarsi sul remo, e in salvo addarsi, 
Più de* cenni pregai, che della voce : 
E quelli tutte ad inarcar le terga. 
Scorso di mar due volte tanto, i detti 
A Polifemo io rivolgea di nuovo , 
Benché gli amici con parole blande 
D'ambo i lati tenessermi : Infelice I 
Perchè la fera irritar vuoi più ancora? 
Così poc'anzi a saettar si mise. 
Che tre dita mancò, che risospinto 
Non percotesse al continente il legno. 
Fa che gridare o favellar ci senta, 
E volerà per l'aere un altra rupe. 
Che le nostra cervella, e in un la nave 
Sfracellerà: tanto colui dardeggia. 
L'alto mio cor non si piegava. Quindi, 
Ciclope, io dissi con lo sdegno in petto, 
Se della notte, in che or tu giaci, alcuno 
Ti chiederà, gli narrerai che Ulisse, 
D'Itaca abitator, figlio a Laerte, 
Struggitor di cittadi, il dì ti tolse. 

Egli allora, ululando. Ohimè ! rispose , 
Da* prischi vaticinii eccomi cólto. 
Indovino era qui, prode uomo e illustre, 
Telemo, figliuol d'Èurimo, che avea 
Dell'arte il pregio , ed ai Ciclopi in mezzo 
Profetando invecchiava. Ei queste cose 
Mi presagì: mi presagì che il caro 
Lume dell'occhio spegneriami Ulisse. 
Se non ch'io sempre uom gigantesco e bello, 
E di forze invincibili dotato. 
Rimirar m'aspettava; ed ecco in vece 
La pupilla smorzarmi un piccoletto 
Greco ed imbelle, che col vin mi vinse. 
Ma qua, su via, vientene, Ulisse, ch'io 
Ti porga l'ospitai dono, e Nettuno 

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(v. 667-702) LIBRO IX. 173 

Di fortunare il tuo ritorno prieghi. 
Io di lui nacqui, ed ei sen vanta, e solo, 
Voglial, mi sanerà, non altri , io credo 
Tra i mortali nel mondo, o in ciel tra i Numi. 
Oh I così potess' io, ratto ripresi. 
Te spogliar della vita, e negli oscuri 
Precipitar regni di Pluto, come 
Nò da Nettuno ti verrà salute. 

Ed ei, le palme alla stellata volta 
Levando, il supplicava: chiomazzurro. 
Che la terra circondi, odi un mio voto. 
Se tuo pur son, se padre mio ti chiami. 
Di tanto mi contenta: in patria Ulisse, 
D' Itaca abitator, figlio a Laerte, 
Struggitor di cittadi, unqua non rieda. 
E dove il natio suolo, e le paterne 
Case il destin non gli negasse, almeno 
Vi giunga tardi e a stento, e in nave altrui, 
Perduti in pria tutti i compagni; e nuove 
Nell'avita magion trovi sciagure. 

Fatte le preci, e da Nettuno accolte, 
Sollevò un masso di più vasta mole. 
E, rotandol nell'aria, e una più grande 
Forza immensa imprimendovi, lancioUo. 
Cadde dopo la poppa, e del timone 
La punta rasentò: levossi al tonfo 
L'onda, e il legno coprì che all' isoletta. 
Spinto dal mar, subitamente giunse. 
Quivi eran l'altre navi in su l'arena, 
E i compagni, che assisi ad esse intorno 
Ci attendean sempre con agli occhi il pianto. 
Noi tosto in secco la veloce nave 
Tirammo, e fuor n'uscimmo, e del Ciclope 
Trattone il gregge, il dividemmo in guisa, 
Che parte ugual n* ebbe ciascuno. .È vero 
Che voUer che a me sol, partite l'agaj. 

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174 ODISSEA (v. 703-723) 

Il superbo ariete anco toccasse. 

Io di mia mano al Saturnide, al cinto 

D'oscure nubi Correttor del Mondo, 

L'uccisi, e n'arsi le fiorite cosce. 

Ma non curava i sacrifizi Giove, 

Che anzi tra sé volgea, com'io le navi 

Tutte, e tutti i compagni al fin perdessi. 

L'intero di sino al calar del sole 

Sedevam banchettando: il sole ascoso, 

Ed apparse le tenebre, le membra 

Sul marin lido a riposar gettammo. 

Ma come del mattin la figlia, l'Alba 
Ditirosata in Oriente sorse, 
I compagni esortai, comandai loro 
Di rimbarcarsi, e liberar le funi. 
E quei si rimbarcavano, e su i banchi 
Sedean Tun dopo l'altro, e percotendo 
Gian co* remi concordi il bianco mare. 
-Così noi lieti per lo scampo nostro, 
E per l'altrui sventura in un dolenti , 
Del mar di nuovo solcavam le spume. 



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LIBRO DECIMO 



ARGOMENTO 

Ulisse gionge ali* isola Eolia. — Eolo gli & il dono d' uà 
otre » in cui tutti i venti, non compresovi zefiro . son rin- 
chiusi* » I compagni sciolgono V otre ; • i venti ne scap- 
pano, e riportano Ulisse ad Eolo, che il discaccia de sé. 
— Passa alla cittèi de* Lestrigoni . popolo anche questo 
antropo&go. e perde la più parte de* compagni e le navi, 
eccetto una , con la quale arriva ali* isola di Circe. — 
Costei gli trasforma in pòrci la metit de* compagni, salvo 
uno, che viene a darne là nuova. Ulisse con Terba Moli. 
che Mercurio gli diede , scioglie 1* incanto. — Stato un 
anno con Circe, questa il consiglia d* ire alla casa di Plu- 
toni; ed ei s*apparecchia , perduto uno de* compagni, a 
ubbidirla. 



Giungemmo nell'Eolia, ove il diletto 
Agl'immortali Dei d'Ippota figlio, 
Eolo, abitava in isola natante, 
Cui tutta un muro d* infrangibil rame, 
E una liscia circonda eccelsa rupe. 
Dodici, sei d'un sesso e sei dell'altro, 
Gli nac^uer figli in casa ; ed ei congiunse 
Per nodo maritai suore e fratelli. 
Che avean degli anni il più bel fior sul volto. 
Costoro ciascun di siedon tra il padre 
Caro, e l'augusta madre, ad una mensa 
Di varie carca delicate dapi. 
Tutto il palagio, finché il giorno splende. 
Spira fragranze, e d'armonie risuona. 

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176 ODISSEA (v. 15-50) 

Poi, caduta suU* isola la notte, 
Chiudono al sonno le bramose ciglia 
In traforati e attappezzati letti 
Con le donne pudiche i fidi sposi. 

Questo il paese fu, questo il superbo 
Tetto, in cui me per un intero mese 
Co' modi più gentili Eolo trattava. 
Di molte cose mi chiedea; di Troia, 
Del navile de* Greci , e del ritorno : 
E il tutto io gli narrai di punto in punto. 
Ma come, giunta del partir mio l'ora, 
Parole io mossi ad impetrar licenza, 
Ei, non che dissentir, del mìo viaggio 
Pensier si tolse e cura; e della pelle 
Di bue novenne appresentommi un otre. 
Che imprigionava i tempestosi venti : 
Poiché de' venti dispensier supremo 
Fu da Giove nomato ; ed a sua voglia 1 

Stringer lor puote, o rallentare il freno. 
L'otre nel fondo del naviglio avvinse | 

Con funicella lucida e d'argento, 
Che non uscisse la più picciol' aura ; j 

E sol tenne di fuori un opportuno 
Zefiro, cui le navi e i naviganti i 

Diede a spinger su l'onda. Eccelso dono, , 
Che la nostra follia volse in disastra ! | 

Nove dì senza posa, e tante notti i 

Velleggiavamo ; e già ventaci incontro | 

Nel decimo la Patria, e omai vicini i 

Quei vedevam che raccendeano i fochi ; | 

Quando me stanco, perch'io regger volli 
Della nave il timon, né in mano altrui , 
Onde il corso affrettar, lasciarlo mai, 
Sorprese il sonno. I miei compagni intanto 
Favellavan tra loro, e fean pensiero 
Che argento ed oro alle mie case, doni 

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(v. 51-86) LIBRO X. 177 

Del generoso Ippòtade, io recassi. 
Numi! come di sé, dicea taluno 
Rivolto al suo yicin, tutti innamora 
Costui dovunque navigando arriva! 
Molti da Troia dispogliata arredi 
Riporla belli e preziosi ; e noi, 
Che le vie stesse misurammo, a casa 
Torniam con le man vote. In oltre questi 
L' Ippòtade gli die pegni d'amore. 
Orsù, veggiam quanto in suo grembo asconda 
D'oro e d'argento la bovina pelle. 

Così prevalse il mal consiglio. L'otre 
Fu preso e sciolto; e immantinente tutti 
Con furia ne scoppiar gli agili venti. 
La subitana orribile procella 
Li rapia dalla patria, e li portava 
Sospirosi nell'alto. Io , cui 1* infausto 
Sonno si ruppe, rivolgea nell'alma. 
Se di poppa dovessi in mar lanciarmi, 
soffrir muto, e rimaner tra i vivi. 
Soffrii, rimasi: ma, coverto il capo. 
Giù nel fondo io giacer, mentre le navi, 
Che i compagni di lutto empieano indarno, 
Ricacciava in Eolia il fiero turbo. 

Scendemmo a terra, acqua attingemmo e a 
Presso le navi ci adagiammo. Estinta (mensa 
Del cibarsi e del ber l'innata voglia, 
Io con un de' compagni e con l'araldo 
M'inviai d'Eolo alla magion superba; 
E tra la dolce sposa e i figli cari 
Banchettante il trcrvai. Sul limitare 
Sedevam della porta. Alto stupore 
Mostrare i figli, e con parole alate, 
Ulisse, mi dicean, come venistu? 
Qual t'assalì dèmone avverso ? Certo 
Cosa non fu da noi lasciata indietro. 

Odissea Digtzed by Godale 



178 ODISSEA (v. 87-122) 

Perchè alla patria e al tuo palagio, e ovunque 
Ti talentasse più, salvo giungessi. 
Ed io con petto d'amarezza colmo: 
Tristi compagni, e un sonno infausto a tale 
Condotto m'hanno. Or voi sanate, amici. 
Che il potete, tal piaga. In questa guisa 
Le anime loro io raddolcir tentai. 
Quelli ammutirò. Ma il cruciato padre, 
Via rispose, da questa isola, e tosto, 
O degli uomini tutti il più malvagio: 
Che a me né accor, né rimandar con doni 
Lice un mortai che degli Eterni é in ira. 
Via, poiché Todio lor qua ti condusse. 
Così Eolo shandia me dal suo tetto, 
Che de' gemiti miei tutto sonava. 

Mesti di nuovo prende vam dell' alto: 
Ma si stancavan di lottar con l' onda. 
Remigando, i compagni, e del ritorno 
Morìa la speme ne' dogliosi petti. 
Sei di navigammo, e notti sei; 
E col settimo Sol della sublime 
Città di Lamo dalle }arghe porte. 
Di Lestrigonia, pervenimmo a vista. 
Quivi pastor, che a sera entra col gregge. 
Chiama un altro, che fuor con l'armento esce. 
Quivi uomo insonne avria doppia mercede, 
L'una pascendo i buoi, l'altra le agnello 
Dalla candida lana: sì vicini 
Sono il diurno ed il notturno pasco. 
Bello ed ampio n'è il porto; eccelsi scogli 
Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte. 
Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno. 
S'apre un'angusta bocca. I miei compagni, 
Che nel concavo porto a entrar fur pronti, 
Propinque vi tenean le ondivaganti 
Navi, e avvinte tra lor; quando né grande 

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(v. 123-158) LIBRO X. 179 

Vi s'alza mai, né picciola onda, é sempro 
Una calma vi appar tacita e bianca. 

10 sol rimasi col naviglio fuori, 

Che al sasso estremo con in torta fune, 
Raccomandai: poi, su la rupe asceso, 
Quanto si discopria mirava intorno. 
Lavor di bue non si scorgea, né d'uomo: 
Sol di terra salir vedeasi un fumo. 
Scelgo allor due compagni, e con l'araldo 
Mandoli a investigar, quali V ignota 
Terra produce abitatori e nutre. 
La via diritta seguitar, per dove 
1 carri conduceano alla citade 
Dagli alti monti la troncata selva; 
E s'abbatterò a una real fanciulla, 
Del Lestrigone Antifate alla figlia. 
Che del fonte d'Artacia, onde costuma 

11 cittadino attignere, in quel punto 
Alle pure scendea linfe d'argento. 
Le si fero da presso, e chi del loco 

Re fosse, e su^ qual gente avesse impero , 
La domandare'; ed ella pronta l'alto 
Loro additò con man tetto del padre. 
Tocco ne aveano il limitare appena, 
Che femmina trovar di si gran mole, 
Che rassembrava una montagna; e un gelo 
Si sentirò d'orror correr pel sangue. 
Costei di botto Antifate chiamava 
Dalla pubblica piazza, il rinomato 
Marito suo, che disegnò lor tosto 
Morte barbara e orrenda. Uno afferronne, 
Che gli fu cena; gli altri due 6on fuga 
Precipitosa giunsero alle navi. 

Di grida la cittade intanto empiea 
Antffate. I Lestrigoni l'udirò, 
E accorrean chi da un lato e chi dall' altro, 

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180 ODISSÈA (v. 159-194) 

Forti di braccio, in numero infiniti, 
E giganti alla vista. Immense pietre 
Così dai monti a fulminar si diero, 
Che d'uomini spiranti e infranti legni 
Sorse nel porto un suon tetro e confuso. 
Ed alcuni infilzati eran con l'aste, 
Quali pesci guizzanti, e alle ferali 
Mense future riserbati. Mentre 
Tal seguia strage, io sguainato il brando , 
E la fune recisa, a' miei compagni 
Dar di forza nel mar co* remi ingiunsi. 
Se il fuggir morte premea loro ; e quelli 
Di tal modo arrancavano, che i gravi 
Massi, che piovean d'alto, il mio naviglio 
Lietamente schivò; ma gli altri tutti 
Colà restaro sfragellati e spersi. 

Contenti dello scampo, e in un dogliosi 
Per li troppi compagni in si crudele 
Guisa periti, navigammo avanti, 
E su l'isola Eèa sorgemmo, dove 
Circe, Diva terribile, dal crespo 
Crine e dal dolce canto, avea soggiorno. 
" Suora germana del prudente Eeta, 
Dal sole aggiornator nacque, e da Persa 
Dell'antico Oceàn figliuola illustre. 
Taciti a terra ci accostammo, entrammo , 
Non senza un Dio che ci guidasse, il cavo 
Porto, e sul lido uscimmo ; e qui due giorni 
Giacevamo, e due notti, il cor del pari 
La stanchezza rodendoci e la doglia. 

Come recato ebbe il dì terzo l'Alba , 
Io, presa l'asta ed il pungente brando, 
Rapidamente andai sovra un' altezza, 
Se d'uomo io vedessi opra, o voce udissi. 
Fermato il pie su la scoscesa cima. 
Sórsi un fumo salir d' infra uim selva 

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[y. 195-230) LIBRO X. 18X 

Di querce annose, che in vasto piano 
Di Circe alla magion sorgeano intorno. 
Entrar disposi senza indugio in vìa, 
E il paese cercar: poi ripensando, 
Al legno invece rivoltare i passi. 
Cibo dare ai compagni, e alcuni prima 
A esplorare inviar, mi parve il meglio. 
Già tra la nave e me poco restava: 
Quando ad un de' Celesti, in cui pietade 
Per quella solitudine io destai. 
Grosso ed armato di ramose corna 
Drizzare alla mìa volta un cervo piacque. 
Spinto dal Sole, che il cocca co* raggi , 
De' paschi uscia della foresta, e al fiume 
Scendea con labbra sitibonde ; ed io 
Su la spina lo colsi a mezzo il tergo 
Sì, che tutto il passò l' asta di rame. 
Nella pólve cade, mandando un grido, 
E via ne volò l'alma. Accorsi, e, il piede 
Pontando in esso, dalla fonda piaga 
Trassi il cerro sanguigno, ed il sanguigno 
Cerro deposi a terra : indi virgulti 
Divelsi e giunchi, attorciliaili , fune 
Sei spanne lunga ne composi, e i morti 
Piedi ne strinsi dell* enorme fera. 
Al fin sul collo io la mi tolsi, e mossi, 
Su la lancia poggiandomi, al naviglio : 
Che mal potuto avrei sovra una sola 
Spalla portar così sformata belva. 
Presso la nave scaricailla ; e ratto 
Con soavi parole i miei compagni, 
A questo rivolgendomi ed a quello. 
Così tentai rianimare: Amici, 
Prima del nostro di d'Aide alle porte 
Non calerem, benché ci opprima il duolo. 
Su, finché cibo avemo, avem licore, 

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182 ODISSEA (v. 231-266) 

Non mettiamli in oblio ; nò all' importuna 
Fame lasciamci consumar di dentro. 
Quelli ubbidendo alle mie yocì, uscirò 
IDelle latebre loro, e in riva al mare. 
Che frumento non genera, venuti, 
Stupian del cervo: sì gran corpo egli era! 
E come sazi del mirarlo furo, 
Ne apparecchiare non vulgar convito. 
Sparse prima di chiara onda le palme. 
Cosi tutto quel di sino all' occaso 
Di carne opima e di fumoso vino 
L'alma riconfortammo: il Sol caduto, 
E comparse le tenebre, nel sonno 
Ci seppellimmo al mormorio dell'onde. 

Ma, sorta del mattin la rosea figlia. 
Tutti io raccolsi a parlamento, e dissi : 
Ct)mpagni, ad onta di guai tanti, udite. 
Qui, d'onde l'Austro spira o l'Aquilone, 
E in qual parte il Sole alza, in qual dechina. 
Noto non è. Pur consultare or vuoisi, 
Qual consiglio da noi prender si debba, 
Se v'ha un consiglio: di che forte io temo. 
Io d'in su alpestre poggio isola vidi 
Cinta da molto mar, che bassa giace, 
E nel cui mezzo un nereggiante fumo 
D' infra un bosco di querce al ciel si volve. 

Rompere a questo si sentirò il core, 
D'Antifate membrando, e del Ciclope 
La ferocia, i misfatti e le nefande 
Della carne dell'uom mense imbandite. 
Strida metteano, e discioglieansi in pianto. 
Ma del pianto che prò? che delle strida? 
Tutti in due schiere uguali io li divisi, 
E diedi ad ambo un duce: all'una il saggio 
Euriloco, e me all'altra. Indi nel cavo 
Rame dell'elmo agitavam le sortii 

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{j. 267^02) LIBRO X. 183 

Ed Euriloco uscì, che in via si pose 
Senza dimora. Ventidue compagni, 
Lagrimando, il seguian; né affatto asciutte 
Di noi, che rimanemmo, eran le guance. 
Edificata con lucenti pietre 
Di Circe ad essi la magion s* offerse, 
Che vagheggiava una feconda valle. 
Montani lupi e leon falbi, ch'ella 
Mansuefatti avea con sue bevande, 
Stavano a guardia del palagio, eccelso. 
Né lop già s'avventavano; ma in vece 
Lusingando scotean le lunghe code, 
E su V anche s* ergeano. E quali i cani 
Blandiscono il signor, che dalla mensa 
Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano; 
Tal quelle di forte unghia orride belve 
Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo 
Vederle s'arretraro, ivan blandendo. 
Giunti alle porte, la Deessa udirò 
Dai ben torti capei. Circe, che dentro 
Canterellava con leggiadra voce. 
Ed un'ampia tessea, lucida, fina, 
Maravigliosa, immortai tela, e quale 
Della man delle Dive uscir può solo. 
Polite allor, d'uomini capo, e molto 
Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti, 
Sciogliea tai detti: Amici, in queste mura 
Soggiorna, io non so ben, se donna o Diva, 
Che, tele oprando, del suo dolce canto 
Tutta fa risentir la casa intorno. 
Voce mandiamo a lei. Disse, e a lei voce 
Mandare; e Circe di là tosto, ov'era, 
Levossi, e apri le luminose porte, 
E ad entrare invitavali. In un groppo 
La seguian tutti incautamente, salvo 
Euriloco, che fuor, di qualche inganno 

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184 ODISSEA. (y. S03-338) 

Sospettando, restò. La Dea li pose 
Sovra splendidi seggi; e lor mescea 
11 Pramnio vino con rappreso latte, 
Bianca farina e mèi recente; e un succo 
Giungeavi esizìal, perchè con questo 
Della patria l'oblio ciascun bevesse. 
Preso e votato dai meschini il nappo. 
Circe batteali d'una verga, e in vile 
Stalla chiudeali: avean di porco testa. 
Corpo, setole, voce; ma lo spirto 
Serbavan dentro, qual da prima, integro. 
Così rinchiusi, sospirando, furo: 
Ed ella innanzi a lor del cornio i frutti 
Gettava, e della rovere e dell'elee, 
De* verri accovacciati usato cibo. 

Nunzio verace dell'infausto caso 
Venne rapido Euriloco alla nave. 
Ma non potea per iterati sforzi 
La lingua disnodar: gonfi portava 
Di pianto i lumi, e un violento duolo 
L'alma gli percotea. Noi, figurando 
Sventure nel pensier, con maraviglia 
L'interrogammo; ed ei l'eccidio al fine 
De* compagni narrò: Nobile Ulisse, 
Attraversato delle querce il bosco. 
Come tu comandavi, eccoci a fronte 
Magion construtta di politi marmi, 
Che di mezzo a una valle alto s'ergea. 
Tessea dì- dentro una gran tela, e canto, 
Donna o Diva chi il sa? stridulo alzava. 
Voce mandaro a lei. Levossi, e aperse 
Le porte, e ne invitò. Tutti ad un corpo 
Nella magion disavvedutamente 
Seguianla: io no, che sospettai di frode. 
Svanirò insieme tutti; e per istarmi 
Lungo ch'io feci, ad esplorare assiso, 

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(y. 339^4) LiBKo X. 185 

Traccia d'alcun di lor più non m'apparve. 

Disse; ed io grande alle mie spalle, e acuta 
Spada d'argento buUettata appesi, 
Appesi un valid'arco, e ingiunsi a lui, 
Che innanzi per la via stessa mi gisse. 
Ma Euriloco, i ginocchi ad ambe mani 
Stringendomi, e piangendo, Ah ! mal mio grado, 
Con supplici gridò parole alate, 
Là non guidarmi, o del gran Giove alunno, 
Donde, non che altri ricondur, tu stesso 
Ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo 
Senza indugio con questi, e la vicina 
Parca schiviam, finché schivarla è dato. 

Euriloco, io risposi, e tu rimanti, 
Di carne e vino a riempirti il ventre, 
Lungo la nave. Io, cui severa stringe 
Necessitate, andrò. Ciò detto, a tergo 
La nave negra io mi lasciava, e il mare. 

Già per le sacre solitarie valli 
Della Maga possente all'alta casa 
Presso io mi fea, quando Mercurio, il Nume 
Che arma dell'aureo caduceo la destra. 
In forma di garzone, a cui fiorisce 
Di lanugine molle il mento appena, 
Mi venne incontro, e per la man mi prese, 
E, Misero! diss'ei con voce amica, 
Perchè ignaro de* lochi, e tutto solo. 
Muovi cosi per queste balze a caso? 
Sono in poter di Circe i tuoi compagni, 
E li chiudon, quai verri, anguste stalle. 
Venistù forse a riscattarli? Uscito 
Dell'immagine tua penso che a terra 
Tu ancor cadrai. Se non che trarti io voglio 
Fuor d'ogni storpio, e in salvo porti. Prendi 
Questo mirabil farmaco, che il tristo 
Giorno dal capo tuo storni, e con esso 

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186 ODISSEA (v. 375-410) 

Trova il tetto di Circe, i cui perversi 
Consigli tutti io t'aprirò. Bevanda 
Mista, e di succo esiziale infusa. 
Colei t'appresterà: ma le sue tazze 
Centra il farmaco mio nulla varranno. 
Più oltre intendi. Come te la Diva 
Percosso avrà d'una sua lunga verga. 
Tu cava il brando che ti pende al fianco, 
E, di ferirla in atto, a lei t'avventa. 
Circe, compresa da timor, sue nozze 
T'offrirà pronta: non voler tu il letto 
Della Dea ricusare, acciò ti sciolga 
Gli amici, e amica ti si renda. Solo 
Di giurarti costringila col grande 
Degl'immortali Dei giuro, che nulla 
Più non sarà per macchinarti a danno; 
Onde, poiché t'avrà l'armi spogliate. 
Del cor la forza non ti spogli ancora. 

Finito il ragionar, l'erba salubre 
Persemi già dal suol per lui divelta, 
E la natura divisonne: bruna 
N'ò la radice; il fior bianco di latte; 
Moli i Numi la chiamano: resiste 
Alla mano mortai, che vuol dal suolo 
Staccarla; ai Dei, che tutto ponno, cede. 
Detto, dalla boscosa ìsola il Nume 
Alle pendici dell'Olimpo ascese; 
Ed io vèr Circe andai; ma di pensieri 
In gran tempesta m'ondeggiava il core. 

Giunto alla Diva dalle belle trecce, 
La voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta 
Levossi, e aprì le luminose porte, 
E m'invitava; io la seguia non lieto. 
Sovra un distinto d'argentini chiovi 
Seggio a grand' arte fatto, e vago assaij 
Mi pose: lo sgabello i piò reggea, 

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(y. 411-446) LIBRO X. 187 

Quindi con alma, ohe pensava mali, 
La mista preparommi in aureo nappo 
Bevanda incantatrice, ed io la presi 
Della sua mano, e babbi; e non mi nocque. 
Però in quel che la Dea me della lunga 
Verga percosse, e, Vanne, disse, e a terra 
Co* tuoi compagni nella stalla giaci: 
Tirai dal fianco il brando, e centra lei, 
Di trafiggerla in atto, io mi scagliai. 
Circe, mandando una gran voce, corse 
Rapida sotto il colpo, e le ginocchia 
Con le braccia afferrommi, e queste alate 
Parole mi drizzò non senza pianto: 
Chi sei tu? donde sei? la Patria dove? 
Dove i parenti a te? Stupor m'ingombra, 
Che l'incanto bevuto in te non possa, 
Quando io non vidi, cui passasse indarno 
Per la chiostra de' denti il mio veleno. 
Certo un'anima invitta in petto chiudi. 
Sarestu forse quel sagace Ulisse, 
Che Mercurio a me sempre iva dicendo 
Dover d'Ilio venir su negra nave? 
Per fermo sei. Nella vagina il brando 
Riponi, e sali il letto mio: dal core 
D'entrambi ogni sospetto amor bandisca. 

Circe, risposi, che da me richiedi? 
Io cortese vèr te, che sozze belve 
Mi trasformasti gli uomini? Rivolgi 
Tacite frodi entro te stessa: ed io 
La tua penetrerò stanza secreta. 
Onde, poiché m'avrai l'armi spogliate. 
Del cor la forza tu mi spogli ancora? 
No, se non giuri prima, e con quel grande 
Degl'immortali Dei giuro che nulla 
Più non sarai per macchinarmi a danno. 
Dissi; e la Dea giurò. Di Circe allora 

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188 ODISSEA (v. 447-482> 

Le belle io salsi maritali piume. 

Quattro serviaDo a lei nel suo palagio 
Di quelle Ninfe che dai boschi nate 
Sono, o dai fonti liquidi, o dai sacri. 
Che devolvonsi al mar, rapidi fiumi. 
L'una gittava su i politi seggi 
Bei tappeti di porpora, cui sotto 
Bei tappeti mettea di bianco lino: 
L'altra mense d'argento innanzi ai seggi 
Spiegava, e d'oro v'imponea canestri: 
Mescea la terza nell'argentee brocche 
Soavissimi vini, e d'auree tazze 
Copria le mense: ma la quarta il fresco 
Fonte recava, e raccendea gran fuoco 
Sotto il vasto treppiè, che l'onda cape. 
Già fervea questa nel cavato bronzo, 
E me la Ninfa guidò al bagno, e l'onda 
Pel capo mollemente e per le spalle 
Spargermi non cessò, ch'io mi sentii 
Di vigor nuovo rifiorir le membra. 
Lavato ed unto di licor d'oliva, 
E di tunica e clamide coverto, 
Sovra un distinto d'argentini chiovi 
Seggio a grand' arte fatto, e vago assai 
Mi pose: lo sgabello i pie reggea. 
E un'altra Ninfa dal bel vaso d'oro 
Purissim' acqua nel bacil d'argento 
Mi versava, e stendeami un liscio desco, 
Ohe di candido pane e di serbate 
Dapi a fornir la dispeusiera venne. 
Cibati, mi dicea la veneranda 
Dispensiera, ed instava: ed io, d'ogni esca 
Schivo, in altri pensieri, e tutti foschi, 
Tenea la mente, pur sedendo, infissa. 
Circe, ratto che avvidesi cL'io mesto 
Non mi curava della mensa punto, 

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(v. 483-518) LifeRO X. 18d 

Con queste m'appressò voci sul labbro: 
Perchè così, qual chi non ha favella. 
Siedi, Ulisse, struggendoti, e vivanda 
Non tocchi, né bevanda? In te sospetto 
S'annida forse di novello inganno? 
Dopo il mio giuramento a torto temi. 

Ed lo : Circe, qual mai retto uomo e saggio 
Vivanda toccheria prima, o bevanda. 
Che i suoi vedesse riscattati e salvi? 
Fa' che liberi io scorga i miei compagni, 
Se vuoi che della mensa io mi sovvegna. 

Circe usci tosto con in man la verga, 
E della stalla gì' infelici trasse. 
Che di porci novenni avean l'aspetto. 
Tutti le stavan di rincontro; e Circe, 
D'uno all'altro passando, un prezioso 
Sovra lor distendea benigno unguento. 
Gli odiati peli, che la tazza infesta 
Produsse, a terra dalle membra loro 
Cadevano; e ciascun più, che non era, 
Grande apparve di corpo, e assai più fresco 
D'etade in faccia e di beltà più adorno. 
Mi ravvisò ciascuno, ed afferrommi 
La destra; e un cosi tenero e si forte 
Compianto si levò« che la magione 
Ne risonava orrendamente, e punta 
Sentiasi di pietà la stessa Maga. 

Ella, standomi al fianco, sovrumano 
Di Laerte fìgliuol, provvido Ulisse, 
Corri, diceami, alla tua nave, e in secco 
La tira, e cela nelle cave grotte 
Le ricchezze e gli arnesi: indi a me torna, 
E i diletti compagni adduci teco. 

M' entrò il suo dir nell'alma. Al lido io corsi, 
E i compagni trovai, che appo la nave 
Di lagrime nutrìansi e di sospiri, 

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Ì9Ò ODISSEA (v. 519-554) 

Come, se riedon le satolle vacche 
Dai verdi prati al rusticale albergo, 

I vitelli saltellano, e alle madri, 

Che più serraglio non ritienli o chiostra , 
Con frequente muggir corrono intorno: 
Così con pianto a me, vistomi appena, 
Intorno s'aggiravano i compagni, 
E quei mostravan su la faccia segni, 
Che vi si scorgerian, se il dolce nido, 
Dove nacquero e crebbero, se l'aspra 
Itaca avesser tocca. 0, lagrimando 
Dìcean, di Giove alunno, una tal gioia 
Sarebbe a stento in noi, se ci accogliesse 
I)* Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo 
Fato degli altri raccontar ti piaccia. 

Ed io con dolce favellar: La nave 
Si tiri in secco, e nelle cave grotte 
Le ricchezze si celino e gli arnesi. 
Poi seguitemi in fretta; ed i compagni 
Nel tetto sacro dell'illustre Circe 
Vedrete assisi ad una mensa, in cui 
Di là d'ogni desio la copia regna. 

Pronti obbedirò. Ripugnava Euriloco 
Solo, ed or questo m'arrestava, or quello. 
Gridando: Sventurati, ove ne andiamo? 
Qual mai vi punge del disastro sete, 
Che discendiate alla Maliarda, e vòlti 
Siate in leoni, in lupi, o in sozzi verri, . 

II suo palagio a custodir dannati? 
L'ospizio aveste del Ciclope, quando 
Calaro i nostri nella grotta, e questo 
Prode Ulisse guidavali, di cui 
Morte ai miseri fu lo stolto ardire. 
Così Euriloco; ed io la lunga spada 
Cavar pensai della vagina, e il capo 

Dal busto ai pie sbalzargli in su la polve, 

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(v. 555-590) tiBRo X. 191 

Benché vincol di sangue a me 1* unisse. 
Ma tutti quinci riteneanmi, e quindi 
Con favella gentil: Di Giove alunno, 
Costui sul lido, se ti piace, in guardia 
Della nave rimangasi, e alla sacra 
Magion noi guida. Detto ciò, dal mare 
Meco venian, né restò quegli indietro: 
Tanto della minaccia ebbe spavento. 

Cura prendeasi Circe in questo mezzo 
Degli altri, che lavati, unti, e di buone 
Tuniche cinti e di bei manti furo. 
Seduti a mensa li trovammo. Come 
Si sguardaro Tun Taltro, e sul passato 
Con la mente tornare, in pianti e in grida 
Davano; ne gemean pareti e volte, 
M'appressò allora e mi parlò in tal guisa 
L'inclita tra le Dive: di Laerte 
Gran prole, o ricco di consigli Ulisse, 
Modo al dirotto lagrimar si ponga. 
Noto è a me pur, quanti nel mar pescoso 
Duraste affanni, e so le crude offese 
Che vi recaro in terra uomini ostili. 
Su via, gioite omai, finché nel petto 
Vi rinasca Tardir, ch'era in voi, quando 
Itaca alpestre abbandonaste in prima. 
Bassi or gli spirti avete, e freddo il sangue 
Per la memoria de* viaggi amari 
Nelle menti ancor viva, e l'allegrezza 
Disimparaste tra cotanti guai. 

Agevolmente ci arrendemmo. Quindi 
Pel continuo rotar d'un anno intero 
Giorno non ispuntò, che a lauta mensa 
Me non vedere e i miei compagni in festa. 
Ma, rivolto già l'anno, e le stagioni 
Tornate in sé col variar de* mesi. 
Ed il cerchio dei dì molti compiuto, 

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192 ODISSEA (v. 591-626) 

I compagni, traendomi in disparte, « 
Infelice! mi dissero, del caro 
Cielo nativo e delle avite mura 
Non ti rammenterai, se vuole il fato 
Che in vita tu rimanga, e le rivegga? 

Sano avviso mi parve. Il Sol caduto, 
E coverta di tenebre la terra. 
Quei si corcare per le stanze; ed io. 
Salito il letto a maraviglia bello 
Di Circe, supplichevoli drizzai 
Alla Dea, che m'udì, queste parole: 
Attiemmi, o Circe, le impromesse* e al caro 
Rendimi natio ciel, cui sempre vola. 
Non pure il mio, ma de' compagni il core. 
De' compagni, che stanno a me d'intorno, 
Sempre che tu da me t'apparti, e tutta 
Con le lagrime lor mi struggon l'alma. 

di Laerte sovrumana prole. 
La Dea rispose, ritenervi a forza 
Io più oltre non vo'. Ma un'altra via 
Correre in prima è d'uopo : è d'uopo i foschi 
Di Pluto e di Proserpina soggiorni 
Vedere in prima, e interrogar lo spirto 
Del Teban vate, che, degli occhi cieco. 
Puro conserva della mente il lume; 
Di Tiresia, cui sol die Proserpina 
Tutto portar tra i morti il senno antico. 
Gli altri non son che vani spettri ed ombre. 

Rompere il core io mi sentii. Piagnea, 
Su le piume giacendomi, né i raggi 
Yolea del Sol più rimirare. Al fine. 
Poiché del pianger mio, del mio voltarmi 
Su le piume io fui sazio. Or qual, ripresi, 
Di tal viaggio sarà il duce? All'Orco 
Nessun giunse fìnor su negra nave. 

Per difetto di guida, ella rispose, 

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(v. 627-662) LIBRO x. 193 

Non t'annoiar. L'albero alzato, e aperte 
Le tae candide vele, in su la poppa 
T'assidi, e spingerà Borea la nave. 
Come varcato l'Oceano avrai. 
Ti appariranno i bassi lidi, e il folto 
Di pioppi eccelsi e d'infecondi salci 
Bosco di Proserpìaa; a quella piaggia, 
Che rOceàtt gorghiprofondo batte. 
Ferma il naviglio, e i regni entra di Pluto. 
Rupe ivi s'alza, presso cui due fiumi 
S'urtan tra lor romoreggiando, e uniti 
Nell'Acheronte cadono: Cocito, 
Ramo di Stige, e Piriflegetonte. 
Appressati alla rupe, ed una fossa. 
Che un cubito si stenda in lungo e in largo. 
Scava, o prode, tu stesso; e mèi con vino, 
Indi vin puro e limpidissim'onda 
Vèrsavi, a onor de' trapassati, intorno, 
E di bianche farine il tutto aspergi. 
Poi degli estinti prega i frali e vóti 
Capi, e prometti lor che nel tuo tetto. 
Entrato con la nave in porto appena, 
Vacca infeconda, dell'armento fiore, 
Lor sagrificherai, di doni il rogo 
Riempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte 
Immolerai nerissimo ariete. 
Che della greggia tua pasca il più bello. 
Compiute ai Mani le preghiere, uccidi 
Pecora bruna, ed un monton, che all'Orco 
Volgan le fronte: ma converso tieni 
Del fiume alla corrente in quella il viso. 
Molte Ombre accorreranno. A* tuoi compagni 
Le già sgozzate vittime e scoiate 
Mettere allor sovra la fiamma, e ai Numi, 
Al prepotente Pluto e alla tremenda 
Proserpina drizzar voti comanda. 

DigitizedbyVjOnQie 



194 ODISSEA (v. 663-698) 

E tu col brando sguainato siedi^ 

Nò consentir che anzi che parli al vate, 

I Mani al sangue accostinsi. Repente 

II profeta verrà, Duce di genti. 
Che sul viaggio tuo, sul tuo ritorno 
Pel mar pescoso alle natie contrade 
Ti darà, quanto basta, indizio e lume. 

Così la Diva; e d'in su l'aureo trono 
L'Aurora comparì. Tunica e manto 
Circe stessa vestimmi; a so ravvolse 
Beila, candida, fiaa ed ampia gonna; 
Si strinse al fianco un'aurea fascia, e un vago 
Su i ben torti capei velo s'impose. 
Ma io, passando d'una in altra stanza. 
Confortava i compagni, e ad uno ad uno 
Con molli detti gli abbordava: Tempo 
Non è più da sfiorare i dolci sonni. 
Partiamo, e tosto. Il mi consiglia Circe. 

Si levaro e obbedirò. Ahi che ne quinci 
Mi si concesse ricondurli tutti ! 
Un Elpenore v'era, il qual d 'e tate 
Dopo gli altri venia, poco nell'armi 
Forte, né troppo della mente accorto. 
Caldo del buon licore, onde irrigossi. 
Si divise dagli altri, ed al palagio 
Mi si corcò, per rinfrescarsi, in cima. 
Udito il suon della partenza, e il moto, 
Riscossesi ad un tratto, e, per la lunga 
Scala di dietro scendere obliando. 
Mosse di punta so'vra il tetto e cadde 
Precipite dall'alto : il collo ai nodi 
Gli s'infranse, e volò l'anima a Dite. 

Ragunatisi i miei. Forse, io lor dissi, 
Alle patrie contrade andar credete. 
Ma un altro pria la venerabil Diva 
Ci destinò cammin, che ai foschi regni 

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(v. 699-713) LIBRO X. 195 

Di Pluto e dì Proserpina condace, 
Per quivi interrogar del rinomato 
Teban Tiresia Tindovioo spirto. 

Duol mortale gli assalse a questi detti. 
Piangeano, e fermi rimanean lì lì, 
E la chioma stracciavansi : ma indarno 
Lo strazio della chioma era, ed il pianto. 
Mentre al mar tristi tendevamo, e spesse 
Lagrime spargevam, Circe, che in via 
Pur s'era posta, alla veloce nave 
Legò la bruna pecora e il montone. 
Ci oltrepassò, che non ce ne avvedemmo, 
Con pie leggero. Chi potria de' Numi 
Scorgere alcun che qua o là si mova, 
Quando dall'occhio uman voglion celarsi? 

LIBRO DECIMOPRIMO 



ARGOMENTO «^ 

Ulisse, continuando la sua narrazione, giunge ai Cimmeri, e 
▼a neirinferno. — Compiute le debite cerimonie, gli appa- 
riscono le Ombre de* morti ; e quella d'Elpenore è la prima 
con cui favella. — Poi Tiresia l' informa de' venturi suoi 
casi, e gl'insegna come superarli. — Apparizion della ma- 
dre, dalia quale intende lo stato della propria famiglia. — 
Vengon poi le antiche eroine . e appresso gli eroi , tra i 
quali Agamennone, Achille . ad Aiace, — Finètlmente vede 
Minosse, Tizio. Tantalo, Sisifo ed Ercole: finché, preso d^ 
timore, ritorna in fretta alla nave. 

Giunti al divino mare, il negro legno 
Prima varammo, albero ergemmo e vele, 
E prendemmo le vittime, e nel cavo 

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196 ^ ODISSEA (v. 4-39) 

Legno lo introducemmo: indi col molto 
Terrore e pianto v'entravam noi stessi. 
La dal crin crespo e dal canoro labbro 
Dea veneranda un gonfìator di vela 
Vento in poppa mandò, che fedelmente 
Ci accompagnava per Tondosa via : 
Tal che oziosi nella ratta nave 
Dalla cerulea prua giacean gli arnesi, 
E noi tranquilli sedevam, la cura 
Al timonier lasciandone, ed al vento. 
Quanto il dì risplendè, con vele sparse 
Navigavamo. Spento il giorno, e d'ombra 
Ricoperte le vie, dell'Oceano 
Toccò la nave i gelidi confini. 
Là 've la gente de' Cimmeri alberga, 
Cui nebbia e buio sempiterno involve. 
Monti pel cielo stelleggiato, o scenda. 
Lo sfavillante d'or Sole non guarda 
Quegl'infelici popoli, che trista 
Circonda ognor pernizì'osa notte. 

Addotto in su l'arena il buon naviglio, 
E il mont(Jte e la pecora sbarcati. 
Alla cor^enxe dell'Oceano in riva 
Camminavam, finché venimmo ai lochi 
Che la Dea c'insegnò. Quivi per mano 
Euriloco teneano e Perimede 
Le due vittime ; ed io, fuor tratto il brando, 
Scavai la fossa cubitale, e mèle 
Con vino, indi vin puro e lucid'onda 
Versàivi, a onor de* trapassati, intorno, 
E di bianche farine il tutto aspersi. 
Poi degli estinti le debili teste 
Pregai, promisi lor che nel mio tetto, 
Entrato con la nave in porto appena. 
Vacca infeconda, dell'armento fiore, 
Lor sagrifìcherei, di doni il rogo 

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(v. 4045) LIBRO XI. 197 

Riempiendo ; e che al sol Tiresia, e a parte, 
Immolerei nerissimo ariete, 
Che della greggia mia pasca il più bello. 
Fatte ai Mani le preci, ambo afferrai 
Le vittime e sgozzàile e in su la fossa, . 
Che tutto riceveane il sangue oscuro. 
Ed ecco sorger della gente morta 
Dal piti cupo deirErebo, e assembrarsi 
Le pallid'Ombre : giovanetto spose, 
Garzoni ignari delle nozze, vecchi 
Da nemica fortuna assai versati, 
E verginelle tenere, che impressi 
Portano i cuori di recente lutto; 
E molti dalle, acute aste guerrieri 
Nel campo un dì feriti, a cui rosseggia 
Sul petto ancor l'insanguinato usbergo : 
Accorrean quinci e quindi, e tanti a tondo 
Aggiravan la fossa, e con tai grida, 
Ch*io ne gelai per subitana tema. 
Pure a Euriloco ingiunsi, e a Perimede 
Le già scannate vittime e scoiate 
Por su la fiamma, e molti ai Dei far voti. 
Al prepotente Pluto e alla tremenda 
Proserpina : ma io col brando ignudo 
Sedea, né consentia che al vivo sangue, 
Pria ch'io Tiresia interrogato avessi, 
S'accostasser dell'Ombre i vóti capi. 

Primo ad offrirsi a me fu il simulacro 
D'Elpenore, di cui non richiudea 
La terra il corpo nel suo grembo ancora. 
Lasciato in casa l'avevam di Circe 
Non sepolto cadavere e non pianto: 
Ghè incalzavaci allor diversa cura. 
Pianse a vederlo, e ne sentii pleiade, 
E, con alate voci a lui converso, 
Elpenore, diss'io, come scendesti 

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198 ODISSEA (v. 76-111) 

Neiroscura caligine? Venisti 

Più ratto a pie, ch'io su la negra nave. 

Ed ei, piangendo: o di Laerte egregia 
Prole, sagace Ulisse, un nequitoso 
Demone avverso, e il molto vin m*offese. 
Stretto dal sonno alla magione in cima, 
Men disciolsi ad un tratto ; e, per la lunga 
Di calar non membrando interna scala, 
Mossi di punta sovra il tetto, e d'alto 
Precipitai; della cervice i nodi 
Ruppersi, ed io volai qua con lo spirto. 
Ora io per quelli da cui lungo vivi, 
Per la consorte tua, pel vecchio padre. 
Che a tanta cura t'allevò bambino. 
Pel giovane Telemaco, che dolce 
Nella casa lasciasti unico germe, 
Ti prego, quando io so che alla Circèa 
I^ola il legno arriverai di nuovo. 
Ti prego che di me, signor mio, vogli 
Là ricordarti, onde io non resti, come 
Della partenza spiegherai le vele. 
Senza lagrime addietro e senza tomba, 
E tu venghi per questo ai Numi in ira. 
Ma con quell'armi, ch'io vestia, sul foco 
Mi poni, e in riva del canuto mare 
A un misero guerrier tumulo innalza. 
Di cui favelli la ventura etade. 
Queste cose m'adempi ; ed il buon remo. 
Ch'io tra i compagni mìei, mentre vivea, 
Solca trattar, sul mio sepolcro infiggi. 

Sventurato, io risposi, a pien fornita 
Sarà, non dubitarne, ogni tua voglia. 

Cosi noi sedevam, meste parole 
Parlando alternamente, io con. la spada 
Sul vivo sangue ognora, e a me di centra 
La forma lieve del compagno, a cui 

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(v. 112-147) LIBRO XI. 199 

Suggeria molti accenti il suo disastro. 
Comparve in questo dell'antica madre 
L'Ombra sottile, d'Anticlèa, che nacque 
Dal magnanimo Autòlico, e a quel tempo 
Era tra i vivi, ch'io per Troia sciolsi. 
La vidi appena, che pietà mi strinse, 
E il lagrimar non tenni : ma né a lei, 
Quantunque men dolesse, io permettea 
Al sangue atro appressar, se il vate prima 
Favellar non s'udì a. Levossi al fine 
Con l'aureo scettro nella man famosa 
L'alma Tebana di Tiresia, e ratto 
Mi riconobbe, e disse : Uomo infelice. 
Perchè, del Sole abbandonati i raggi, 
'Le dimore inamabili de' morti 
Scendesti a visitar? Da questa fossa 
Ti scosta, e torci in altra parte il brando, 
Sì ch'io beva del sangue, e il ver ti narri. 

Il pie ritrassi, e invaginai l'acuto 
D'argentee borchie tempestato brando. 
Ma ei, poiché bevuto ebbe, in tal guisa 
Movea le labbra : Rinomato Ulisse, 
Tu alla dolcezza del ritorno aneli, 
E un Nume invidioso il ti contende. 
Come celarti da Nettun, che grave 
Contra te concepì sdegno nel petto 
Pel figlio, a cui spegnesti in fronte l'occhio? 
Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai, 
Sol che te stesso e i tuoi compagni affreni, 
Quando, tutti del mar vinti i perigli. 
Approderai col ben formato legno 
Alla verde Trinacria isola, in cui 
Pascon del Sol, che tutto vede ed ode, 
I nitidi montoni e i buoi lucenti. 
Se pasceranno illesi, e a voi non caglia 
Che della Patria, il rivederla dato, 

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200 ODISSEA (v. 148-183) 

Benché a stento, vi £a. Ma, dove osiate 
Lana o corno toccargli, eccidio a' tuoi, 
E alla nave io predico, ed a te stesso. 
E, ancor che morte tu schivassi, tardo 
Fora, ed infausto, e senza un sol campagno, 
E su nave straniera il tuo ritorno. 
Mali oltra ciò t'aspetteranno a casa: 
Protervo stuol di giovani orgogliosi. 
Che ti spolpa, ti mangia e alla divina 
Moglie con doni aspira. È ver che a lungo 
Non rimarrai senza vendetta. Uccisi 
Dunque o per frode, o alla più chiara luce. 
Nel tuo palagio i temerari amanti, 
Prendi un ben fatto remo, e in via ti metti : 
Nò rattenere il pie, che ad una nuova 
Gente non sii, che non conosce il mare, 
Né cosperse di sai vivande gusta. 
Né delle navi dalle rosse guance, 
de* politi remi, ale di nave. 
Notizia vanta. Un manifesto segno 
D'esser nella contrada io ti prometto, 
Quel dì che un altro pellegrinn, a cui 
T'abbatterai per via, te quell'arnese, 
Con che al vento su l'aia il gran si sparge, 
Portar dirà su la gagliarda spalla, 
Tu repente nel suol conficca il remo. 
Poi, vittime perfette a re Nettuno 
Svenate, un toro, un ariete, un verro, 
Riedi, e del cielo agli abitanti tutti 
Con l'ordine dovuto offrì ecatombe 
Nella tua reggia, ove a te fuor del mare, 
E a poco a poco da muta vecchiezza 
Mollemente consunto, una cortese 
Sopraverrà morte tranquilla, mentre 
Felici intorno i popoli vivranno. 
L'oracol mio, che non t'inganna, è questo. 

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V. 184-219) LifeRo il. 201 

Tiresia, io rispondea, cosi prescritto 
[Chi dubbiar ne potrebbe?) banno i Celesti; 
Ma ciò narrami ancora: io della madre 
L'ani aia scorgo, cbe tacente siede 
A.ppo la cava fossa, e d*ano sguardo , 
Non cbe d*un motto, il suo figliuol non degna. 
Che far degg'io perchè mi riconosca? 
Ed egli: Troppo bene io nella mente 
Lo ti porrò. Quai degli spirti al sangue 
Non difeso da te giuDger potranno, 
Sciorran parole non bugiarde: gli altri 
Da te si ritrarranno taciti indietro. 
Svelate a me tai cose, in seno a Dite 
Del profetante Re Talma s'immerse. 
Ma io di là non mi togliea. La madre 
S'accostò intanto, né del negro sangue 
Prima beve, che ravvisommi, e queste 
Mi drizzò lagrimando alate voci: 
Deh come, figliuol mio, scendestu vivo 
Sotto l'atra caligine,? Chi vive. 
Diffìcilmente questi alberghi mira, 
Però che vasti fiumi e paurose 
Correnti ci dividono, e il temuto 
Oceàn, cui varcare ad uom non lice, 
Se noi trasporta una dedalea nave. 
Porse da Troia, e dopo molti errori, ' 
Con la nave e i compagni a questo baio 
Tu vieni? Né trovar sapesti ancora 
Itaca tua? né della tua consorte 
Riveder nel palagio il caro volto? 
madre mia, necessità, risposi, 
L'alma indovina a interrogar m'addusse 
Del tebano Tiresia. 11 suolo acheo 
Non vidi ancor, né i liti nostri attinsi: 
Ma vo ramingo, e dalle cure oppresso. 
Dappoi cbe a Troia ne' puledri bella 

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202 ót)issÉA (v. 220-255 

Seguii, per disertarla, il primo Atride. 

Su via, mi narra, e schiettamente, come 

Te la di lunghi sonni apportatrice 

Parca domò. Ti vinse un lungo morbo, 

te Diana faretrata assalse 

Con improvvisa non amara freccia? 

Vive Taiitico padre, il figlio vive, . 

Che in Itaca io lasciai? Nelle man loro 

Resta, passò ad altrui la mia ricchezza, 

E ch*io non rieda più, si fa ragione? 

E la consorte mia qual cor, qaal mente 

Serba? Dimora col fanciullo, e tutto 

Gelosamente custodisce, o alcuno 

Tra i primi degli Achei forse impalmolla? 

Riprese allor la veneranda madre: 
La moglie tua non lasciò mai la soglia 
Del tuo palagio; e lentamente a lei 
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti. 
Stranier nel tuo retaggio, in sin eh* io vissi. 
Non entrò: il figlio su i paterni campi 
Vigila in pace, e alle più illustri mense. 
Cui l'invita ciascuno, e che non dee 
Chi naeque al regno dispregiar, s'asside. 
Ma in villa i dì passa Laerte, e mai 
A cittade non vien; colà non letti. 
Non coltri, o strati sontuosi, o manti. 
Di vestimenta ignobili coverto 
Dorme tra i servi al focolare il verno 
Su la pallida cenere ; e se torna 
L'arida estate, o il verdeggiante autunno, 
Lettucci umili di raccolte foglie 
Stesi a lui qua e là per la feconda 
Sua vigna preme travagliato, e il duolo 
Nutre piangendo la tua sorte ; arrogi, 
La vecchiezza increscevole che il colse. 
Non altrimenti de' miei stanchi giorni 

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7, 236-291) LIBRO il. 203 

riunse il termine a me, cui non Diana, 

lagittaria infallibile, di un sordo 

Quadrello assalse, o di que' morbi invase, 

)he sogìion trar delle consunte membra 

i'anima fuor con odiosa tabe: 

la il desio di vederti, ma Taffanno 

)ella tua lontananza, ma i gentili 

lodi e costumi tuoi, nobile Ulisse, 

ia vita un di si dolce hannomi tolta. 

Io, pensando tra me, l'estinta madre 
rolea stringermi al san: tre volte- corsi, 
luale il mio cor mi sospingea, ver lei, 
S tre volte m'uscì fuor delle braccia,. 
Jorne nebbia sottile, o lieve sogno. 
3ura più acerba mi trafìsse ; e ratto, 
Lhi, madre, le diss'io, perchè mi sfuggi 
)'al)bracciarti bramoso, onde anco a Dite, 
jQ man gittando Tun dell'altro al collo, 
)i duol ci satolliamo ambi, e di pianto? 
fantasma vano, acciò sempre io m'anga, 
^'orse l'alta Proserpina mandommi ; 

O degli uomini tutti il più infelice. 
La veneranda genitrice aggiunse, 
Nfo, l'egregia Proserpina, di Giove 
La figlia^ non t'inganna. É de' mortali 
Pale il destin, dacché non son più in vita, 
Che i muscoli tra sé, l'ossa ed i nervi 
Non si congiungan più: tutto consuma 
La gran possanza dell'ardente foco. 
Come prima le bianche ossa abbandona, 
E vagola per l'aere il nudo spirto. 
Ma tu d'uscire alla superna luce 
Da questo buio affretta; e ciò che udisti, 
E porterai noiranima scolpito. 
Penelope da te risappia un giorno. 

Mentre cosi favellavam, sospinte 

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204 ODISSEA (v. 292-327 

Dairinclita Proserpina le figlie 
Degli eroi compariano, e le consorti, 
E traean dalla fossa al margo in folla. 
Io, come interrogarle ad una ad una 
Rivolgea meco; e ciò mi parve il meglio. 
Stretta la spada, non patia che tutte 
Beessero ad un tempo. Alla sua volta 
Così accorrea ciascuna, e l'onorato 
Lignaggio ed i suoi casi a me narrava. 

Prima s'appresentò l'illustre Tiro, 
Che del gran Salmonèo figlia, e consorte 
Di Creteo, un de* fìgliuoi d'Eolo, sé disse. 
Costei d'un fiume nell'amore accesa, 
Dell'Enipèo diyin, che la più bella 
Sovra i più ameni campi onda rivolve. 
Spesso a bagnarsi in quegli argenti entrava.; 
L'azzurro Nume che la terra cinge, , 

Nettuno, iu forma di quel Dio, corcossi ' 
Delle sue vorticose acque alla foce ; 
E la porporeggiante onda d'intorno 
Gli stette, e in arco si piegò, qual monte, j 
Lui celando, e la giovane, cui tosto 
Sciols'ei la zona virginale, e in casto ' 

Sopore infuse. Indi per man la prese, 
E chiamolla per nome, e tai parole 
Le feo : Di questo amor, donna, t'allegra. 
Compiuto non avrà l'anno il suo giro. 
Che diverrai di bei fanciulli madre, 
Quando vane giammai degl'Immortali 
Non riescon le nozze. I bei fanciulli 
Prendi in cura, e nutrisci. Or vanne, e sappi, 
Ma il sappi sola, che tu in me vedesti 
Nettuno, il Nume che la terra scuote. 
Disse ; e ne' gorghi suoi l'accolse il mare. 

Ella di Neleo e Pelia, ond'era grave, 
S'alleviò. Forti del sommo Giove ' 

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'. 328-363) LIBRO XI. 205 

[inistri, Tun nell'arenosa Pib, 
ell'ampia l'altro, e di feconde gregge 
jcca laolco, ebbe soggiorno e scettro, 
uindi altra prole, Eson, Perete, e il chiaro 
omator di cavalli Àmitaòne, 
lede a Creteo costei, che delle donna 
«eina parve alla sembianza e agli atti. 
Poi d*Asòpo la figlia. Antiopa, venne, 
he deiramor di Giove andò superba, 
1 due figli creò, Zeto e Anfione. 
'ebe costoro dalle sette porte 
*rimi fondare, e la munir di torri : 
he mal potean la spaziosa Tebe 
enza torri guardar, benché gagliardi. 
Venne d'Amfitrìon la moglie, Alcmena, 
'he al Saturnide l'animoso Alcide, 
ior di leone, partorì. Megara, 
»i Creonte magnanimo figliuola, 
1 moglie dell'invitto Ercole, venne. 
D'Edipo ancor la genitrice io vidi, 
la leggiadra Epicasta, che nefanda 
*er cecità di mente opra commise, 
l'uom disposando da lei nato. Edippo 
•a man, con che avea prima il padre ucciso, 
^orse alla madre : né celaro i Dei 
'al misfatto alle genti. Ei per crudele 
''oler de* Numi nell'amena Tebe 
addolorato su i Cadmei regnava, 
fa la donna, cui vinse il proprio affanno, 
/infame nodo ad un'eccelsa trave 
legato, scese alla magion di Fiuto 
>alle porte infrangibili, e tormenti 
lasciò indietro al figliuol, quanti ne danno 
•e nitrici Furie, che una madre invoca. 
Vidi colei non men, che ultima nacque 
dl'Iasìde Anfion, cui l'arenosa 

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206 ODISSEA (v. 364-3 

Pilo negli anni andati, e il Minieo 
Orcomeno ubbidia; l'egregia Glori, 
Che Neleo di lei preso a sé congiunse , 
Poscia che egli ebbe di dotali doni 
La verdine ricolma. Ed ella il feo 
Ricco di vaga e di lui degna prole. 
Di Nestore, di Cromie, e dell' eroe 
Perieli meno; e poi di quella Pero, 
Che maraviglia fu d'ogni mortale. 
Tutti i vicini la chiedean: ma il padre 
Sol concedeala a chi le belle vacche 
Dalla lunata spaziosa fronte, 
Che appo sé riteneasi il forte Ificle, 
Gli rimenasse, non leggiera impresa, 
Dai pascoli di Filaca. L'impresa 
Melampo asunse, un indovino illustre; 
Se non che a lui s'attraversaro i fati, 
E pastori salvatichi, da cui 
Soffrir dovè d'aspre catene il pondo. 
Ma non prima, già in sé rivolto l'anno, 
I mesi succedettersi ed i giorni, 
E compier le stagioni il corso usato, 
Che Ificle, a cui gli oracoli de'Numi 
Svelati aveva l'irreprensibil vate, 
I suoi vincoli ruppe, e così al tempo 
L'alto di Giove s'adempia consiglio. 
Leda comparve da cui Tindaro ebbe 
Due figli alteri, Castore e Polluce, 
L'un di cavalli domatore, e l'altro 
Pugile invitto. Benché l'alma terra 
Ritengali nel sen, di vita un germe 
(Cosi Giove tra l'Ombre anco gli onora) 
Serbano: ciascun giorno, e alternamente, 
Riapron gli occhi, e chiudonli alla luce, 
E gloriosi al par van degli Eterni. 
Dopo costei mi si parò davanti 

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(v. 400-435) LIBRO XI. 207 

D'Aloèo la consorte, Ifimidèa, 

Cqì di dolce d'amor nodo si strinse 

Lo Scotifcerra. Ingenerò due figli, 

Oto a un Dio pari, e Tinclito Ifialte, 

Che la luce del Sol poco fruirò^ 

Né di statura ugual, né di beltade, 

Altri nodrì la comun madre antica. 

Sol che fra tutti d'Orlon si taccia. 

Non avevan tocco il decim'anno ancora. 

Che in largo nove cubiti, e tre volte 

Tanto cresciuti erano in lungo i corpi. 

Questi volendo ai sommi Dei su l'etra 

Nuova portar sediziosa guerra, 

L'Ossa sovra l'Olimpo, e sovra l'Ossa 

L'arborifero Polio impor tentare. 

Onde il cielo scalar di monte in monte ; 

E il fean, se i volti pubertà infiorava: 

Ma di Giove il figliuolo e di Latona 

Sterminolli ambo, che del primo pelo 

Le guance non ombravano, ed il mento. 

Fedra comparve ancor, Procri e Arianna, 
Che l'amante Teseo rapì da Creta, 
E al suol fecondo della sacra Atene 
Condur volea. Vane speranze! In Nasse, 
Cui cinge un vasto mar, fu da Diana, 
Per indizio di Bacco, aggiunta e morta. 

Né restò Mera inosservata indietro. 
Né elimino restò, né l'abborrita 
Erifìle, che il suo diletto sposo 
Per un aureo monil vender poteo. 
Ma dove io tutte degli eroi le apparse 
Figlie nomar volessi, e le consorti, 
Pria mancheriami la divina Notte, 
E a me par tempo da posar la testa 
in nave o qui, tutta del mio ritortìo 
Ai Celesti lasciando, e a voi, la cura. 

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208 ODissBA (v. 436-471) 

Tacque. I Feaci per roscura sala 
Stavansi muti, e nel piacere assorti. 

Ruppe il silenzio rimmortal Regina, 
La bracciobianca Arete: Feacesi, 
Che Ti par di costui? del suo sembiante? 
Della maschia persona? e di quel senno 
Che in lui risiede ? Ospite è mio, ma tutti 
Dell'onor, eh' io ricevo, a parte siete. 
Non congedate in fretta, e senza doni. 
Chi nulla tien, voi, che di buono in casa 
Per favor degli Dei tanto serbate. 

Qui favellò Echenèo, che gli altri tutti 
Vincea d'etade : Fuor del segno, amici, 
Arete non colpi con la sua voce. 
Obbediscasi a lei, se non che prima 
Del Re l'esempio attenderemo, e il detto. 

Ciò sarà ch'ella vuole, Alcinoo disse, 
Se vita e scettro a me lascian gli Dei. | 

Ma, benché tanto di partir gli tardi, 
L'ospite indugi sino al nuovo Sole, 
Sì ch'io tutti ì regali insieme accoglia. 
Cura esser dee comun che lieto ei parta, 
E più, che d'altri, mia, s'io qui son primo. 

Alcinoo re, che di grandezza e fama. 
Riprese Ulisse, ogni mortale avanzi, 
Sei mesi ancor mi riteneste, e sei, 
E fida scorta intanto e ricchi doni 
M'apparecchiaste, io non dovrei sgradirlo: 
Che quanto io tornerò con man piti piene 
A' miei sassi natii, tanto la gente 
Con piti onore accorrammi e con più affetto. 

Ed Alcinoo in risposta : Allora, Ulisse, 
Che ti adocchiamo un impostor fallace, | 

D'alte menzogne inaspettato fabbro, j 

Scorger non sospettiam, quali benigna 
La terra qua e là molti ne pasce. 

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r. 4'72.507) libUO xt. à06 

iCggiadria di parole i labbri t'orna, 

^è prudenza minor t'alberga in petto. 

>'opre de' Greci e le tue doglie, quasi 

*o spirto della Musa in te piovesse, 

•ì narrasti così, ch'era un vederle. 

)eh siegui, e dimmi, se t'apparve alcuno 

)i tanti eroi che veleggiar© a Troia 

'eco, e spenti rimaser vi. La Notte 

Jon lenti passi or per lo ciel cammina, 

!!, finché ci esporrai stupende cose, 

^on fia chi del dormir qui si rammenti. 

tuando parlar di te sìdo all'aurora 

ri consentisse il duo!, sino all'aurora 

o penderei dalle tue labbra immoto. 

V'ha un tempo, Alcinoo, di racconti, ed havvi, 
Jlisse ripigliò, di sonni un tempo, 
'he se udir vuoi più avanti, io non ricuso 
lia sorte di color molto piti dura 
Rappresentarti, che scampar dai rischi 
)'una terribil guerra, e nel ritorno, 
^olpa d'una rea donna, ohimè!, perirò. 

Poiché le femminili Ombre famose 
La casta Proserpina ebbe disperse, 
VIesto, e cinto da quei che fato uguale 
Trovar d'Egisto negl' infidi alberghi, 
^i levò d'Agamennone il fantasma, 
assaggiò appena dell'oscuro sangue. 
Che ravvisommi ; e dalle tristi ciglia 
Versava in copia lagrime, e le mani 
Mi stendea di toccarmi iuvan bramose : 
Che quel vigor, quella possanza, eh' era 
Nelle sue membra ubbidienti ed atte. 
Derelitto l'avea. Lagrime anch' io 
Sparsi a vederlo, e intenerii nell' alma. 
E tai voci, nomandolo, gli volsi: 
inclito d'Atrèo figlio, o de* prodi 

Odi$$ea H 

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210 ODISSÈA (v. 508-543 

Re, Agamennone, qual destin ti vinse, 
E i lunghi t'arrecò sonni di Morte? 
Nettuno in mar ti domò forse, i fieri 
Spirti eccitando de* crudeli venti? 
ti offesero in terra uomini ostili, 
Che armenti depredavi e pingui gregge, 
O delle patrie mura, e delle caste 
Donne a difesa, roteavi il brando ? 

Laerziade preclaro, accorto Ulisse, 
Ratto rispose delFAtride l'Ombra, 
Me non domò Nettuno all'onde sopra. 
Né m' oflfesero in terra uomini ostili. 
Egisto, ordita con la mia perversa 
Donna una frode, a sé invitommi, e a mensa. 
Come alle greppie inconsapevol bue. 
L'empio mi trucidò. Così morii 
Di morte infelicissima; e non lunge 
Gli amici mi cadeau, quai per illustri 
Nozze, o banchetto sontuoso, o lauta 
A dispendio comun mensa imbandita. 
Cadono i verri dalle bianche saune. 
Benché molti a* tuoi giorni o in folta pugna^ 
Vedessi estinti, o in singoiar certame, 
Non solita pietà tocco t'avrebbe, 
Noi mirando, che stesi all'ospitali 
Coppe intorno eravam, mentre correa 
Purpureo sangue il pavimento tutto. 
La dolente io sentii voce pietosa 
Della figlia di Priamo, di Cassandra, 
Cui Clitennestra m'uccidea da presso. 
La moglie iniqua ; ed io, giacendo a terra, 
Con moribonda man cercava il brando: 
Ma la sfrontata si rivolse altrove. 
Né gli occhi a me, che già scendea tra l'Ombre 
Chiudere, né compor degnò le labbra. 
Non più rea peste, più crudel non dassi 

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V. 544-579) tiBRo xi. 211 

Di donna, che sì atroci opre commetta, 
r^ome questa infedel, che il danno estremo 
Tramò cui s*era vergine congiunta. 
Lasso ! dove io credea che, ritornando, 
Figlinoli e servi m'accorrian con festa, 
Costei, che tutta del peccar sa Y arte, 
Se ricoprì d'infamia, e quante al mondo 
Verranno, e le più oneste anco, ne asperse. 

Oh quanta, io ripigliai, sovra gli Atridi 
Le femmine attiraro ira di Giove ! 
Fu di molti de' Greci Elena strage I 
£ a te, cogliendo dell'assenza il tempo, 
Funesta rete Clitennestra tese. 

Quindi troppa tu stesso, ei rispondea, 
Con la tua donna non usar dolcezza, 
Né il tutto a lei svelar, ma parte narra 
Be' tuoi secreti a lei, parte ne taci. 
Benché a te dalla tua venir disastro 
Kon debba: che Penelope, la saggia 
Figlia d'Icario, altri consigli ha in core. 
Moglie ancor giovinetta, e con un bimbo. 
Che dalla mamma le pendea contento, 
Tu la lasciavi, navigando a Troia: 
Ed oggi il tuo Telemaco felice 
Già s'asside uom tra gli uomini , e il diletto 
Padre lui vedrà un giorno, ed egli al padre 
Giusti baci porrà sovra la fronte. 
Ma la consorte mia né questo almeno 
Mi consenti, eh' io satollassi gli occhi 
Nel volto del mio figlio, e pria mi spense. 
Credi al fine a' miei detti, e ciò nel fondo 
Serba del petto: le native spiagge 
Secretamente afferra, e a tutti ignoto. 
Quando fidar più non si puote in donna. 
Or ciò mi conta, e schiettamente: udisti. 
Dove questo mio figlio i giorni tragga? 



212 oDiss!2\ (v. 580^6Ì5; 

In Orcomeno forse ? O forse tienlo 
Pjlo arenosa, o in la capace Spartà 
Plesso sé Menelao? Certo non venne 
Fjnor sotterra il mio gentile Oreste. 

Ed io : Perchè di ciò domandi, Atride, 
Me, cui né conto è pur se Oreste spira 
Le dolci aure di sopra, o qui soggiorna? 
Lode non merta il favellare al vento. 

Cosi parlando alternamente, e il volto 
Dì lagrime rigando, e il suol di Dite, 
C'è ne stavam disconsolati; ed ecco 
Sorger lo spirto del peliade Achille, 
Di Patroclo, d'Antiloco e d'Aiace, 
Che gli Achei tutti, se il Pelide togli. 
Di corpo superava e di sembiante. 
Mi riconobbe del veloce al corso 
Eacide Timmago ; e, lamentando, 
0, disse, di Laerte, inclita prole, 
Qual nuova in mente, sciagurato, volgi 
Macchina, che ad ogni altra il pregio scemi? 
Come osasti calar ne* foschi regni. 
Degli estinti magion, che altro non sono 
Che aeree forme e simulacri ignudi? 

Di Peleo, io rispondea, figlio, da cui 
Tanto spazio rimase ogni altro Greco, 
Tiresia io scesi a interrogar, che Tarte 
Di prender m'insegnasse Itaca alpestre. 
Sempre involto ne* guai, TAcaia terra 
Kon vidi ancor, né il patrio lido attinsi. 
Mii di te, forte Achille, uom più beato 
"Non. fu, né giammai fia. Vivo d*un Nume 
T'onoravamo al pari, ed or tu regni 
Sovra i defunti. Puoi tristarti morto? 

Non consolarmi della morte, a Ulisse 
Replicala il Pelide. Io pria terrei 
Servir bifolco per mercede a cui 

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(v. 616-651) LIBRO XI. 213 

Scarso e vii cibo difendesse i giorni, * 
Che del Mondo defunto aver l'impero. 
Su via, ciò lascia, e del mio figlio illustre 
Parlami in vece. Nelle ardenti pugne 
Gorre tra i primi avanti? E di Pelèo, 
Del Daio gran genitor, nulla sapesti ? 
Sieguon fedeli a riverirlo i molti 
Mirmidoni, o nelFEllada ed in Ftìa 
Spregiato vive per la troppa etade, 
Che le membra gli agghiaccia? Ah! che guardar- 
Sotto i raggi del Sol più non mi lice: (lo 
Che passò il tempo che la Troica sabbia 
D'esanimi io covria corpi famosi , 
Proteggendo gli Achei. S'io con la forza, 
Che a qua' giorni era in me, toccar potessi 
Per un istante la paterna soglia, 
A. chiunque oltraggiarlo, e degli onori 
Fraudarlo ardisse, questa invitta mano 
Metterebbe nel core alto spavento. 

Nulla, io risposi, di Pelèo, ma tutto 
Del fìgliuol posso, e fedelmente, dirti. 
Di Neottolemo tuo, che ali* oste achiva 
Io stesso sopra cava e d'ugual fianchi 
Munita nave rimenai da Sciro. 
Sempre che ad Ilio tenevam consulte. 
Primo egli a favellar s'alzava in piedi, 
Né mai dal punto deviava: soli 
Gareggiavam con lui Nestore ed io. 
Ma dove l'armi si prendean, confuso 
Già non restava in fra la turba, e ignoto: 
Precorrea tutti, e di gran lunga, e intere 
Le falangi struggea. Quant'ei mandasse, 
Propugnacol de* Greci, anime all'Orco, 
Da me non t'aspettare. Abbiti solo, 
Che il telefide Euripilo trafisse 
Pra i suoi Cetèi, che gli moriano intorno ; 

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214 ODISSEA (v. 652-687) 

Earipilo di Troia ai sacri muri 
Per la impromessa man d'una del Rege 
Figlia venuto, ed in quell'oste intera, 
Dopo il deiforme Mènnone, il più bello. 
Che del giorno dirò, ohe il fior de' Greci 
Nel construtto da Epèo cavallo salse. 
Che in cura ebb' io, poiché a mia voglia solo 
Apriasi, o rinchiudeasi, il cavo agguato? 
Tergeansi capi, e condottier con mano 
Le umide ciglia, e le ginocchia sotto 
Tremavano a ciascun; né bagnare una 
Lagrima a lui, né di pallore un'ombra 
Tingere io vidi la leggiadra guancia. 
Bensì prìeghi porgeami, onde calarsi 
Giti del cavallo, e delia lunga spada 
Palpeggiava il grand' else, e l'asta grave 
Crollava, mali divisando a Troia. 
Poi, la cittade incenerita, in nave 
Delle spoglie più belle adorno e carco 
Montava, e illeso: quando lungo, o presso, 
Di spada, o strai, non fu giammai chi vanto 
Del ferito Neottòlemo si desse. 

Dissi, e d'Achille alle veloci piante 
Per li prati d'asfodelo vestiti 
L'alma da me sen giva a lunghi passi 
Lieta, che udì del fìgliuol suo la lode. 

D'altri guerrieri le sembianze tristi 
Compariano; e ciascun suoi guai narrava. 
Sol dello spento telamonio Aiace 
Stava in disparte il disdegnoso spirto, 
Perché vinto da me nella contesa. 
Dell'armi del Pelide appo le navi. 
Teti, la madre veneranda, in mezzo 
Le pose, e giudicare i Teucri e Palla. 
Oh cólta mai non avess'io tal palma, 
Se l'alma terra nel suo vasto grembo 

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V, 688-723) • LIBRO xi. 215 

3elar dovea sì gloriosa testa, 
Uace, a cui d'aspetto e d'opre illustri, 
5alvo r irreprensibile Pelide, 
^on fu tra i Greci chi agguagliarsi osasse! 
.0 con blande parole, Aiace, dissi, 
.^iglio del sommo Telamon, gli sdegni 
Per qtTelle maladette arme concetti 
Danqiie né morto spoglierai? Fatali 
Oerto reser gli Dei dell'arme ai Greci, 
Che in te perderò una sì ferma torre. 
Noi per te nulla men, che per Achille, 
Dolenti andiam; nò alcun n'è in colpa, il credi: 
Ma Giove, che infinito ai bellicosi 
Danai odio porta, la tua morte volle. 
Su via, t'accosta, Re, porgi cortese 
L'orecchio alle mie voci, e la soverchia 
Forza del generoso animo doma. 

Nulla egli a ciò: ma, ritraendo il piede, 
Fra l'altre degli estinti Ombre si mise. 
Pur, seguendolo io quivi, una risposta 
Forse data ei m'avria; se non che voglia 
Altro di rimirar m'ardea nel petto. 
Minosse io vidi, del Saturnio il chiaro 
Figliaci, che assiso in trono, e un aureo scettro 
Stringendo in man, tenea ragione all'Ombre, 
Che tutte, qual seduta e quale in piedi. 
Conto di sé rendeangli entro l'oscura 
Di Pluto casa dalle larghe porte. 

Vidi il grande Orlon, che delle fiere. 
Che uccise un di sovra i boscosi monti, 
Or gli spettri seguia de* prati Inferni 
Per l'asfodelo in caccia; e maneggiava 
Perpetua mazza d' infrangibil rame. 
Ecco poi Tizio, della Terra figlio, 
Che sforzar non temè l'alma di Giove 
Sposa, Latona, che volgeasi a Pito 

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216 ODISSEA (v. 124-759 

Per le ridenti Panopee campagne. 
Sul terren distendevasi, e ingombrava 
Quanto in di nove ara di tauri un giogo: 
E due avvoltoi, Tun quinci, Taltro quindi, 
Ch'ei con mano scacciar tentava indarno, 
Rodeangli il cor, sempre ficcando addentro 
Nelle fibre rinate il curvo rostro. 

Stava là presso con acerba pena 
Tantalo in piedi entro un argenteo lago. 
La cui bell'onda gli toccava il mento. 
Sitibondo mostravasi, e una stilla 
Non ne potea gustar: che quante volte 
Chinava il veglio le bramose labbra. 
Tante l'onda fuggia dal fondo assorta. 
Si che appariagli ai pie solo una bruna 
Da un Genio avverso inaridita terra. 
Piante superbe, il melagrano, il pero, 
K di lucide poma il melo adorno, 
E il dolce fico, e la canuta oliva, 
Gli piegavan sul capo i carchi rami; 
E in quel ch'ei stendea dritto la destra. 
Vèr le nubi lanciava i rami il vento. 

Sisifo altrove smisurato sasso 
Tra l'una e l'altra man portava, e doglia 
Pungealo inenarrabile. Costui 
La gran pietra alla cima alta d'un monte, 
Urtando con le man, coi pie pontando, 
Spingea: ma giunto in sul ciglion non era, 
Che risospinta da un poter supremo 
Rotolavdsi rapida pel chino 
Sino alla valle la pesante massa. 
Ei novamente di tutta sua forza 
Su la cacciava: dalle membra a gronde 
Il sudore colavagli, e perenne 
Dal capo gli salia di polve un nembo, 

P'Efcole mi s'offerse al fin la possa, 

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(v. 760-795) LIBRO XI. 217 

Anzi il fantasma: però ch'ei de' Numi 
Giocondasi alla mensa, e cara sposa 
Gli siede accanto la dal pie leggiadro 
Ebe, di Giove figlia e di Giunone, 
Che muta il passo coturnata d'oro. 
Schiamazzavan gli spirti a lui d'intorno, 
Come volanti augei da subitana 
Tema compresi; ed ei fosco, qual notte, 
Con l'arco in mano, e con lo strai sul nervo, 
Ed in atto ad ognor di chi saetta. 
Orrendamente qua e là guatava. 
Ma il petto attraversavagli una larga 
D'or cintura terribile, su cui 
Storiate vedeansi opre ammirande. 
Orsi, cinghiai feroci e leon torvi, 
E pugne, e stragi, e sanguinose morti: 
Cintura a cui l'eguale o prima, o dopo. 
Non fabbricò, qual che si fosse, il mastro. 
Mi sguardò, riconobbemi, e con voce 
Lugubre, 0, disse, di Laerte figlio, 
Ulisse accorto, ed infelice a un'ora. 
Certo un crudo t'opprime avverso fato, 
Qual sotto i rai del Sole anch'io sostenni. 
Figliuol quantunque dell'egioco Giove, 
Pur, soggetto vivendo ad uom che tanto 
Valea manco di me, molto io soffersi. 
Fatiche gravi ei m' addossava, e un tratto 
Spedimmi a quinci trance il Can trifauce, 
Che la prova di tutte a me più dura 
Serabravaglì; ed io venni, e quinci il Cane 
Trifauce trassi ripugnante indarno, 
D'Ermete col ftivoro e di Minerva. 
Tacque, e nel più profondo Èrebo scese. 

Di loco io non moveami, altri aspettando 
De* prodi, che sparirò, è ornai gran tempo. 
E (jue' duo forse mi sarien comparsi, 

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218 ODISSEA (v. 796-810) 

Ch'io più veder bramava, eroi primieri, 
Teseo e Piritoo, gloriosa prole 
Degl* immortali Dei. Ma un infinito 
Popol di spirti con frastuo^no immenso 
Si ragunava; e in quella un improvviso 
Timor m'assalse, non Torri bil testa 
Della tremenda Gorgone la Diva 
Proserpina inviasse a me dalTOrco. 
Dunque senza dimora al cavo legno 
Mossi, e ai compagni comandai salirlo; 
E liberar le funi; ed i compagni 
Ratto il saliano, e s'assidean su i banchi. 
Pria l'aleggiar de' remi il cavo legno 
Mandava innanzi d'Océan su Tonde: 
Poscia quel, che levossi ottimo vento. 

LIBRO DECIMOSECONDO 



ARGOMENTO 

Ritorno all'isola di Circe, esequio d'Elpenore, e partenza 
d* Ulisse. — Questi, ammaestrato da Circe, vince il pericolo 
delle Sirene, schiva le pietre erranti, e passa tra Scilla e 
Cariddi, non però senza perdita di sei de* compagni. — Ar- 
rivo air isola Trinacria, cioè alla Sicilia, ove i compagni 
uccidono i buoi del Sole, e cibansi delle loro carni. -> Giove 
fulmina la nave, e tutti periscono, eccetto Ulisse, che su 
gli avanzi della nave si pone. — In tale stato ripassa tra 
Scilla e Cariddi, salvandosi da quest'ultima con un'arte ma- 
ravigliosa : e dopo dieci giorni giunge all' isola di Calipso. 
E qui ha fine la sua narrazione. 

Poiché la nave uscì dalle correnti 
Pel gran fiume Oceano, ed alTEea 



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(t. 3-38) LIBRO XII. 219 

Xsola giunse neir immenso mare, 
Xà, 've gli alberghi dell'Aurora, e i balli 
Sono, e del Sole i lucidi Levanti, 
T^oi dalla nave, che fu in secco tratta. 
Scesi, e corcati su la muta spiaggia. 
Aspettammo dell'Alba il sacro lume. 
Ma come del mattin la bella figlia 
Colorò il ciel con le rosate dita, 
Di Circe andare alla magione alcuni, 
Che dell'estinto Elpenore la fredda 
Spoglia ne riportassero. Troncammo 
Frassini e abeti, e all'infelice amico, 
Dolenti il core, e lagrimosi il ciglio. 
L'esequie femmo, ove sporgea piti il lido. 
Né prima il corpo e le armi ebbe arse il foco 
Che noi, composto un tumulo, ed eretta 
Sopravi una colonna, il ben formato 
Remo infiggemmo della tomba in cima. 
Ment'eravamo al tristo ufficio intenti. 
Circe, che d'Aide ci sapea tornati. 
S'adornò, e venne in fretta, e con la Dea 
Venner d'un passo le serventi Ninfe, 
Forza di carni e pan seco recando, 
E rosso vino, che le vene infiamma. 
L'inclita tra le Dee stava nel mezzo, 
E così favellava: sventurati, 
Che in carne viva nel soggiorno entraste 
D'Aide, e di cui la sorte è due fiate 
Morir quando d'ogni altro uomo è una sola, 
Su via, tra i cibi scorra ed i licori 
Tutto a voi questo dì su le mie rive. 
Come nel ciel roseggerà l'Aurora, 
Navigherete; ma il cammino, e quanto 
Di saper v'è mestieri, udrete in prima. 
Sì che non abbia per un mal consiglio 
Cerava in terra, od in mare, a incorvi danno, 

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220 ODISSEA (v 39-74) 

Chi persuaso non sarìasi? Quindi 
Tra lanci piene e coronate tazze, 
Finché il Sol si mostrò, sedemmo a mensa. 
Il Sol celato, ed imbrunito il mondo, 
Si coIcaro i compagni appo la nave. 
Ma Circe me prese per mano, e trasse 
Da parte, e a seder pose; indi, seduta 
Di contra, interrogommi, ed io su tutto 
La satisfeci pienamente. Allora 
Tai parole sciogliea 1* illustre Diva: 
Tu compiesti ogni cosa. Or quello ascolta, 
Ch' io vo* manifestarti, e che al bisogno • 
Ti torneranno nella mente i Numi. 
Alle Sirene giungerai da prima, 
Che affascinan chiunque i lidi loro 
Con la sua prora veleggiando tocca. 
Chiunque i lidi incautamente afferra 
Delle Sirene, e n'ode il canto, a lui 
Né la sposa fedel, né i cari figli 
Verranno incontro su le soglie in festa. 
Le Sirene, sedendo in un bel prato. 
Mandano un canto dalle argute labbra, 
Che alletta il passeggier: ma non lontano 
D'ossa d'umani putrefatti corpi, 
E di pelli marcite, un monte s'alza. 
Tu veloce oltrepassa, e con mellita 
Cera de* tuoi così l'orecchio tura. 
Che non vi possa penetrar la voce. 
Odila tu, se vuoi; sol che diritto 
Te della nave all'albero i compagni 
Leghino, e i piedi stringanti e le mani; 
Perchè il diletto di sentir la voce 
Delle Sirene tu non perda. E dove 
Pregassi, o comandassi a' tuoi di sciorti, 
Le ritorte raddoppino, ed i lacci. 
Poiché trascorso tu sarai, due y\e 

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(v. 75-ilO) LIBRÒ xil. èài 

Ti s'apriranno innanzi; ed io non dico, 
Qual piti giovi pigliar, ma, come d'ambo 
Ragionato t'avrò, tu stesso il pensa. 

Vedrai da un lato discoscese rupi 
Sovra l'onde pendenti, a cui rimbomba 
Dell'azzurra Anfitrìte il salso fiotto, 
or Iddìi beati nella lor favella 
Chiamanle Erranti. Non che ogni altro angelo, 
Trasvolarlé non sanno impunemente 
Né le colombe pur, che al padre Giove 
Recan l'ambrosia: la polita pietra 
Sempre alcuna ne fura e della spenta 
Surroga in vece altra colomba il padre. 
Nave non iscampò dal periglioso 
Varco sin qui: che de' navigli tutti 
Le tavole del pari e i naviganti 
Sen porta il vincitor flutto, e la pregna 
Di mortifero foco atra procella. 
Sola quell'Argo, che sglcava il mare, 
Degli uomini pensiero, e degli Dei, 
Trapassar valse, navigando a Coleo: 
E se non che Giunon, cui molto a cuore 
Giasone stava, di sua man la spinse. 
Quella non meno avrìan contra le vaste 
Rupi cacciata i tempestosi flutti. 

Dall'altrii parte havvi due scogli: l'uno 
Va sino agli astri, e fosca nube il cinge, 
Né su l'acuto vertice, l'estate 
Corra o l'autunno, un puro ciel mai ride. 
Montarvi non potrebbe altri, o calarne, 
Venti mani movesse e venti piedi ; 
Si liscio è il sasso, e la costa superba. 
Nel mezzo vòlta all'Occidente e all'Orco 
S'apre oscura caverna, a cui davanti 
Dovrai ratto passar; giovane arciere. 
Che dalla nave disfrenasse il dardo^ 

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S22 ODISSEA (v. 111-146) 

Non toccherebbe l'incavato speco. 
Scilla ivi alberga, che moleste grida 
Di mandar non rista. La costei voce 
Altro non par che un guaiolar perenne 
Di lattante cagnuol: ma Scilla è atroce 
Mostro, e sino ad un Dìo, che a lei si fesse 
Non mirerebbe in lei senza ribrezzo. 
Dodici ha piedi, anteriori tutti, 
Sei lunghissimi colli, e su ciascuno 
Spaventosa una testa, e nelle bocche 
Di spessi denti un triplicato giro, 
E la morte più amara in ogni dente. 
Con la metà di sé nell'incavato 
Speco profondo ella s'attuffa, e fuori 
Sporge le teste, riguardando intorno, 
Se delfini pescar, lupi, o alcun puote 
Di que' mostri maggior che a mille a mille 
Chiude Anfitrite ne* suoi gorghi, e nutre. 
Né mai nocchieri oltrepassare illesi: 
Poiché quante apre disoneste bocche, 
Tanti dal cavo legno uomini invola. 
Men l'altro s'alza contrapposto scoglio, 
E il dardo tuo ne colpirla la cima. 
Grande verdeggia in questo, e d'ampie foglie 
Selvaggio fico; e alle sue falde assorbe 
La temuta Cariddi il negro mare. 
Tre fiate il rigetta, e tre nel giorno 
L'assorbe orribilmente. Or tu a Cariddi 
Non t'accostar, mentre il mar negro inghiotte; 
Che mal sapria dalla mina estrema 
Nettuno stesso dilivrarti. A Scilla 
Tienti vicino, e rapido trascorri. 
Perder sei de' compagni entro la nave 
Torna più assai, che perir tutti a un tempo. 
Tal ragionava; ed io; Quando m'avvegna 
"^hivare, o Circe, la fatai Cariddi, 

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(v. 147-182) LIBRO xn. 223 

Respinger, dimmi il ver, Scilla non deggio, 
Che gli amici a distruggermi s'avventa? 

sventurato, rispondea la Diva, 
Dunque le pugne in mente ed i travagli 
Rivolgi ancor, né ceder pensi ai Numi? 
Cosa mortai credi tu Scilla? Eterno 
Credila, e duro, e faticoso, e immenso 
Male, ed inespugnabile, da cui 
Schermo non havvi, e cui fuggir fia il meglio* 
Se indugi, e vesti appo lo scoglio Tarmi, 
Sbucherà, temo, ad un secondo assalto, 
E tanti de' compagni un'altra volta 
Ti rapirà, quante spalanca bocche. 
7ola dunque sul pelago, e la madre 
Cratèi, che al mondo generò tal peste, 
E ritenerla, che a novella preda 
Non si slanci, potrà, nel corso invoca. 

Allora incontro ti verran le belle 
Spiagge della Trinacria isola, dove 
Pasce il gregge del Sol, pasce l'armento: 
Sette branchi di buoi, d'agnelle tanti, 
E di teste cinquanta i branchi tutti. 
Non cresce, o scema, per natale, o morte, 
Branco; e le Dive sono i lor pastori, 
Faetusa e Lampezie il crin ricciute, 
Che partorì d'Iperione al figlio. 
Ninfe leggiadre, la immortai Neera. 
Come l'augusta madre ambo le Ninfe 
Dopo il felice parto ebbe nodrite, 
A soggiornar lungi da sé mandolle 
Nella Trinacria; e le paterne vacche 
Dalla fronte lunata, ed i paterni 
Monton lucenti a custodir lor diede. 
Pascoleranno intatti, e a voi soltanto 
Calerà del ritorno? il suol nativo. 
Non però senza guai, favi concesso, 

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224 ODISSEA (v. 183-2Ì8) 

Ma se giovenca molestate, od agna. 
Sterminio a te predico, e al legno e a' tuoi. 
E pognam, che tu salvo ancor ne andassi, 
Riederai tardi, e a gran fatica, e solo. 
Disse; e sul trono d*or l'Aurora apparve. 

Circe, non molto poi, da me rivolse 
Per risola i suoi passi; ed io, trovata 
La nave, a entrarvi, e a disnodar la fune, 
Confortava i compagni; ed i compagni 
Y'entraro, e s'assidean su i banchi, e assisi 
Fean co' remi nel mar spume d'argento. 
La Dea possente ci spedi un amico 
Vento di vela gonfìator, che fido 
Per l'ondoso cammin ne accompagnava; 
Si che deposti nella negra nave 
Dalla prora cerulea i lunghi remi. 
Sedevamo, di spingerci e guidarci 
Lasciando al timonier la cura, e al vento. 

Qui, turbato del core. Amici, io dissi, 
Degno mi par che a tutti voi sia conto 
Quel che predisse a me l'inclita Circe. 
Sceltale adunque, acciocché, tristo o lieto, 
Non ci sorprenda ignari il nostro fato. 
Sfuggire in pria delie Sirene il verde 
Prato, e la voce dilettosa ingiunge. 
Vuole eh* io l'oda io sol: ma voi diritto 
Me della nave all'albero legate 
Con fune sì, ch'io dar non possa un crollo; 
E dove di slegarmi io vi pregassi 
Pur con le ciglia, o comandassi, voi 
Le ritorte doppiatemi, ed i lacci. 

Mentre ciò loro io discopria, la nave. 
Che avea da poppa il vento, in picciol tempo 
Delle Sirene all'isola pervenne. 
Là il vento cadde ed agguagliossi il mare, 
~ l'onde assonnò un demone. I compagni 

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(v. 219-254) LIBRO XII. 225 

Si levar pronti, e ripiegar le vele, 
E nella nave collocarle; quindi 
Sedean sui banchi, ed imbiancavan Tonde 
Co' forti remi di polito abete, 
lo la duttile cera, onde una tonda 
Tenea gran mazza, sminuzzai con destro 
Rame affilato; ed i frammenti n*iva 
Rivoltando e premendo in fra le dita. 
Né a scaldarsi tardò la molle pasta; 
Perocché lucidissimi dall'alto 
Scoccava i rai d'Iperìone il figlio. 
Be' compagni incerai senza dimora 
Le orecchie di mia mano; e quei diritto 
Me della nave all'albero legare 
Con fune, i pie stringendomi e le mani* 
Poi sui banchi adagiavansi, e co' remi. 
Batteano il mar, che ne tornava bianco. 
Già, vogando di forza, eravam, quanto 
Corre un grido dell'uomo, alle Sirene 
Vicini. Udito il flagellar de' remi, 
E non lontana ornai vista la nave. 
Un dolce canto cominciare a sciorre: 
molto illustre Ulisse, o degli Achei 
Somma gloria immortai, su via, qua vieni. 
Ferma la nave, e il nostro canto ascolta. 
Nessun passò di qua su negro legno. 
Che non udisse pria questa, che noi 
Balle labbra mandiam, voce soave; 
Yoce, che inonda di diletto il core, 
E di molto saver la mente abbella. 
Che non pur ciò, che sopportare a Troia 
Per celeste voler Teucri ed Argivi, 
Noi conosciam, ma non avvien su tutta 
La delle vite serbatrice terra 
Nulla^ che ignoto o scuro a noi rimanga. 
Cosi cantaro. Ed io, porger volendo. 

Odissea Digitizedbye^^Ogle 



è26 ODISSEA (v. 255-290) 

Più da vicino il dilettato orecchio, 
Cenno ai compagni fea, che ogni legame 
Fessemi rotto; e quei più ancor sul remo 
Incurvavano il dorso, e Perimede 
Sorgea ratto, ed Euriloco, e di nuovi 
Nodi cingeanrai, e mi premean più ancora. 
Come trascorsa fu tanto la nave, 
Che non potea la perigliosa voce 
Delle Sirene aggiungerci, coloro 
A sé la cera dairorecchie tosto, 
E dalle membra a me tolsero i lacci. 

Già rimanea l'isola indietro; ed ecco 
Denso apparirmi un fumo e vasti flutti, 
E gli orecchi intronarmi alto fragore. 
Ne sbigottirò i miei compagni, e i lunghi 
Remi di man lor caddero, e la nave 
Che de* fidi suoi r«mi era tarpata. 
Là immantinente si arrestò. Ma io 
Di su, di giù per la corsia movendo, 
E con blanda favella or questo, or quello 
De* compagni abbordando, 0, dissi, meco 
Sin qua passati per cotanti affanni. 
Non ci sovrasta un maggior mal, che quando 
L'infinito vigor di Polifemo 
Nell'antro ci chiudea, pur quinci ancora 
Col valor mio vi trassi, e col mio senno, 
E vi fia dolce il rimembrarlo un giorno. 
Via, dunque, via, ciò ch'io comando, tutti 
Facciam: voi, stando sopra i banchi, l'onde 
Percotete co* remi, e Giove, io spero , 
Concederà dalle correnti scampo. 
Ma tu, che il tiraon reggi, abbiti in mente 
Questo, né l'obliar; guida il naviglio 
Fuor del fumo e del fiotto, ed alfopposta 
Rupe ognor mira, e ad essa tienti, o noi 
Getterai nelForribile vorago. 

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(v. 291-326) LIBRO XII. 227 

Tutti alla voce mio ratto ubbidirò. 
Se non ch'io Scilla, immedicabil piaga, 
Tacqui, non forse, abbandonati i banchi, 
L'un sovra l'altro per soverchia tema 
Della nave cacciassersi nel fondo. 
E qui, di Circe, che vietommi Tarme, 
Negletto il disamabile comando. 
Io dell'arme vestiami, e con due lungha 
Nell'impavida mano aste lucenti 
Salia sul palco della nave in prua. 
Attendendo colà, che l'efferrata 
Abitatrice dell'infame scoglio 
Indi, gli amici a m' involar, sbalzasse : 
Né, perchè del ficcarli in tutto il brullo 
Macigno stanchi io mi sentissi gli occhi, 
Da parte alcuna rimirarla io valsi. 
Navigavamo addolorati intanto 
Per l'angusto sentier: Scilla da un lato. 
Dall'altro era l'orribile Cariddi, 
Che del mare inghiottia l'onde spumose. 
Sempre che rigettavak, siccome 
Caldaia iu molto rilucente foco. 
Mormorava bollendo; e i larghi sprazzi, 
Che andavan sino al cielo, in vetta d'ambo 
Gli scogli ricadevano. Ma quando 
I salsi flutti ringhiottiva, tutta 
Commoveasi di dentro, ed alla rupe 
Terribilmente rimbombava intorno, 
E, Tonda il seno aprendo, un'azzurrigna 
Sabbia parea nell'imo fondo; verdi 
Le guance di paura a tutti io scorsi. 
Mentre in Cariddi tenevam le ciglia, 
Una morte temendone vicina. 
Sei de' compagni^ i più di man gagliardi, 
Scilla rapimmi dal naviglio. Io gli occhi 
Torsi, é li vidi che levati in alto. ^ . ., . 

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228 ODISSEA (v. 327-362) 

Braccia e piedi agitavano, ed Ulisse 
Chiamavan, lassi I per Testrema volta. 
Qual pescator che su pendente rupe 
Tuffa di bue silvestre in mare il corno 
Con lunghissima canna, un'infedele 
Esca ai minuti abitatori offrendo, 
E fuor li trae dell'onda, e palpitanti 
Scagliali sul terren; non altrimenti 
Scilla i compagni dal naviglio alzava, 
E innanzi divoravali allo speco. 
Che dolenti mettean grida, e le mani 
Nel gran disastro mi stendeano indarno. 
Fra i molti acerbi casi, ond'io sostenni 
Solcando il mar, la vista, oggetto mai 
Di cotanta pietà non mi s'offerse. 

Scilla e Cariddi oltrepassate, in faccia 
La feconda ci apparve isola amena. 
Ove il gregge del Sol pasce, e l'armento; 
E ne giungean dall'ampie stalle a noi 
I belati su l'aure ed i muggiti. 
Gli avvisi allor mi si svegliare in mente 
Del Teban vate e della maga Circe, 
Ch'io l'isola schivar del Sol dovessi. 
Di cui rallegra ogni vivente il raggio. 
Ond'io, Compagni, lor dicea, per quanto 
Siate angosciati, la sentenza udite 
Del Teban vate e della maga Circe 
Ch'io l'isola schivar debba del Sole, 
Di cui rallegra ogni vivente il raggio. 
Circe affermava che il maggior de' guai 
Quivi e* incoglieria. Lasciarla indietro 
Ci convien dunque con la negra nave. 

Colpo tai detti fur quasi mortale. 
Nò a molestarmi Euriloco in tal guisa 
Tardava: Ulisse, un barbaro io ti chiamo. 

rchè di forze abbondi, e mai non. cedi, 

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(v, 3é3-398) LIBRO xn. 229 

Né fibra è in ta che non sia ferro, a' tuoi 

Contendi il toccar terra, e di non parca 

Cena sul lido ristorarsi. Esigi 

Che in mezzo le notturne ombre su questo 

Pelago a caso erriam, benché la notte 

Gravi produca disastrosi venti. 

Or chi fuggir potrà Tultimo danno. 

Dove repente un procelloso fiato 

Di Mezzodì ci assalga, o di Ponente, 

Che, de' Numi anco ad onta, il legno sperda? 

S'obbedisca oggi alla divina notte, 

E la cena nell'isola s'appresti. 

Come il dì spunti, salirem di buovo 

La nave, e nell'immensa onda entreremo. 

Questa favella con applauso accolta 
Fu dai compagni ad una; e io ben m'avvidi 
Che mali un Genio prepotente ordia. 
Euriloco, io risposi, oggimai troppa. 
Tutti centra ad un sol, forza mi fate. 
Giurate almeno, e col piti saldo giuro. 
Che se greggi troviam, troviamo armenti, 
Non sia chi, spinto da stoltezza iniqua, 
Giovenca uccida, o pecorella offenda : 
Ma tranquilli di ciò pasteggerete. 
Che in don vi porse la benigna Circe. 
Quelli giurare, e non si tosto a fine 
L'inviolabil giuro ebber condotto, 
Che la nave nel porto appo una fonte 
Fermare, e ne smontare, e lauta cena 
Solertemente apparecchiar sul lido. 
Paga delle vivande e de* licori 
La naturale avidità pungente , 
Risovveniansi di color che Scilla 
Dalla misera nave alto rapiti 
Vorossi, e li piangean, finché discese 
Su gli oèchi lagrimosi il dolce sonno. 

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230 ODISSEA (v. 309-434^ 

Già corsi avea del suo cammin due terzi 
La notte, e dechinavano le stelle. 
Quando il cinto di nembi olimpio Giove 
Destò nn gagliardo, turbinoso vento, 
Che la terra coverse, il mar di nubi, 
E la notte di cielo a piombo cadde. 
Ma come poi Toricrinita Aurora 
Colorò il "ciel con le rosate dita, 
Tirammo a terra il legno, e in cavo speco 
De' seggi ornato delle Ninfe, ch'ivi 
1 lor balli tessean, 1* introducemmo. 
Subito io tutti mi raccolsi intorno, 
E, Compagni, diss'io, cibo e bevanda 
Restanci ancor nella veloce nave. 
Se non vogliam perir, lungi, vedete, 
La man dal gregge e dall'armento: al Sole, 
Terribil Dio, che tutto vedo ed ode, 
Pascono i monton pingui e ì bianchi tori. 
Dissi; e acchetarsi i generosi petti. 

Per un intero mese Austro giammai 
Di spirar non restava, e poscia fiato 
Non sovgea. mai, che di Levante o d'Austro. 
Finché il pan non falli loro, ed il vino 
Ubbidienti, e della vita avari, 
Rispettavan l'armento. E già la nave 
Nulla contenea più. Givano adunque, 
Come il bisogno li pungea, dispersi 
Per l'isola, d'augelli e pesci in traccia. 
Con archi e ami, o di quale altra preda 
Lor venisse alle man: però che forte 
Rodeali dentro l'importuna fame. 
Io, dai compagni scevro, una remota 
Cercai del piede solitaria piaggia. 
Gli eterni a supplicar, se alcun la via 
Mi dimostrasse del ritorno; e in parte 
"^■mto, che d'aura non sentiasi colpo, 

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(v. 435-470) LIBRO Xii. 231 

Sparsi di limpid* onda, e a tutti alzai 
Gli abitanti dei cielo arabo le palme. 
Né guari audò, che d'un tranquillo sonno 
Gli occhi ed il petto ritìmpièrmi i Numi. 

Euriloco frattanto un mal consiglio 
Pose innanzi ai compagni: da si acerbe 
Sciagure oppressi, la mia voce udite. 
Tutte odiose certo ad uom le morti: 
Ma nulla tanto, che il perir di fame. 
Che più si tarda? Meniam via le belle 
Giovenche, e sagrifici ai Numi offriamo. 
Che se afferrar ci sarà dato i lidi 
Nativi, al Sole Iperione un ricco 
Tempio illustre alzeremo, appenderemo 
Molti alle mura preziosi doni, 
£ dov' ei, per li buoi dalla superba 
Testa crucciato, sperder voglia il legno, 
Nò alcun Dio gli contrasti, io tolgo Talma . 
Pria tra i flutti esalar, che, su deserta 
Isola stando, intisichir più a lungo. 

Disse; e tutti assentìano. Incontanente, 
Del Sol cacciate le più belle vacche 
Di fronte larga, e con le corna in arco. 
Che dalla nave non pascean lontane 
Stavano ad esse intorno; e, cólte prima, 
Per difetto che avean di candid* orzo. 
Tenere foglie di sublime quercia , 
Voti feano agli Dei. Compiuti i vóti, 
Le vittime sgozzaro, e le scolaro, 
E, le cosce tagliatone, di zirbo 
Le coprirò doppiate, e i crudi brani 
Sopra vi collocare. Acqua, che il rosso 
Vino scusasse, onde patian disagio, 
Versavan poi su i sacrifìci ardenti, 
E abbrostian tutti gr intestini. Quindi, 
Le cosce ornai combuste, ed assaggiate 

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éà2 obissBÀ (v. 471-506) 

Le interiora, tutto l'altro in pozzi 
Fu messo, e infitto negli acuti spiedi. 
E a me uscì dalle ciglia il dolce sonno. 
Sorsi, e alla nave in fretta io mi condussi. 
Ma vicina del tutto ancor non m'era, 
Ch' io mi sentii dall' avvampate carpii 
Muovere incontro un odoroso vento, 
E gridai lamentando, ai Numi eterni: 
O Giove padre, e voi, Dei sempre stanti, 
Certo in un crudo e jfatal sonno voi 
Mi seppelliste, *se doveasi intanto 
Compier da cotestoro un tal misfatto. 

Nunzia non tarda dell'ucciso armento, 
Lampezie al Sole andò di lungo peplo 
Coperta. Il Sole in grande ira montato. 
Si volse ai Numi, e, Giove, disse, e voi 
Tutti, immortali Dei, paghino il fio 
Del Laerziade Ulisse i rei compagni, 
Che le giovenche trucidarmi osare. 
Della cui vista, o eh' io per la stellata 
Volta salissi, o discendessi, nuovo 
Diletto ciascun dì prendea il mio core. 
Colpa e pena in lor sia d'una misura: 
O calerò nella magion di Fiuto, 
K al popol morto porterò mia luce. 

E il nimbifero Giove a lui rispose: 
Tra gì' Immortali, o Sole, ed i mortali 
Vibra su l'alma terra, e in cielo, i raggi. 
Io senza indugio d'un sol tocco lieve 
Del fulmine affocato il lor naviglio 
Sfracellerò del negro mar nel seno. 

Queste cose Cai ipso un giorno udia 
Dal messaggier Mercurio, e a me nàrrolle 
La ricciuta il bel crin ninfa Calipso. 

Giunto alla nave, io rampognava or questo j 
De' compagni, ed or quel: ma violato 

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(v. 50r542) LIBRO XII. è38 

L'armento fu, né avea compenso il male. 
Strani prodigi intanto agi* infelici 
Mostravano gì* Iddii : le fresche pelli 
Strisciavan sul terreo, muggian le incotte 
Carni, e le crude, agli scbidoni intorno, 
E de' buoi lor sembrava udir la voce. 
Pur del fior dell* armento ancor sei giorni 
Si cibaro i colpevoli. Comparsa 
La settim' alba, il turbinoso vento 
Stancossi: e noi ci rimbarcammo, e, alzato 
L'albero prontamente, e dispiegate 
Le bianche vele, ci mettemmo in mare. 

Di vista già della Trinacria usciti, 
Altro non ci apparia che il cielo e l'onda, 
Quando il Saturnio sul veloce legno 
Sospese in alto una cerulea nube, 
Sotto cui tutte intenebrarsi l'acque. 
La nave non correa che un tempo breve; 
Poiché ratto uno stridulo Ponente, 
Infuriando, imperversando, venne 
Di contra, e ruppe con tremenda buffa 
Le due funi dell'albero, che a poppa 
Cadde; ed antenne in uno, e vele e sarte 
Nella sentina scesero. Percosse 
L'alber, cadendo, al timoniere in capo, 
E l'ossa fracassògli; ed ei da poppa 
Saltò nel mar, di palombaro in guisa, 
E cacciata volò dal colpo l'alma. 
Ma Giove, che tonato avea pili volte, 
Scagliò il fulmine suo contro la nave, 
Che si girò, dal fulmine colpita 
Del Saturnio, e s'empieo di zolfo tutta. 
Tutti fuor ne cascarono i compagni, 
E ad essa intorno l'ondeggiante sale, 
Quai corvi, li portava; e cosi Giove 
Il ritorno togli ea loro, e la vita. 

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284 ODISSEA (v. 543-578) 

Io pel naviglio su e giù movea, 

Finché gli sciolse la tempesta i fianchi 

Dalla carena, che rimase inerme. 

Poi la base dell'albero l'irata 

Onda schiantò; ma di taurino cuoio 

Rivestialo uaa striscia, ed io con questa 

L'albero e la carena in un legai, 

E sopra mi v' assisi; e tale i venti 

Esiziali mi spingean su l'onde.. 

Zefiro a un tratto rallentò la rabbia: 

Sennonché sopraggiunse un Austro in fretta, 

Che, noiandomi forte, in ver Cariddi 

Ricondur mi volea. L* intera notte 

Scorsi su i flutti; e col novello Sole 

Tra la grotta di Scilla, e la corrente 

Mi ritrovai della fatai vorago, 

Che in quel punto inghiottia le salse spume. 

Io, slanciandomi in alto, a quel selvaggio 

M'aggrappai fico eccelso, e mi v'attenni» 

Qua! vipistrello; che nò dove i piedi 

Fermar, né come ascender, io sapea, 

Tanto eran lungi le radici, e tanto 

Remoti dalla mano i lunghi, immensi 

Rami, che d'ombra ricoprian Cariddi. 

Là dunque io m' attenea, bramando sempre 

Che rigettati dall'orrendo abisso 

Posser gli avanzi della nave. Al fine 

Dopo un lungo desio vennero a galla. 

Nella stagion che il giudicante, sciolte 

Varie di caldi giovani contese, 

Sorge dal fòro, e por cenar s'avvia, 

Dell'onde uscirò i sospirati avanzi. 

Le braccia apersi allora, e mi lasciai 

Giù piombar con gran tonfo all'onde in mezzo, 

Non lunge da que' legni; a cui m' assisi 

Di sopra, e delle man remi io mi feci, 

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<^. 879-590) LIBRO XII. 835 

Ma degli uomini il padre e de' Celesti 
Di rivedermi non permise a Scilla: 
Che toccata sariami orrida morte. 
I^er nove di mi trabalzava il fiotto, 
E la decima notte i Dei sul lido 
Mi gettar dell'Ogigia isola, dove 
Calipso alberga, la divina Ninfa, 
Ohe raccoglieami amica, e in molte guise 
Mi confortava. Perchè ciò ti narro? 
Tai cose, Alcinoo illustre, ieri le udivi, 
Le udia con teco la tua oasta donna , 
K ciò, ridir, ch'io dissi, a me non torna. 

LIBRO DECIMOTBRZO 



ARGOMENTO 

Nuovi regali ad Ulisse. — Tutto è collocato nella nave, che 
ad Itaca dee condurlo. — Egli s* accommiata dal Re , e si 
imbarca. — I Feaci il depongono in su la spiaggia, mentre 
dormia; e al lor ritorno Ne^uno converte in pietra la nave 
loro. •— fìestatosi Ulisse non riconosce la patria per cagion 
d*ana nebbia, che Pallade gli levò iotorno. — Questa gli 
appare in forma di pastorello : gì* insegna qual modo do- 
vrà tenere per uccidere i Proci ; e gli suggerisce di na- 
scondere in un antro vicino i doni che i Feaci, in partendo, 
avean lasciati sul lido. — Finalmente il trasforma in vec- 
chjio mendico, acciocchò ninno in Itaca il riconosca. 

Stavansi tutti per l'oscura sala 
Taciti, immoti, e nel diletto assortì. 
Cosi al fine il silenzio Alcinoo ruppe; 
Poiché alla mia venisti alta, e di rama 



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é36 ODISSEA (v. 5-40) 

Solido e lìscio edifìcata casa , 

No, Ulisse, non cred'io che al tuo ritomo 

L'onde t'agiteran, comunque afflitto 

T'abbia sin qui co* suoi decreti il fato. 

Voi tutti, che votar nel mio palagio 

Del serbato ai più degni ardente vino 

Solete i nappi, ed ascoltare il vate. 

L'animo a quel, ch'io vi dichiaro, aprite. 

Le vesti e Toro d'artificio miro , 

E ogni altro don, che de'Feaci i capi 

Recaro al forestier, l'arca polita 

Già nel suo grembo accolse. Or d'un treppiede 

Anco e d'un'urna il presenti am per testa. 

Indi farem che tutta in questi doni. 

Di cui male potremmo al grave peso 

Regger noi «oli, la città concorra. 

Disse: e piacquero! detti, e al proprio albergo 
Ciascun, le piume a ritrovar, si volse. 
Ma come del mattin la bella figlia 
Aperse il ciel con le rosate dita, 
Vèr la nave afi^rettavansi , portando 
Il bel, che onora l'uom, bronzo foggiato. 
Lo stesso Re, ch'entrò per questo in nave, 
Attentamente sotto i banchi il mise, 
Onde, mentre daran de' remi in acqua, 
Non impedisse alcun de' Feacesi 
Giovani, e l'offendesse urna o treppiede. 
Né di condursi al real tetto, dove 
La mensa gli attendea, tardare i prenci. 
Per lor d'Alcinoo la sacrata possa 
Un bue quel giorno uccise al ghirlandato 
D'atre nubi Signor dell'Universo. 
Arse le pingui cosce, un prandio lauto 
Celebran lietamente; e il venerato 
Dalla gente Demodoco, il divino 
Cantor, percuote la sonante cetra. 

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(v. 41-76) LIBRO xin. 237 

Ma Ulisse il capo alla diurna lampa 
Spesso torcea, se tramontasse al fine; 
Che il ritorno nel cor sempre gli stava. 
Quale a villan, che dalla prima luce 
Co* negri tori e col pesante aratro 
Un terren franse riposato e duro, 
Cade gradito il sole in occidente 
Pel desio della cena, a cui s*avvia 
Con le ginocchia, che gli treman sotto, 
Tal cadde a Ulisse in occidente il sole* 
Tosto agli amanti del remar Feaci, 
E al Re, più che ad altrui, cosi drizzossi; 
Facciansi, Alcinoo, i libamenti, e illeso 
Mandatemi ; e gì* Iddii vi guardin sempre. 
Tutti ho già i miei desir; pronta è la scorta, 
E della nave in sefir^ giacciono i doni, 
Da cui vogliano i Dei che prò ne vegna. 
Vogliano ancor, che in Itaca l'egregia 
Consorte io trovi, e i cari amici in vita. 
Voi, pestandovi qui, serbate in gioia 
Quelle, che unisce a voi, vergini spose, 
E i. dolci figli che ne aveste: i Numi 
V'ornin d*ogni virtù, né possa mai 
I di vostri turbar pubblico danno. 

Tacque; eapplaùdia ciascuno, e molto insta- 
si compiacesse allo stranier, da cui (va, 
Uscita era si nobile favella. 
Ed Alcinoo all'araldo allor tal detti: 
Pontonoo, il vino mesci, e a tutti in giro 
Porgilo, acciò da noi, pregato Giove, 
S'accomiati oggimai l'ospite amico. 
Mescè l'araldo il vino, e iPporse in giro; 
E tutti dai lor seggi agl'immortali 
Numi libaro. Ma il divino Ulisse 
Sorse, e d'Arete in man gemina pose 
Tazza rotonda, e tai parole sciolse : ^ . 

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238 ODISSEA (v. 77-112) 

Vivi felici dì, Regina illustre, 

Finché vecchiezza ti sorprenda, e morte, 

Comun retaggio degli umani. Io parto: 

Te del popol, de* figli e del marito 

Il rispetto feliciti e l'amore. 

Disse, e varcò la soglia. Alcinoo innanzi 
Muover gli fece il banditor, che al ratto 
Legno il guidasse e al mare; e Arete dietro 
Tre serve gli spedì, Tuna con tersa 
Tunica in mano, ed un lucente manto. 
L'altra con la fedele arca, e con bianchi 
Pani la terza, e rosseggianti vini. 
Tutto da lor, come sul lido furo, 
I remiganti tolsero, e nel fondo 
Della nave allogar: poi su la poppa 
Steser candidi lini e bella coltre. 
Dove tranquillo il forestier dormisse. 
Vi montò egli, e tacito corcossi. 
E quei sedean su i banchi, e, poiché sciolta 
Dal traforato sasso ebber la fune, 
Fatigavan co* remi il mar canuto. 
Ma un dolce sonno' al Laerziade, un sonno 
Profondo, ineccitabile, e alla morte 
Per poco egual, su le palpebre scese. 
Come talvolta in polveroso campo 
Quattro maschi doistieri a un cocchio aggiunti, 
E tutti dal flagel percossi a un tempo 
Sembran levarsi nel vóto aere in alto, 
E la prescritta via compier volando: I 

Si la nave correa con alta poppa, 
Dietro da cui precipitava il grosso 
Del risonante mar flutto cilestro. 
Correa sicura, né Tavria sparviere, 
Degli augei velocissimo, ragi?iunta; 
Con si celere prora i salsi flutti 
Solcava, un uom seco recandq^ai Dii . . , 

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(v. 113-148) LIBRO XIII. 239 

Pari di senno, che infiniti affanni 
Durati avea tra Tarmi, avea tra Tonde, 
E allor, d'oblio sparsa ogni cura, in braooio 
D'un sonno placidissimo giacea. 
Quando comparve quel sì fulgid' astro, 
Che della rosea Aurora è messaggiero, 
La ratta nave ad Itaca approdava. 

Il porto è qui del marin vecchio Forco, 
Che due sporgenti in mar lidi scoscesi, 
B Tun alTaltro ripieganti incontra, 
Si dal vento riparano e dal fiotto, 
Che di fune mestier non v'han le navi. 
Spande sovra la cima i larghi rami 
Vivace oliva, e presso a questa un antro 
S'apre amabile, opaco, ed alle Ninfe 
Naiadi sacro. Anfore ed urne, in cui 
Forman le industri pecchie il mèi soave j 
Vi son di marmo tutte, e pur di marmo 
Lunghi telai, dove purpurei drappi. 
Maraviglia a veder, tesson le Ninfe. 
Perenni onde vi scorrono, e due porte 
Mettono ad esso : ad Aquilon si volge 
L'una, e schiudesi alTuom; Taltra, che Noto 
Guarda, ha più del divino, ed un mortale 
Per lei non varca: ella è la via de' Numi. 

In questo porto ai Feacesi conto 
Dirittamente entrò l'agile nave, 
Che sul lido andò mezza: di sì forti 
Remigatori la spingean le braccia I 
Si gittaron nel lido; e Ulisse in ])rima 
Co' bianchi lini e con la bella coltre 
Sollevar dalla nave, e seppellito 
Nel sonno, siccom' era, in su l'arena 
Posarlo giti. Poi ne levare i doni, 
Ch'ei riportò dalla Feacia gente 
Per favor di Minerva, e al piede uniti , 

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240 ODISSEA (v. 149-184) 

Li collocaro della verde oliva, 
Fuor del cammin, ove s'avvenisse in loro 
Viandante, e la man su lor mettesse, 
Mentre Teroe dormia. Quindi ritorno 
Fean con la nave alia natia contrada. 
Nettuno intanto, che serbava in mente 
' Le minacce che un di contra il divino 
Laerziade scagliò, cosi il pensiero 
Ne spiava di Giove: Giove padre, 
Chi più tra i Dei m'onorerà, se onore 
Nieganmi i Feacesi, che mortali 
Sono e a me deon l'origine? Io credea 
Che della sua nativa isola ai sassi 
Giunger dovesse tra gli affanni Ulisse , 
Cui non invidiava io quel ritorno 
Che tu gli promettesti, e del tuo capo 
Confermasti col cenno. Ma i Feaci 
Dormendo il trasportar su ratta nave, 
E in Itaca il deposero, e il colmaro 
Di doni in bronzo, e in oro, e in bei tessuti: 
Ricchezza immensa, e qual dall'arsa Troia 
Recato ei non avria, se oon la preda. 
Che gli toccò, ne ritornava illeso, 

della terra scuotitor possente, 
Il nubiadunator Giove rispose, 
Qual parola parlasti? Alcun de' Numi 
Te in dispregio non ha, né lieve fora 
Dispregiar Dio sì poderoso e antico. 
Ma dove uom troppo di sue forze altero 
T'osasse ingiuriar, tu ne puoi sempre, 
Qual più t'aggradirà, prender vendetta. 

Mi starei forse, o nubipadre Giove, 
Nettun riprese, s' io dal tuo corruccio 
Non mi guardassi ognora? Io de' Feaci, 
Perchè di ricondur gli ospiti il vezzo 
Perdano al fin, strugger vorrei nel mare . 

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(v. 185-220) LIBRO xiii. 241 

L'inclita nave ritornante; e in oltre 
Grande alla lor città montagna imporre. 

Ciò, replicava il Nubipadre, il meglio, 
Ottimo Nume, anco a me sembra: quando 
I Feacesi scorgeran dal lido 
Venir la nave a tutto corso, e poco 
Sara lontana, convertirla in sasso 
Che di naviglio abbia sembianza, e oggetto 
Si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre 
Grande alla lor città montagna imporre. 

Lo Scuotiterra, udito .questo appena, 
Si portò a Scheria in fretta, e qui fermossi. 
Ed ecco spinta dagl'illustri remi 
Su per Tonde venir l'agile nave. 
Egli appressolla, e convertilla in sasso, 
E d'un sol tocco della man divina 
La radicò nel fondo. Indi scomparve. 

Molte allor de'Feaci in mar famosi 
Fur le alterne parole. Ahi chi nel mare 
Legò la nave che vèr noi solcava 
L'acque di volo, e che apparia già tutta? 
Cosi, gli occhi volgendo al suo vicino. 
Favellava talun; ma rimanea 
La cagion del portento a tutti ignota. 
Se non che Alcinoo a ragionar tra loro 
Prese in tal foggia: Oh Dei! cólto io mi veggo, 
Qual dubbio v'ha? dai vatinicii antichi 
Bel padre, che dicea, come sdegnato 
Nettun fosse con noi, perchè securo 
Riconduciam su l'acque ogni mortale. 
Dicea, che insigne de'Feaci nave. 
Dagli altrui nel ridire ai porti suoi. 
Distruggerla nell'oscure onde, e questa 
Cittade coprirla d'alta montagna. 
Cosi arringava il vecchio, ed oggi il tutto 
Si compie. Or via, sottomettiamci ognuno: 

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242 ODI33KA (v. 221-250) 

Dal ricondur cessiam gli ospiti nostri, 
E dodici a Nettuno eletti tori 
Sagrifìchiam, perchè di noi %V incresca, 
Né d'alto monte la città ricuopra. 
Disse. Penetrò in quelli un timor sacro, 
E i cornigeri tori apparecchiaro. 
Mentre intorno all' aitar prieghi a Nettuno 
Drizzavan della Scheria i duci e i capi , 
Svegliossi il pari agl'Immortali Ulisse, 
Che su la terra sua dormia disteso, 
Né la sua terra riconobbe: stato 
N'era lungo gran tempo, e Palla cinto 
L'avea di nebbia, per celarlo altrui, 
E di quanto è mestier dargli contezza, 
Sì che la moglie, i cittadin, gli amici 
Noi ravvisin, che pria de' tristi Proci 
Fatto ei non abbia universal macello. 
Quindi ogni cosa gli parea mutata, 
Le lunghe strade, i ben difesi porti, 
E le ombrose foreste, e l'alte rupi. 
Sguardò fermo su i pie la patria ignota. 
Poi non tenne le lagrime, e la mano 
Battè su l'anca, e lagrimando disse: 
Misero! tra qual nuova, estrania gente 
Sono io? Chi sa, so nequitosa e cruda, 
giusta in vece, ed ospitale e pia? 
Ove questa recar molta ricchezza. 
Ove ire io stesso? Oh nella Scheria fosse 
Rimasta, ed io giunto all' eccelsa casa 
D'altro signor magnanimo, che accolto 
Dolcemente m'avesse, e rimandato 
Sicuramente! Io dove porla ignoro, 
Né lasciarla vo'qui, che altri la involi. 
Men che saggi eran dunque, e men che probi 
De'Feacesi i condottieri e i capi, 
ChfJ non alla serena Itaca, come 

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(v. 257-292) LIBRO XIII. 243 

Dicean, ma in questa sconosciuta piaggia 
Condur mi fero. Li punisca Giove 
De' supplici custode, a cui nessuno 
Celasi, e che non lascia inulto un fallo. 
Queste ricchezze noveriam, veggiamo, 
Se Tia non ne portò nulla la nave. 
Dette tal cose, i tripodi superbi 
Contava, e Turno, e Toro, e le tessute 
Vesti leggiadre; e non falliagli nulla. 
Ma la sua Patria sospirava, e molti 
Lungo il lido del mar romoreggiante 
Passi e lamenti fea. Pallade allora, 
Di pastorello delicato in forma, 
Quale un figlio di Re mostrasi al guardo, 
S'offerse a lui : doppia e ben fatta veste 
Avea d'intorno agli omeri, calzari 
Sotto i pie molli, e nella destra un dardo. 
Gioì Ulisse a mirarla, e incontanente 
Le mosse incontro con tai detlì: Amico, 
Che qui primiero mi t'affacci, salve. 
Deh non mi t'affacciar col alma ostile; 
Ma questi beni e me serba, che abbraccio 
Le tue ginocchia, e te, qual Nume, invoco. 
Che terra è questa? che città? che gente? 
Una dell'ondicinte isole forse? 
O di fecondo continente spiaggia, 
Che scende in sino al mar? Schietto favella. 
Stolto sei bene, o di lontan venisti, 
La Dea rispose dall'azzurro sguardo, 
Se di questa contrada, ospite, chiedi. 
Cui non è nota? La conosce appieno 
Qual vèr l'aurora, e il Sol, qual vèr l'oscura 
Notte soggiorna. Alpestra sorge, e male 
Yi si cavalca, né si stende assai. 
Sterile non però torna: di grano 
Risponde, e d'uva, e la rugiada semjre , 

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244 ODISSEA (v. 293-328) 

Bagnala, e il némbo: ottimo pasco i buoi 
E le capre vi trovano, verdeggia 
D'ogni pianta, e perenne acqua T irriga. 
Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo Àcheo^ 
Come sentii narrar, molto distanno, 
D' Itaca giunge, o forestiero, il nome. 

Al nome della Patria, che su i labbri 
Deir immortai sonò figlia di Giove, 
S'empiè di gioia il liuerziade, e tardo 
A risponder non fu, benché, volgendo 
Nel suo cor sempre gli artifici usati. 
Contraria al vero una novella ordisse. 
Io già d'Itaca udia nell'ampia Creta, 
Che lungi nel mar giace, e donde io venni. 
Metà recando de' miei beni, e ai figli 
Lasciandone metà. Di Creta io fuggo, 
Perchè vi uccisi Orsiloco, il diletto 
D'Idomenèo figliuol, da cui nel corso 
Uom non era colà che non perdesse. 
Costui di tutta la Troiana preda. 
Che tanti in mezzo all'onde, in mezzo aU'arme, 
Travagli mi costò, volea fraudarmi. 
Sdegnato, ch'io d'altri guerrieri duce 
Sotto il padre di lui servir negassi. 
In quel eh' ei nella strada uscia dal campo, 
Gli tesi insidie con un mio compagno, 
E di lancia il ferii. Notte assai fosca 
L*aere ingombrava, e^ non che agli altri, a lai 
Che di Vita io spogliai, rimasi occulto. 
Trovai sul lido una Fenicia nave, 
E a quegl* illustri naviganti ricca 
Mercede offersi, e li pregai che in Pilo 
Mi ponessero, o in Elide divina. 
Dominio degli Epèi. Se non che il vento 
Indi li svolse, e forte a lor mal cuore; 
Che inganni non pensavano. Venimmo , 

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(v. 329-364) LiBiio xiii. 245 

Notturni errando, a qaesta piaggia, e a forza 
Di remi, e con gran stento, il porto entrammo. 
Né della cena favellossi punto, 
Benché ciascuno in grande uopo ne fosse; 
Ma, del naviglio alla rinfusa usciti, 
Giacevam su l'arena. Ivi un tranquillo 
Sonno me stanco invase; e quei, Jevate 
Dalla nave, e deposte, ov' io giacea. 
Le mie ricchezze, in vèr la popolosa 
Sidone andaro, e me lasciar nel duolo. 

Sorrise a questo la degli occhi azzurra , 
E con man careggiollo; e uguale a donna 
Bella, di gran sembiante, e di famosi 
Lavori esperta, in un momento apparve , 
E a così fatti accenti il volo sciolse: 
Certo «agace anco tra i Numi, e solo 
Colui saria, che d'ingannar nell'arte 
Te superasse! Sciagurato, scaltro. 
Di frodi insaziabile, non cessi 
Dunque né in Patria dai fallaci detti, 
Che ti piaccion così sin dalla culla? 
Ma di questo non piìi: che d'astuzie ambo 
Maestri siam; tu di gran lunga tutti 
D'inventive i mortali, e di parole 
Sorpassi; tutti io di gran lunga i Numi. 
Dunque la figlia ravvisar di Giove 
Tu non sapresti, che a te assisto sempre 
Nelle tue prove, e te conservo, e grazia 
Ti fei trovare appo i Feaci? E or venni 
Per ammonirti, e per celare i fatti 
Col mio soccorso a te splendidi doni, » 

Non che narrarti ciò che per destino 
Nel tuo palagio a sopportar ti resta. 
Tu soffri, benché atretto ; e ad uomo o donna 
L'arrivo tuo non palesar: ma tieni 
Chiusi nel petto i tuoi dolori, e solo 

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246 ODISSEA (v. 365-400) 

Col silenzio rispondi a chi t'oltraggia. 

E tosto il ricco di consigli Ulisse: 
Difficilmente, o Dea, può ravvisarti 
Mortai, cui t'appresenti, ancor che saggio, 
Tante forme rivesti. Io ben rammento 
Che visitar tu mi degnavi un giorno. 
Mentre noi, figli degli Achivi, a Troia 
Combatte vam: ma poiché l'alte torri 
Ruins^mmo di Priamo, e su le navi 
Partimmo, e un Dio l'Achiva oste disperse. 
Più non ti scorsi, o del Tonante figlia. 
Nò m'avvidi unqua che m'entrassi in nave, 
Per cavarmi d'affanno. Abbandonato 
Solo a me stesso, e affiìtto io già vagando, 
Finché pria che il tuo labbro in tra i Feaci 
Mi confortasse, e nella lor cittade 
M'introducessi tu, le mie sventure 
GV immortali finirò. Ora io ti priego 
Pel tuo gran padre, quando in terra estrami. 
Non nella Patria mia, credomi, e temo 
Che tu di me prender ti voglia gioco. 
Ti priego dirmi, o Dea, se veramente 
Degli occhi Itaca io veggio, e del pie calco. 

E la Dea che rivolge azzurri i lumi: 
Tu mai te stesso non oblìi. Quind'io 
Non posso ai mali abbandonarti in preda; 
Tal mostri ingegno, tal facondia e senno. 
Altri, che dopo error molti giungesse. 
Sposa e figli mirar vorria repente; 
E a te nulla sapere, o chieder piace, 
, Se con gran cura non assaggi e tenti 1 

Prima la tua, che invan t'aspetta, e" a cui 
Scorron nel pianto i dì, scorron le notti. , 

Dubbio io non ebbi mai del tuo ritorno, 
Benché ritorno solitario e tristo: 
Se non che al zio Nettun con te crucciato 

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(v. 401-43C) LIBRO xin. 247 

Beirocchio che spegnesti al figlio in frontey 
Repugnar non volea. Ma or ti mostro 
D* Itaca il sito, e a credernoi io ti sforzo. 
Ecco il porto di Forcine, e la verde 
Frondosa oliva che gli sorge in cima. 
Ecco non lunge l'opaco antro ameno. 
Alle Naiadi sacro; la convessa 
Spelonca vasta riconosci, dove 
Ecatombi legittime alle Ninfe 
Sacrificar solevi. Ecco il sublime 
Nerito monte che di selve ondeggia. 
Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve. 
Giubbilò Ulisse alla diletta vista 
Della sua patria, e baciò l'alma terra. 
Poi, levando le man, subitamente 
Le Ninfe supplicò: Naiadi Ninfe, 
Non credea rivedervi, e con devoto 
Labbra in vece io salutovi, o di Giove 
Nate, a cui doni porgerem novelli, 
Se me in vita conserva, e dì felici 
A Telemaco mio concede amica 
La bellicosa del Saturnio figlia. 

Ti rassicura, e non temer, riprese 
La Dea dagli occhi di cilestro tinti. 
Che d'aiuto io ti manchi. Or senza indugio 
Nel cavo sen della divina grotta. 
Su via, poniam queste ricchezze in salvo, 
E di ciò consultiam che più ti torna. 

Tacque, ed entrava nella grotta oscura, 
Le ascosaglie cercandone; ed Ulisse, 
L'oro ed il bronzo, e le superbe vesti 
Portando, la seguìa. Tutto depose 
Acconciamente dell'egioco Giove 
La figlia, e l'antro d'un macigno chiuse. 
Ciò fatto, al pie della sacrata oliva 
Ambi sedendo, e investigando l'arte 

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248 ODISSEA \y. 437-472j 

Di tór di mezzo i temerari Proci, 
Così a parlar la prima era Minerva: 
Studiar convienti, o Laerziade, come 
Metter la man su gli arroganti drudi, 
Che regnano in tua casa, oggi e terz'anno, 
E della moglie tua con ricchi doni 
Chiedono a gara le bramate nozze. 
Ella, ognor sospirando il tuo ritorno, 
Ciascun di speme e d' impromesse allatta. 
Manda messaggi a tutti, ed altro ha in core. 

Ah! dunque, le rispose il saggio Ulisse,^ 
Me dell'atride Agameunón Tacerbo 
Fato attendea nelle paterne case, 
Se il tutto, inclita Dea, tu non m'aprivi. 
Ma tu la via, che a vendicarmi io prenda, 
M'addita, e a me soccorri, e quell'audace 
Spirto m'infondi, che accendeami, quando 
Sfemmo di Troia le famose mura. 
Mi starai tu del pari al fianco sempre? 
Io pugnar con trecento allor non temo. 

Sempre al fianco m'avrai, non m'uscirai, 
La Dea riprese dalle glauche luci. 
Di vista un sol momento in questa impresa. 
Questi superbi, che le tue sostanze 
Mandano a male, imbratteran di sangue 
L'immenso pavimento, e di cervella- 
Ma io così vo' trasformarti, Ulisse, 
Che riconoscer non ti possa uom vivo. 
Cotesta liscia ed ancor fresca pelle, 
Che le membra flessibili ti cuopre. 
Disseccherò, raggrinzerò ; di biondo 
Nulla ti rimarrà sovra la testa, 
E te circonderan miseri panni. 
Da cui lo sguardo di ciascun rifugga. 
Gli oochi poi sì belli ora, e sì vivaci, 
Saran sì oscuri, e avran tai pieghe intorno, 

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(v. 473-508) LIBRO XIII. 249 

Che turpe ai Proci, e alla tua donna e al figlio 

Cui lasciasti bambin cosa parrai. 

Tu prinpa cerca de' tuoi pingui verri 

Il fido guardian che t'ama, ed ama 

Telemaco, ama la tua saggia donna. 

Il troverai, che guarderà la nera 

Greggia che beve d'Aretusa al fonte, 

E alla pietra del Corvo addenta, e rompe 

La dolce ghianda, per la cui virtude 

Il florido sul dosso adipe cresce. 

Quivi ti ferma, ed al suo fianco assiso 

D'ogni cosa il richiedi; ed io frattanto 

Andrò alla bella nelle donne Sparta, 

In traccia del figliuol, che vi s'addusse, 

Onde saper di te dal bellicoso 

Menelao biondo, e udir, se vivi, e dove. 

Perchè non dirgliel tu, cui noto è il tutto? 
Rispose il ricco di consigli Ulisse. 
Forse perch'ei su l'infecondo mare 
Tormenti errando, come il padre, e intanto 
Le sue sostanze a male altri gli mandi? 

Ciò non t'afiligga, ripigliò la Dea 
Che cilestre in altrui le luci intende. 
Io stessa, nome ad acquistarsi e grido, 
Già l'inviava là, 've nulla il turba: 
Là, 've tranquillo, e d'ogni cosa agiato, 
Nel regal siede dell'Atride albergo. 
So ben, che agguati in nave negra i Proci 
Tendogli, desiando a lui dar morte 
Pria ch'ei torni; ma invan: che anzi, lui vivo, 
Coprirà i suoi nemici, e tuoi, la terra. 

Disse Minerva, e della sua potente 
Verga l'eroe toccò. S'inaridisce 
La molle cute, e si rincrespa; rari 
Spuntano, e bianchi su la testa i crini; 
Tutta 4*un vecchio la persona ei prenda 

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250 ODISSEA (v. 509-521) 

Rotto dagli anni, e stanco; e foschi, estinti 
Son gli occhi, in che un divin foco brillava. 
Tunica trista, e mala cappa in dosso 
L'amica Dea cacciògli, ambo squarciate, 
Discolorate, affumicate e sozze: 
Sopra gli vestì ancor di ratto cervo 
Un gran cuoio spelato, e nella destra 
Pose bastone; ed una vii bisaccia, 
Che in più luoghi s*apria, per una torta 
Coreggia antica agli omeri sospese. 

Preso il consiglio che più acconcio parve, 
L*un dall'altro staccarsi ; e alla divina 
Sparta, del figlio in traccia, andò Minerva. 

LIBRO DECIMOQUARTO 



ARGOMENTO 

Ulisse giunge alla casa d'Eumèo. — Condizione in cui trovasi 
questo buon servo , accoglienza eh' ei fa al suo padrone 
senza conoscerlo, e colloquio che hanno tra loro. — Ulisse 
finge d'esser di Creta e racconta le sue false avventure. — 
Sagrifìzio d'Eumèo. e cena. — Sopravvenuta una nott« 
fredda e tempestosa. Ulisse con altra finta novella ottiene 
un manto dal servo ; e questi va a coricarsi sotto una spe* 
lonca in guardia delle sue mandre. 

Ei, la riva lasciata, entrò in un' aspra 
Strada, e per gioghi e per silvestri lochi, 
Là si rivolse, dove Palla mostro 
Gli avea V inclito Eumèo, di cui fra tutti 
DTUsse i mi^lic>r servi alcun non era, 

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(V. 6-4J) LIBRO XIV. 251 

Che i beni del padron meglio guardasse. 
Trovollo assiso nella prima entrata 
D'un ampio e bello ed altamente estrutto 
Recinto a un colle solitario in cima. 
Il fabbricava Eumèo con pietre tolte 
Da una cava propinqua, e mentre lungi 
Stavasi Ulisse, e senz* alcun dal veglio 
Laerte, o da Penelope, soccorso: 
D* un' irta siepe ricingealo, e folti 
Di bruna, che spezzò, quercia scorzata 
Pali frequenti vi piantava intorno. 
Dodici v'erau dentro una appo l'altra 
Comode stalle, che cinquanta a sera 
Madri feconde ricevean ciascuna. 
I maschi dormian fuor; molto più scarsi, 
Perchè scemati dall'ingordo dente 
De' Proci, a cui mandar sempre dovea 
L'ottimo della greggia il buon custode. 
Trecento ne contava egli, e sessanta; 
E presso lor, quando volgea la notte, 
Quattro cani giacean pari a leoni. 
Che il pastor di sua mano avea nodriti. 
Calzari allor s'accomodava ai piedi. 
Di bue tagliando una ben tinta pelle. 
Mentre chi qua chi là giano i garzoni. 
Tre conducean la nera mandra, e il quarto 
Alla cittade col tributo usato 
Lo stesso Eumèo spedialo, e a que' superbi 
Cui ciascun di gli avidi ventri empiea 
Della sgozzata vìttima la carne. 
Videro Ulisse i latratori cani, 
E a lui con grida corsero: ma egli 
S'assise accorto, e il baston pose a terra. 
Pur fìero strazio alle sue stalle avanti 
Sofliria, s'Eumèo non era, il qual, veloce 
Scagliandosi dall'atrio, e la bovina 

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252 ODISSEA (V. 42-17; 

Pelle di man lasciandosi cadere, 

Sgridava i suoi mastini, e or questo or quello 

Con spesse pietre qua o là cacciava. 

Poi, rivolto al suo Re, Vecchio, gli disse, 

Poco falli non te n'andassi in pezzi, 

E il biasmo in me ne ricadesse, quasi 

Sciagure altre io non pata, io, che dolente 

Siedo, e piango un signore ai Numi eguale, 

E i pingui verri airaltrui gola allevo; 

Mentr*ei s'aggira per estranie terre 

Famelico e digiuno; ove ancor viva, 

E gli splenda del Sole il dolce lume. 

Ma tu sieguimi, o vecchio, ed al mio albergo 

Vientene, acciò, come di cibo e vino 

Sentirai sazio il naturai talento. 

La tua patria io conosca, e i mali tuoi. 

Ciò detto, gli entrò innanzi, e l'introdusse 
Nel padiglione suo. Qui di fogliosi 
Virgulti densi, sovra cui velloso 
Cuoio distese di selvaggia capra. 
Gli feo, non so qual più, se letto, o seggio. 
L'eroe gioia dell'accoglienza amica, 
E eosi favellava: Ospite, Giove 
Con tutti gli altri Dei compia i tuoi voti, 
E d'accoglienza tal largo ti paghi. 

E tu così gli rispondesti, Eumèo: 
Buon vecchio, a me non lice uno straniero » 
Fosse di te men degno, avere a scherno; 
Che gli stranieri tutti ed i mendichi 
Vengon da Giove. Poco fare io posso. 
Poco potendo far servi che stanno 
Sempre in timor sotto un novello impero: j 
Pure anco un picciol don grazia ritrova. 
Colui fraudaro del ritorno i Numi, 
Che amor sincero mi portava, e dato 
Podere avriami, e casa, e donna molto 

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(v. 78-113) LIBRO XIV. 253 

Bramata; e quanto al fin dolce signore 
A servo dà, che in suo prò sudi, e il cui 
Travaglio prosperar degnino i Dei, 
Come arridono al mio, certo ei giovato. 
Se incanutiva qui, molto m'avrebbe. 
Ma perì l'infelice. Ah perchè tutta 
D' Elena in vece non perì la stirpe 
Che di cotali eroi sciolse le membra? 
Quel prode anch'ei volger le prore armato, 
Per Tonor degli Atridi, a Troia volle. 

Detto così, la tunica si strinse 
Col ciuto, ed alle stalle in fretta mosse, 
E, tolti due dalla rinchiusa mandra 
Giovinetti porcelli, ambo gli uccise, 
Gli abbronzò, gli sparti, negli appuntati 
Spiedi gì' infisse: indi, arrostito il tutto, 
Caldo e fumante negli stessi spiedi 
Recollo, e il pose al Laerzìade innanzi, 
E di farina candida V asperse. 
Ciò fatto, e in tazza d'ellera mesciuto 
L'umor dolce dell* uva, a lui di fronte 
3'assise, e rincoroUo in questa forma: 
Su via, quel mangia, o forestier, che a servi 
Lice imbandir, di poreelletti carne: 
Quando i più grandi corpi ed i più pingui 
Li divorano i Proci,, a cui non entra 
Pietade in petto, né timor de' Numi. 
Ma non aman gli Dei 1' opre malvage, 
B il giusto ricompensano, ed il retto. 
Quelli che armati su le altrui riviere 
Scendono, e a cui tornar Giove consente 
Do' legni carchi alla natia contrada, 
Spavento ad essi ancor delle divine 
Vendette passa nel rapace spirto. 
Clerto per voce umana o per divina 
Kan della morte del mio Re contezza, 

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254 ODISSEA (v. 114-149) 

Poiché né gareggiar, come s'addice, 
Per la sua donna, né ai domini loro 
Voglionsi ricondur; ma gli altrui beni 
Senza pudore alcun struggono in pace. 
Giove dì o notte non produce, in cui 
Una vittima o due paghi li renda, 
E il più scelto licor bevono a oltraggio. 
Dovizia molta ei possedea, qual venti 
Sul continente, o in Itaca, mortali 
Non felicita insieme. Udirla vuoi? 
Dodici armenti nell'Epiro, e tanto 
Di pecorelle greggi e di maiali. 
Tanti di capre comodi serragli, 
Di domestici tutto, e di stranieri 
Pastori a guardia. In Itaca, serragli 
Di capre undici, e larghi, e nell' estremo 
Tutti della campagna, e con robusti 
Custodi, che ogni di recano ai drudi 
Qual nel vasto capril veggion più grassa 
Bestia, e più bella. Io sovra i porci veglio, 
E della mandra il fior sempre lor mando. 

Ulisse intanto senza dir parola 
Tutto in cacciar la fame era, e la sete, 
E muli ai Proci macchinava in petto. 
Rinfrancati ch'egli ebbe i fiacchi spirti, 
Euméo la tazza, entro cui ber solea, 
Colma gli porse, ed ei la prese, e questi 
Detti, brillando in core, ad Euméo volse; 
Amico, chi Tuom fu sì ricco e forte, 
Che del suo ti comprò, come racconti? 
Morto tu il dici per l'Atride. Io forse 
Conobbilo. Il Saturnio e gli altri Numi 
Sanno, s'io di lui visto alcuna posso 
Contezza darti, io, che vagai cotanto. 

Vecchio, rispose Euméo d'uomini capo, 
^ellegrin che venisse oggi il ritorno 

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(v. 150-185) LIBRO Xiv 255 

Del Rege a nunzì'ar, nò la sua donna 
Gli crederebbe, né il diletto figlio: 
Troppo usati a mentir son questi erranti, 
Che mestier han d*asilo. Un non ne giunge, 
E alla Reina mia non si presenta, 
Che false cose non favelli, o vane: 
Tutti ella accoglie con benigno aspetto, 
Cento cose domanda, e dalle ciglia 
Le cadono le lagrime: costume 
Di donna, cui morì lo sposo altrove. 
E chi m* accerta che tu ancor, buon vecchio, 
Una favola a ordir non fossi pronto. 
Dove tunica e manto altri ti desse ? 
Ma i cani, io temo, ed i veloci augelli 
Tutta dall'ossa gli staccar la cute, 
O i pesci il divoraro, e l'ossa ignude 
Giaccion sul lido nell'arena involte. 
Cosi perìo, lungo agli amici affanno 
Lasciando, ed a me piti, che, ovunque io vada 
Non impero trovar bontà sì grande. 
Non, se del padre e della madre al dolce 
Nativo albergo io riparassi. È vero 
Che rivederli ardentemente io bramo 
Nella terra natia: pur men li piango 
D'Ulisse, ond'io l'assenza ognor sospiro. 
Ospite, così appena io nomar l'oso. 
Benché lontan da me: tanto ei m'amava. 
Tal pigliava di me cura e pensiero. 
Maggior fratello, dopo ancor la cruda 
Sua dipartita, io più sovente il chiamo. 
Dunque, l'eroe riprese, al suo ritorno 
Non credi, e stai sul niego? Ed io ti giuro 
Che Ulisse riede ; né già parlo a caso. 
Ma tu la strenna del felice annunzio 
M' appresta, bella tunica, bel manto, 
Di cui mi coprirai, com'egli appaia* 

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2^6 ODISSEA (v. Ì86-221) 

Prima, sebben d'ogni sostanza scusso, 
Nulla io riceverei: che delle Inferno 
Porte al par sempre io detestai chi vinto 
Dalla sua pòvertade il falso vende. 
Chiamo il Saturnio in testimonio, chiamo 
L'ospitai mensa, e dell' egregio Ulisse 
Il venerando focolar, cui venni: 
Ciò ch'io dico, avverrà. Quest' anno istesso, 
L'un mese uscendo, o entrando l'altro, il piede 
Ei metterà nella sua reggia, e grande 
Di chiunque il figliuolo, e la pudica 
Donna gli oltraggia, prenderà vendetta. 

E tu in risposta gli dicesti, Eumèo: 
Né strenna, o vecchio, io ti darò, né Ulisse 
Metterà piti nella sua reggia il piede. 
Su via, tranquillo bevi, e ad altra cosa 
Voltiam la lingua : che mi cruccia troppo 
Di si nobil signor la rimembranza. 
Lasciam da parte i giuramenti, e Ulisse 
Tenga, qual bramiam tutti, io, la Regina, 
E l'antico Laerte, e il pari a un Nume 
Telemaco, per cui tremando io vivo. 
Questo fanciullo, che d'Ulisse nacque, 
E cui poscia, qual pianta in florid'orto, 
Crebber gli Dei, si ch'io credea che il padre 
Di senno agguaglieria, come d'aspetto, 
La dritta mente or degli Eterni alcuno 
Gli offese, io penso, o de* mortali. Ei mosse. 
L'orme paterne investigando, a Pilo, 
E agguati i Proci tendongli al ritorno. 
Perché tutto d'Arcesio il sangue manchi. 
Or né di questo più: traranlo a morte 
Forse i nemici, o forse a voto ancora 
Le insidie andranno, e la sua destra Giove 
Sul capo gli terrà. Ma tu gli affanni 
Tuoi stessi, vecchio, e il tuo destia mi narra. 

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(v. 222-257) LIBRO XIV. . ^ 257 

Chi sei tu ? Donde sei? Dove i parenti? 
Dove la tua città? Quai ti menare 
Nocchieri, e di qua! guisa, e con qual nave? 
Certo in Itaca il piò non ti condusse. 

Tutto, rispose lo scaltrito Ulisse, 
Schiettamente io dirò. Ma un anno intero, 
Che, fuori uscito a sue faccende ogni altro, 
Da noi si consumasse ad una lauta 
Nel padiglione tuo mensa tranquilla, 
Per raccontar non basteria le pene 
Di cui tessermi a Dei piacque la vita. 
Patria m' è l'ampia Creta, e mi fu padre 
Rioco uom, cui di legittima consorte 
Molti naquero in casa e crebber figli. 
Me compra donna generò, né m'ebbe 
Man per ciò de' fratelli il padre in conto 
L* Ilacide Castor, di cui mi vanto 
Sentirmi il sangue nelle vene, e a cui 
Per fortuna, dovizia e illustre prole 
Divin reildeasi dai Cretesi onore. 
Sorpreso dalla Parca, e ad Aide spinto. 
Tra Bè partirò le sostanze i figli. 
Gittate in pria le sorti, e me di scarsa 
Provigion consolare, e d'umil tetto. 
Ma donna io tolsi di gran beni in moglie, 
E a me solo il dovei ; però eh* io vile 
Non fui d'aspetto, né fugace in guerra. 
E benché nulla oggi mi resti, e gli anni 
M'opprimano, ed i guai, la messe, io credo. 
Può dalla paglia ravvisarsi ancora. 
Forza tra l'armi e ardir Marte e Minèrva 
Sempre infusero a me, quando i migliori 
Per gli agguati io scegli ea centra i nemici; 
O allor che primo, e senza mai la, morte 
Dinanzi a me veder, nelle battaglie 
Mi scagliava, e color che dal mio brando 
Odissea ^ *7, 

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258 ^ ODISSEA (v. 258-293) 

Si sottraeano, io raggiungea con Tasta. 
Tal nella guerra io fui. -Me della pace 
Non dilettavan Farti, o della casa 
Le molli cure, e della prole. Navi 
Dilettavano, e pugne, e rilucenti 
Dardi, e quadrelli acuti: amare, orrende 
Cose per molti, a me soavi e belle, 
Come vari dell' uom sono 1 desiri. 
Prima che la greca oste Ilio cercasse, 
Nove fiate io comandai sul mare 
Centra gente straniera, e la fortuna 
Così m'arrise, che tra ciò che in sorte 
Toccommi della preda, e quel ch'io stesso 
A mio senno eleggea, rapidamente 
Crebbe il mio stato, e non passò gran tempo 
Che in sommo pregio tra i Cretesi io salsi. 
Ma quando Giove quel fatai viaggio 
Prescrisse, che mandò tante alme a Pluto 
À me de' legni ondivaghi, ed al noto 
Per fama Idomenèo, diero il governo. 
Né modo v'ebbe a ricusar; si grave 
Il popolo, e si ardita, ergea la voce. 
Colà nove anni pugnavam noi Greci, 
E nel decimo al fin. Troia combusta 
Ritornavamo: e ci disperse un Nume. 
Se non che Giove una più ria ventura 
Centra me disegnò. Passato un mese 
Tra i figli cari appena, e la diletta 
Sposa, che vergin s'era a me congiunta, 
Novella brama dell'Egitto ai lidi 
Con egregi compagni, e su navigli 
Ben corredati a navigar m'indusse. 
Nove legni adornai; né a riunirsi 
Tardò l'amica gente, a cui non poche 
Pe'sagrifizi loro e pe' conviti, 
''he durare sei dì, vittime io dava. 

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<r. '294-329) libuo xiv. 259 

La settim* alba in Oriente apparsa, 

Creta lasciammo, e con un Borea in poppa 

Sincer-o e fido, agevolmente, e come 

Sovra un fiume a seconda, il mar fendemmo. 

Nave non fu nò leggermente offesa, 

E noi sicuri sedevam, bastando 

I timonieri al nostro uopo, ed il vento. 

Presa il dì quinto la bramata foce 

Del ricco di bell'onda Egitto fiume. 

Io nel fiume arrestai le veleggia nti 

Navi, e a* compagni comandai che in guardia 

De* legni rimanessero, e la terra 

Gissero alcuni ad esplorar dairalto. 

Ma questi, da un ardir folle e da un cieco 

Desio portati, a saccheggiar le belle 

Campagne degli Egizi, a via menarne 

Le donne e i figli non parlanti, i grami 

Coltivatori a uccidere. Ne giunse 

Tosto il remore alla città, né prima 

L'aurora comparì, che i cittadini 

Vennero, e pieno di cavalli e fanti 

Fu tutto il campo, e del fulgor dell* armi. 

Cotale allora il fulminante pose 

Desir di fuga de' compagni in petto. 

Che un sol far fronte non osava: uccisi 

Fur parte, e parte presi, e ad opre dure 

Sforzati; e, cfvunque rivolgeansi gli occhi. 

Un disastro apparia. Ma il Saturnide 

Nuovo consiglio m'inspirò nel core. 

Deh perchè nell'Egitto anch'io non caddi, 

Se nuovi guai m'apparecchiava il fato? 

Io l'elmo dalla testa al suol deposi. 

Dagli omeri lo scudo, e gìttati lungo 

Da me la lancia; indi ai cavalli incontro 

Corsi, e al cocchio del Re, strinsi e baciai 

Le sue ginocchia; ed ei serbommi in vita, 

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26Ó ODISSEA * (v. 330-365) 

Compunto di pietà, me che piagnea, 
Levò nel cocchio, e al suo palagio addusse. 
È ver che gli altri m'assalian con l'aste 
Di rabbia accesi, e mi voleano estinto. 
Ma il Re lontani e con cenni e con voci 
Teneali per timor dell* ospitale 
Giove, che i supplicanti, a cui mercede 
Dairuom non s'usi, vendicar suol sempre. 
Sett' anni io colà vissi, e assai tesori 
Raccolsi: doni mi porgea chiunque. 
Poi, volgendo l'ottavo anno, un Fenice 
Comparve, uom fraudolento, e di menzogne 
Gran fiibbro, che già molti avea tradito. 
Nella Fenicia a seguitarlo, dove 
Casa e poderi avea costui piegommi ; 
E seco io dimorai di sole un giro. 
Ma, rivolto già Tanno e le stagioni 
Tornate in sé col trapassar de*mesi. 
Ed il cerchio dei di lunghi compiuto, 
Far vela volle per la Libia, e fìnse 
Non poter senza me carcar la nave. 
Che nave? in Libia vendermi a gran prezzo 
Pensava il tristo. Io che potea? Costretto, 
Di nuovo il seguitai ; benché del vero 
Mi trascorresse per la mente un lampo. 
Su Creta sorse il rapido naviglio. 
Che un gagliardo Aquilon feriva in poppa, 
Mentre gli ordìa l'ultimo eccidio Giove. 
Già né più Creta si vedea, né altra 
Terra, ma cielo in ogni parte, o mare, 
Quando il Fulminator sul nostro capo 
Sospese d*alto una cerulea nube. 
Sotto a cui tutte intenebrarsi l'acque. 
Tonò piti volte, o al fin lanciò il suo telo 
Centra la nave, che del fiero colpo 
Si contorse,> s'empieo di zolfo, e tutti 

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I 



(v. 366-401) LIBRO stiv. 261 

Ne cadettero giù. Quai corvi, intorno 
Le s'aggiravan su per Tonde, e Giove 
Lor togliea con la Patria anco la vita. 
Salvò me solo nel mortai periglio: 
Che alle mani venir mi fece il lungo 
Albero della nave, a cui m'attenni, 
£ cosi mi lasciai su i tempestosi 
Flutti portar per nove giorni ai venti: 
Finché la notte decima mi spinse 
De'Tesproti alla terra il negro fiotto. 
Qui de'Tesproti il Sir, Teroe Fidone, 
Generoso m'accolse. A sorte il figlio 
Sul lido mi trovò tutto tremante 
Di freddo, e omai dalla fatica vinto, ' 

E con man sollevatomi, del padre 
Al real tetto mi condusse, e pormi 
Tunica e manto si compiacque in dosso. 
Quivi io d'Ulisse udii. Diceami il Rege, 
Ch'ei l'accolse, e il trattò cortesemente 
Nel suo ritorno alle natie contrade; 
E il rame e l'or mostravami, ed il ferro, 
E quanto al fin di prezioso e bello 
Ulisse avea raccolto, e nella reggia 
Deposto: forza, che per dieci etadi 
. Padri e figliuoli a sostener bastava. 
E aggiungea, che a Dodona era passato, 
Per Giove consultare, e udir dall'alta 
Quercia indovina, se ridursi ai dolci 
Colli d'Itaca sua dopo sì lunga 
Stagion dovea palesemente, o ignoto. 
Poi, libando, giurò ch'era nel mare 
Tratta la nave, e i remiganti pronti. 
Per rimenarlo in Itaca. Ma prima 
Me stesso accommiatò: che per ventura 
Al ferace Dulichio un legno andava 
Di nocchieri Tesproti. Al rege Acasto 

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262 ^ ODISSEA (r. 402-437) 

Costor dovean raccomandarmi,^ e in vece 
Un consiglio tessean, perch' io cadessi 
Novamente ne' guai. Come lontano 
Da terra fu Tondivagante legno, 
Il negro m'appari giorno servile. 
Tunica e manto mi spogliare, e questi 
In dosso mi gettar laceri panni, 
E, venuti all'amena Itaca a notte. 
Me nella nave con ben torta e salda 
Fune legaro. Indi n'uscirò, e cena 
Frettolosa del mar presero in riva. 
Ma un Nume ruppe i miei legami ; ed io 
Giù sdrucciolai pel timon liscio, al mare 
Mi consegnai col petto, e ad ambe mani 
Notando remigai si, che in brev'ora 
Fuor di lor vista io fui. Giunsi, ove bella 
Sorgea di querce una foresta, e giacqui. 
Quei, di me con dolore in traccia mossi. 
Né credendo cercarne invan più oltre, 
Si rimbarcare ; e me gì* Iddii, che ascoso 
Facilmente m'avean, d'un uom saputo 
Guidar benigni al pastoreccio albergo, 
Poiché in vita il destin mi vuole ancora. 
E tal fu a lui la tua «risposta, Eumèo : 
degli ospiti misero, tu l'alma 
Mi commovesti addentro, i tuoi viaggi 
Narrando, e i mali tuoi. Sol ciò non lodo , 
Che d'Ulisse dicesti e non tei credo, 
Perché, degno uom qual sei, mentire indarno ? 
So anch'io pur troppo, qnal del suo ritorno 
Speme nodrir si possa, e l'infinito, 
Che gli portano i Numi, odio io conosco. 
Quindi éi non cadde combattendo, a Troia, 
Q degli amici in sen dopo la guerra. 
Sepolto avrianlo nobilmente i Greci, 
E dalla tomba sua verria un rilampo 

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^v. 438-473) LIBRO XIV. 263 

J)ì gloria al suo figliuol: m^ inonorato 
Le Arpie crudeli sei rapirò in yecB. 
Tale io ne provo duol, .che appo la mandra 
Vivomi occulto, ed a città non vado, 
Se non quando Penelope, comparso- 
Da qualche banda con novelle alcuno,. 
Chiamami a sé per caso. Allora stanno . 
Tutti dintorno allo straniero, e mille 
Gli fan domande ; cosi quei che doglia 
Dell'assenza del Re sentono in petto, 
Come color, che gioia, e le sostanze 
Ne distruggon ,frattanto in tutta pace. 
Ma io domande far dal dì non amo. 
Che mi deluse un vagabondo Etòlo, 
Reo d'omicidio, che al mio tetto giunse. 
Molto io Taccarezzava ; ed ei mi disse. 
Che presso Idomeneo nell'ampia Créta 
Veduto avealo risarcir le navi 
Dalla procella sconquassate, e aggiunse 
Che Testate- o Tautunno al suo paese 
Capiteria ben compagnato e ricco. 
Or non volermi tu, vecchio infelice, 
Con falsi detti, poiché un Dio t'addusse, 
Molcere o lusingar ; che non per questo 
Ben trattato sarai, ma perchè temo 
L'ospitai Giove, e che ho di te pietade. 

Un incredulo cor, rispose Ulisse, 
Tu chiudi in te, quando a prestarmi fede 
Né co' miei giuramenti indur ti posso. 
Su via> fermisi un patto, e testimoni 
Ne sian dall' alto gl'immortali Dei. 
Riederà il tuo signar, com'io predissi ? 
Tunica e manto vestimi, e a Dulichio 
Mi manda, ov'io da molti giorni ir bramo 
Ma s'ei non torna, eccita i servi, e getta 
Me capovolto da un'eccelsa rupe, 

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264 ODISSEA (v. 474-500) 

Si che piti non ti beffi alcun mendieo. 

Gran merto in vero, e memorabii nome. 
Il pastor ripigliò, m'acquisterei 
Appo la nostra e la ventura etade, 
Se, ricevuto avendoti e trattato 
Ospitalmente, io t'uccidessi, e fuori 
Ti traessi dal sen l'anima cara? 
Come franco io potrei preghiere a Giove 
Porgere allora! Or della cena è il tempo. 
I miei compagni entreran tosto, e lauta 
S'appresterà nel padiglion la mensa. 

Cosi tra lor diceano; ed ecco il nero 
Gregge, e i garzoni che ne' suoi serragli 
Metteanlo: immenso delle pingui troie, 
Che andavansi a corcar, sorse il grugnito. 
Ratto ai compagni favellava Euméo: 
L'ottimo a me de'porci, affinchè muoia 
Pel venuto di lungi ospite, e un tratto 
Noi pur festa facciam, noi, che soffriamo 
Per questo armento dalle bianche sanne. 
Mentre in riposo e in gioia altri le nostre 
Fatiche si divorano, e gli affanni. 

Detto cosi, con affilata scura 
Quercia secca recise ; e quelli un grasso 
D'anni cinque d'età porco menaro, 
E al focolare il collocar davanti. 
Né de' Celesti Eumèo, che molto senno 
Nutriva in sé, dimenticossi. I peli 
Dal capo svelti del grugnante, in mezzo 
Gittolli al foco, e innalzò voti ai numi 
Pel ritorno d'Ulisse. Indi un troncone 
Della quercia, ch'ei fésse, alto levando, 
Percosse, e senza vita a terra stese 
La vittima. I garzoni ad ammazzarla, 
Ad abbronzarla e a farla in pezzi; ed egli 
I crudi brani da ogni membro tolti, 

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V. 610-546) LIBRO XIV. 265 

.^arte metteali su Tomento, e parte 
7ìì farina bianchissima cospersi 
I^onsamaTali al foco, lì resto tutto 
Poi sminuzzare; e Tabbrostiro infisso 
C^on modo acconcio negli spiedi, e al fine 
Dagli spiedi cavato in su la mensa 
Poserlo. Euméo, che sapea il giusto e il retto 
Sarse, e il tutto divise in sette parti : 
Dffrì runa alle ninfe, ed al figliuolo 
Di Maia, e Taltre a ciascun porse in giro. 
Ma dell'intera del sannuto schiena 
Solo Ulisse onorava, e gaudio in petto 
Spandea del Sire, che diceagU: Bumèo, 
Cosi tu possi caro al padre Giove 
Viver, qual vivi, a me, poiché si grande 
Nello stato, in ch'io son, mi rendi onore. 

E tu dicesti, rispondendo, Euméo: 
O preclaro degli ospiti, ti ciba 
E di quel godi, che imbandirti io valgo. 
Concede, o niega, il correttor del mondo, 
Come gli aggrada più : che tutto ei puote. 

Ciò detto, ai Numi le primizie offeinse; 
E, libato ch'egli ebbe, in man d'Ulisse 
Che al suo loco sedea, pose la tazza. 
Mesaulio, eh' ei del proprio, e noi sapendo 
Kè la Regina, né Laerte, avea, 
Mentre lungi era il Sir, compro dal Tafl 
Il pane dispensò. Stendeano ai cibi 
La mano: e paga del mangiar la voglia^ 
Paga quella del ber, Mesaulio il pane 
Raccolse, e gli altri a dar le membra al sonno 
Ristorati affrettavansi e satolli. 
Fosca sorvenàe e disxistrosa notte; 
Giove piovea senza intervallo, e fiero 
Di Ponente spirava un vento acquoso. 
Ulisse allor, poidiò vedeansi tanto 

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266 ODISSÈA. (v. 546-581) 

Carezzato da Eiunèo, tentare il volle, 
Se gli prestasse il proprio manto , o almeno 
Quel d*alcun de* compagni aver gli fesse. 
Eumèo, disse' egli, ascoltami, e i compagni 
M*ascoltin tutti. Io millantarmi alquanto 
Voglio qual mi comanda il folle vino, 
Che talvolta i più saggi a cantar mosse 
Più là d'ogni misura, a mollemente 
Rider, spiccar salti improvvisi, ed anche 
Quello a parlar, ch*era tacere il meglio. 
Ma dacché un tratto a cicalare io presi, 
Nulla io terrò nel petto. Oh di quel fiore 
Fossi, e tornassi iu quelle forze, ch'io 
Sentiami al tfimpo che sott'Ilio agguati 
..Tendemmo, Ulisse, ed il secondo Atride, 
E, cosi ad essi piacque, io terzo ducei 
Tosto che alla cittade, e all' alte mura 
Vicini fummo, tra i virgulti densi, 
E nelle canne paludose a terra 
Giace vam sotto l'armi. Impronta notte 
Ci Hssalse: un crudo Tramontan soffiava, 
Scendea la neve, qual gelata brina, 
E gli scudi incrostava il ghiaccio. Gli altri, 
Che manti aveano e tuniche, tranquilli 
Tormian poggiando alle lor targhe il dosso. 
Ma io, partendo dai compagni, il manto 
Nella stoltezza mia lasciai tra loro, 
Non isperando un sì pungente verno ; 
E una tunica^ un cingolo e uno scudo 
Meco sol tolsi. Della notte il terzo 
Era» e gli astri cadevano, e ad Ulisse, 
Che mi giacca da presso, io tai parole 
Frugandolo del gomito, rivolsi: 
Illustre e scaltro di Laerte figlio, 
Così mi doma il gel, ch'io più tra i vivi 
Non rimarrò. Mi falla un manto. Un Dio, 

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V. 582-617) LIBRO XIV. 267 

Zhe mi deluse, di vestirmi solo 
La tunica inspirommi. Or quale scampo? 
Ei, le parole udite, un suo partito 
Scelse di botto, come quei che meno 
Ai consigli non fu, che all'armi, pronto. 
Taci, rispose con sommessa voce, 
Che alcun Greco non t'oda. E poi, del braccio 
Facendo, e della man sostegno al mento. 
Amici, disse, un sogno, un divin sogno, 
Dormendo m'avvertì, che dilungati 
Troppo ci siam dalle veloci navi. 
Quindi al pastor di genti Agamennone 
Corra un di noi, perchè, se ben gli sembra, 
Ne mandi altri guerrieri, e ne rinforzi. 

Disse, e Toante, d'Andremòne il figlio, 
Sorse, e corse al navil, deposto prima 
Il purpureo suo manto ; ed io con gioia 
Men cìnsi, e vi stetti entro, in sin che apparve 
Sul trono d'or la ditirosea Aurora. 
Se quei fior, quelle forze io non piangessi, 
Me forse alcun de'tuoi compagni, Eumèo 
Per riverenza e amòre ad un buon vecchio, 
Di manto fornirla : ma or, veggendo 
Questi miei cenci, ciascun tiemmi a vile. 
Tu così, Eumeo, gli rispondesti allora: 
Bella fu, amico la tua storia, e un motto 
Non t'uscì delle labbra o sconcio o vano. 
Però di veste, o d'altro, che. infelice 
Morta supplicante uomo, in questa notte 
Difetto non avrai. Ma, nato il Sole, 
T'adatterai gli usati panni intorno. 
Poche son qui le cappe, e a suo piacere 
Di tunica non puote alcun mutarsi-: 
Star dee contento ad una sola ognuno. 
Come giunto sarà d'Ulisse il figlio, 
Ei di vestirti e di mandarti, dove ^ , 

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268 , ODISSEA (v. 618.630. 

Ti consiglia il tuo cor, pensier d arassi. 
S'alzò, così dicendo, e presso al foco 
Poneagli il letto, e di montoni e capre 
Pelli stendeavi, in che l'eroe sdraiossi; 
E d'un largo il coprì suo denso manto, 
Ch'egli a sé stesso circondar solca, 
Quando turbava il ciel fiera tempesta. 
Cosi là giacque Ulisse; e accanto a lui 
Si corcaro i garzoni: ma corcarsi 
Disgiunto da' suoi verri Eumèo non volle. 
Fuori uscito ei s'armava; e Ulisse in core 
Gioia mirando lui del suo Re tanto 
Curare i beni, benché lungi il creda. 
Prima ei sospese agli omeri gagliardi 
L'acuta spada: indi a sé intorno un folto 
Manto gittò, che il difendea dal vento; 
Tolse una pelle di corputa e grassa 
Capra; e un pungente dardo in man recossi, 
Degli uomini spavento e de' mastini. 
Tale s'andò a corcar, dove protetti 
Dal soffio d'Aquilone i setolosi 
Verri dormìan sotto una cava rupe. 



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LIBRO DECIMOQUINTO 



ARGOMENTO 

Minerva appare di notte a Telemaco, e il conforta di tornare 
in Itaca. — £i si congeda da Menelao, e parte col figliuolo 
di Nestore. — Giunto a Pilo, si rimbarca, senza rientrare 
nella città; e accoglie nella sua nave un indovino d'Argo, 
chiamato Teoclimèno, che fu costretto lasciar la patria per 
omicidio. — Frattanto colloqui tra Ulisse ed Eumèo; il 
quale, non riconoscendolo ancora « gli narra, come da cor- 
sari Fenici rapito fu, mentr'era fanciullo, dall'isola Siria, 
e venduto a Laerte. — Telemaco, arrivato salvo alle ispiagge 
d'Itaca, manda alla città la nave, e va tutto solo alla casa 
d'Euraèo, di cui conosce la fedeltà. 



Neirampia Lacedemone Minerva 
Entrava .intanto ad ammonir d*Ulisso 
L'inclita prole, che di far ritorno 
Alle patrie contrade era già tempo. 
TrovoUo che giacea di Menelao 
Nell'atrio con Pisistrato. Ingombrava 
Un molle sonno di Nestorre il figlio: 
Ma rUlissì'de, cui l'incerta sorte 
Del caro padre fieramente turba, 
Pensavano ad ognora, e invan per lui 
D'alto i balsami suoi spargea la notte. 

La Dea, che azzurri gli occhi in giro muove, 
Appressoilo, e, Telemaco, gli disse. 
Non fa per te di rimanerti ancora 



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270 ODISSEA {v. 15-50) 

D'Itaca fuori, e lungi dall'altera 

Turba inalnata degli arditi Proci, 

Che, divisa tra lor la tua sostanza, 

Divorinsi al fin tutto, e, non che vano. 

Dannoso a te questo viaggio torni. 

Levati, e pressa il valoroso Atride 

Di congedarti, onde nel tuo palagio 

Trovi la madre tua, che Icario il padre 

Co* fratelli oggimai sforza alla mano 

D' Eurimaco, il qual cresce i maritali 

Doni, e ogni suo rivai d'ambito vince. 

Guarda, non del palagio a tuo dispetto 

Parte de' beni con la madre t'esca: 

Però che sai, quaì cor s'abbia ogni donna. 

Ingrandir brama del secondo sposo 

La nostra casa; e de'suoi primi figli, 

E di colui che vergine impalmolla, 

Non si rammenta più, più non ricerca. 

Quando ei nel buio della tomba giace. 

Tu, partita la madre, a quale ancella 

Più dabbene ti sembri, e più sentita, 

Commetti il tutto, finché illustre sposa 

Ti presentino al guardo i Dei clementi. 

Altro dirotti, e il riporrai nel core. 

Degli amanti i più rei, che tor dal mondo 

Prinfa vorrianti, che alla Patria arrivi. 

Nel mar tra la pietrosa Itaca e Same 

Stanno in agguato. Io crederò che indarno, 

E che la terra pria l'ossa spolpate 

De' tuoi nemici chiuderà nel seno. 

Non pertanto la nave indi lontana 

Tieni, e notturno naviga; un amico 

Vento t'invìerà quel tra gli Eterni, 

Chiunque sia, che ti difende e guarda, 

Come d' Itaca giunto alla più estrema 

Riva sarai, lascia ir la nave, e tutti 

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V. 51-86) LIBRO XV. 271 

A.lla città i compagni ; e tu il custode 
Cerca de' verri, che un gran ben ti vuole. 
Seco passa la notte, ed in su Ta.lba 
Mandai significando alla Regina, 
Che a lei da Pilo ritornasti illeso. 
Ciò detto, in un balen salse airOlimpo. 

Egli Tamico dal suo dolce sonno, 
Urtandolo del pie, subito scosse, 
E gli drizzò queste parole: Sorgi, 
Pisistrato, ed al cocchio i corridori 
Solido unghiati sottoponi, e accoppia, 
Se anche il viaggio nostro aver dee fine. 

Telemaco, il Nestòride rispose. 
Benché ci tardi di partir, non lice 
Dell'atra notte carreggiar per Tombre. 
Poco l'Aurora tarderà. Sostieni 
Tanto almen, che il di lancia esperto Atride 
Ponga nel cocchio gli ospitali doni, 
E gentilmente ti licenzi. Eterna 
L'ospite rimembranza in petto serba 
Di chi un bel pegno d'amistà gli porse. 
Disse; e nel trono d*6r l'Aurora apparve. 

Il prode Menelao di letto allora 
Sorto, e d'allato della bella Elèria, 
Venne alla volta lor; né prima il caro 
Figliuol d'Ulisse l'avvisò, che in fretta 
Della lucente tunica le membra 
Cinse, e gittò il gran manto a sé d'intorno, 
Ed uscì fuori, e ì'abborilò, e gli disse: 
Figlio d'Atrèo, di Giove alunno, duce 
Di genti, me rimanda oggi al diletto 
Nativo ciel, cui già con l'alma io volo. 

Telemaco, rispose il forte Atride, 
Io ritenerti qui lunga stagione 
Non voglio a tuo mal cuore. Odio chi suole 
Gli ospiti suoi festeggiar troppo, o troppo 

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272 ODISSEA (V. 87-122) 

Spregiarli: il meglio sempre è star nel mezzo. 
Certo peccau del par chi discortese 
L'ospite caccia di restar bramoso, 
E chi bramoso di partir Tarresta. 
Carezzalo indugiante, e quando scorgi 
Che levarsi desia, dagli commiato. 
Tanto dimora sol, ch'io non vulgari 
Doni nel cocchio, te presente, ponga: 
E comandi alle femmine che un pronto 
Conforto largo di serbate dapi 
T'apprestin nella sala, È glorioso 
Del par che utile a te dell'infinita 
Terra su i campi non passar digiuno. 
Vuoi tu aggirarti per la Grecia, e l'Argo? 
Giungerò i miei destrieri, e alle diversa 
Città ti condurrò: treppiede, o conca 
Di bronzo, o due bene appaiati muli, 
vaga d'oro effigiata tazza. 
Ci donerà ciascuno, e senza doni 
Cittade non sarà che ci accommiati. 

Telemaco a rincontro; Menelao, 
Di Giove alunno, condottier di genti, 
Nel mio palagio, ove nessun che il guardi, 
Partendone, io lasciai, rieder mi giova. 
Acciocché, mentre il padre indarno io cerco, 
Tutti io non perda i suoi tesori e miei. 

Udito questo, ad Elena e alle fanti 
L'Atride comandò, s'apparecchiasse 
Subita e lauta mensa. Eteonèo, 
Che poco lungi dal suo Re dormia. 
Sorto appena di letto, a lui sen venne; 
E il foco suscitar, cuocer le carni. 
Gì' impose Menelao: né ad ubbidirgli 
Tardò un istante di Boote il figlio. 
Nell'odorata solitaria stanza 
Menelao incese, e non già sol: che seco 

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(Y. 123458) , LIBRO XV. 273 

Scesero Elèna e Megapente. Giunti 
Là, 've la rioca suppellettil giace, 
Tolse TAtride biondo una ritonda 
Gemina coppa, e di levare un' urna 
D'argento al figlio Megapente ingiunse. 
Ma la donna fermossi all'arche innanzi 
Ove i pepli giacean, che da lei stessa 
Travagliati già furo, e variati 
Con ogni sorta d'artifìcio Elèna 
Il più ampio traeane, ed il più bello 
Per moltiplici fregi: era nel fondo 
Dell'arca, e sì rilusse in quel che alzollo, 
Che stella parve che dai flutti emerga. 
Con tai doni le stanze attraversare, 
Finché furo a Telemaco davante. 
Cui questi accenti Menelao converse: 
Fortunato così, come tu il brami, 
Ti consenta, o Telemaco, il ritorno 
L'altitonante di Giunon marito. 
Io di quel, che possiedo, a te dar voglio 
Ciò che mi sembra più leggiadro e raro: 
Un'urna effigiata, argento tutta, 
Se non quanto su i labbri oro gialleggia, 
Di Vulcano fattura. Il generoso 
Re di Sidone, Fèdimo, donolla 
A me, che d'Ilio ritornava, e cui 
Ricettò ne' suoi tetti; e a te io la dono. 
L'Atride in mano gli mettea la tonda 
Gemina coppa: Megapente ai piedi 
Gli recò l'urna sfolgorante; e poi 
Elena, bella guancia, a lui di centra 
Stette col peplo su le braccia, e disse: 
Ricevi anco da me, figlio diletto. 
Quest'altro dono, e per memoria tenlo 
Delle mani d' Elèna. Alla tua sposa 
Nel sospirato dì delle sue nozze 

Odissea _ ift 

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274 ODISSEA - (v. 159-194) 

Le membra coprirà. Rimanga intanto 
Della prudente genitrice in guardia; 
E tu alla patria terra, e alle superbe 
Case de* padri tuoi, giungi felice. 
Ei con gioia sei prese; e i doni tutti. 
Poiché ammirata la materia e l'arte 
N'ebbe, allogò Pisistrato nel carro. 
Quindi TAtride dalla bionda testa 
Ambi condusse nella reggia, dove 
Sovra i troni sedettero. L* ancella 
Subitamente da bel vaso d'oro 
Nell'argenteo bacile acqua lucente 
Spandea, stendea desco polito, in cui 
La veneranda dispensiera i bianchi 
Pani venne ad imporre, e non già poche 
Delle dapi serbate, ond'è custode. 
Eteonèo partia le carni, e il vino 
Megapente versava; e i due stranieri 
La mano all'uno e all'altro ivan porgendo. 
Ma come sazi della mensa furo. 
Aggiogare i cavalli, e la vergata 
Biga pronti salirò, e l'agitare 
Fuor dell'atrio e del portico sonante. 
Usci con essi Menelao, spumosa. 
Perchè libasser pria, ciotola d'oro 
Nella destra tenendo, e de' cavalli 
Fermossi a fronte, e, propinando, disse: 
Salute, prodi giovanetti, a voi 
Ed al pastor de' popoli salute 
Per vostra bocca, a Nestore, che fummi 
Dolce, qual padre sotto i Teucri muri, 
s Ed il saggio Telemaco a rincontro: 
Tutto, non dubitar, di Giove alunno, 
Saprà il buon vecchio. Oh potess'io non manco, 
Tosto eh' io sarò in Itaca, ad Ulisse 
Mostrare i tanti e cosi ricchi doni 

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(v. 195-230) LIBRO XV. 275 

Ch'io da te ricevetti, e raccontargli, 
Quale accoglienza io n* ebbi e qual commiato ! 

Tal favellava; e a lui di sopra e a destra 
Un'aquila volò, che bianca e grande. 
Domestica oca con gli adunchi artigli 
Dalla corte rapia. Dietro gridando 
Uomini e donne le correan: ma quella 
S accostò^ pur da destra, ai due garzoni, 
E davanti ai destrier rivolò in alto. 
Tutti gioirò a cotal vista, e primo 
Fu Pisistrato a dir: Nobile Atride, 
Pensa in te stesso, se a te forse, o a noi 
Tal prodigio inviare i Sempiterni. 

Ei la risposta entro da sé cercava, 
Ma l'antivenne la divina Elèna, 
Dicendo, udite me. Quel ch'io indovino, 
Certo avverrà: che me l'inspira un Nume. 
Come questa volante aquila scesa 
Dal natio monte, che i suoi parti guarda. 
Si rapi l'oca nel cortil nodrita. 
Non altrimenti Ulisse, alle paterne 
Case venuto da lontani lidi. 
Su i Proci piomberà; se par non venne, 
E lor non apparecchia orrida morte. 

E Telemaco allor: Cosi ciò voglia 
L'altitonante di Giunon marito, 
Come voti da me tu avrai, qual Diva! 
Disse, e i destrieri flagellò, che ratti 
Mosser per la cittade, e ai campi uscirò. 
Correan l'intero di, squassando il giogo. 
Che ad ambi stava sul robusto collo. 
Tramontò il Sole, ed imbrunian le strade; 
E i due giovani a Fera, e alla magione 
Di Diòcle arrivar, del prode figlio 
D'Orsiloco d'Alfèo, dove riposi 
Ebber tranquilli, ed ospitali doni. 

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276 ' ODISSEA (v. 231-266) 

Ma come al Sole con le man rosate 
L'Aurora aperse le celesti porte, 
I cavalli aggiogare, e risalirò 
La vergolata biga, e l'agitare 
Fuor dell'atrio e del portico sonante. 
Sferzò i destrier Pisistrato, è i destrieri 
Di buon grado volavano: né molto 
Stetter di Pilo ad apparir le torri. 

Allor cosi Telemaco si volse 
Al figliuol di Nestorre: di Nestorre 
Figlino!, non desti a me fede, che sempre 
Ciò tu faresti, che mi fosse gioia? 
Paterni ospiti Siam, siam d'un' etade, 
E più ancor ci unirà questo viaggio, 
Non mi guidare oltra il naviglio mio, 
Colà mi lascia: ritenermi il vecchio 
Mal mio grado appo sé, di carezzarmi 
Desioso, potrebbe; e a me bisogna 
Tocca. 3 in breve la natia contrada. 
, Mentre cosi Tun favellava all'altro. 
Che d'attener la sua promessa i modi 
Discorrea con la mente, in questo parve 
Dover fermarsi. ìlipiegò i destrieri 
Verso il mare e il naviglio; e i bei presenti 
Onde ornato il compagno avea l'Atride, 
Scaricò su la poppa. Indi, su via. 
Monta, disse, di fretta, e a' tuoi comanda 
Pria la nave salir, che me il mio tetto 
Riceva, e il tutto al genitore io narri. 
So, qual chiuda nel petto alma sdegnosa: 
Ti negherà il congedo, in su la riva * 
Verrà egli stesso, e benché senza doni 
Da lui, cred* io, tu non partissi, un forte 
Della collera sua scoppio io preveggo. 

Dette tai cose, alla città de' Pili 
Spinse i destrieri dal leggiadro crine, 

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(V. 267-302) LIBRO XV. 277 

E all'eccelsa magion rapido giunse. 

E Telemaco a* suoi; Pronti la nave 
Compagni, armate, e su montiamvi, e andiamo. 
L'ascoltaro e ubbidirò. Immantinente 
Montava, e s'assidea ciascun su i banchi. 
Ei, la partenza accelerando, a Palla 
Prieghi alla poppa, e sagrifìci offria; 
Quando esul dalla verde Argo ferace 
Per non voluta uccisione ignoto 
Viandante appressoUo: era indorino, 
E di Melampo dalla stirpe sceso. 
Nella madre di greggi inclita Pilo 
Melampo prima soggiornava, e come 
Ricco uom, superbo vi abitava ostello: 
Poi fuggendo la Patria, ed il più illustre 
Tra gli uomini Nelèo, che i suoi tesori 
Un anno intiero riteneagli a forza. 
Capitò ad altre genti, e duri lacci 
Nell'albergo di Filaco, e dolori 
Gravi sostenne per la vaga figlia 
Di Neleo, e per l'audace opra, cui messa 
Gli avea nel capo la tremenda Erinni. 
Ma scampò dalla morte, e a Pilo addusse 
Le contrastate altomugghianti vacche, 
Si vendicò dell* infedel Nelèo, 
E consorte al fratel la vaga Pero 
Da Filace menò. Quindi all'altrice 
Di, nobili destrieri Argo sen venne, 
Volendo il fato che su i molti Argivi 
Regnasse; sposa quivi scelse; al cielo 
Levò le pietre della sua dimora; 
E i forti generò Mantio e Antifàte. 
Di questo il grande Oiclèo nacque, e d'Oiclèo 
Il salvator di genti Anfiarao, • 
Cui tanto amor Febo portava, e Giove. 
Pur di vecchiezza non toccò la soglia: 

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278 ODISSEA (v. 303-338) 

Che, generati Anfiloco e Alcmeóne, 

Sotto Tebe perì dalla più avara 

Donna tradito. Ma da Matìtio al giorno 

Olito uscirò e Polifìde. L'aurora, 

Per la beltà che in Olito alta splendea, 

Rapillo, e il collocò tra gì' immortali; 

E Febo, spento Anfiarao, concesse 

Più, che ad altr* uom, de* vaticini il dono 

A Polifìde, il qual crucciato al padre. 

Trapassò in Iperesia, ove a ciascuno 

Del futuro squarciar solca il velame. 

Figlio a questo era il pellegrin che stette 
Di Telemaco al fianco, e si chiamava 
Teoclimèno: appo la negra nave, 
Mentr* ei libava e supplicava, il colse, 
E a lui con voci alate; Amico, disse. 
Poi ch'io ti trovo a questi uffici intento, 
Pe'sagrifizi tuoi, pel Dio cui gli offri. 
Per lo tuo capo stesso, e per cotesti 
Compagni tuoi, non mi nasconder nulla 
Di quanto io chiederò. Chi e donde sei? 
Dove i parenti a te? la Patria dove? 

Stranier, così Telemaco rispose, 
Su i labbri miei non sonerà che il vero. 
Itaca è la mia Patria, il padre è Ulisse, 
Se un padre ho ancor: quel, di cui forte io temo. 
Però con negra nave e gente fida 
Partii, cercando per diversi lochi 
Novelle di quel misero, cui lunge 
Tien dalla Patria sua gran tempo il fato. 

E il pari ai Dei Teoclimèno: Anch'io 
Lungi erro dalla mia, dacché v'uccisi 
Uom dalla mia tribù, che lasciò molti 
Parenti e amici prepossenti in Argo. 
Delle lor man vendicatrici uscito. 
Fuggo, e sieguo il destin che Tarapia terra 

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(v. 339-374) LIBRO xv. ^ 279 

Con pie ramingo a calpestar mi traggo. 
Deh su la nave tua me supplicante 
Ricovra, e da color che vengon forse 
Su i miei vestigi, tu che il puoi, mi salva. 

Il prudente Telemaco di nuovo: 
Dalla mia nave, in cui salir tu brami. 
Esser non potrà mai ch'io ti respinga. 
Seguimi pur: non maneheranti in nave 
Quei, che di darti è in me, doni ospitali. 

Ciò detto. Tasta dalla man gli prese, 
E della nave stesela sul palco. 
Poscia montovvi,e sedò in poppa, e al fianco 
Seder si feo Teoclimèno. Sciolte 
Dai compagni le funi, ei loro impose 
Di correre agli attrezzi, ed i compagni 
Ratti ubbidirò: il grosso abete in alto 
Drizzare, e Timpiantaro entro la cava 
Base, di corda Tannodaro al piede, 
E le candide vele in su tirare 
Con bene attorti cuoi. La Dea che in giro 
Pupille tinte d'azzurrino muove, 
Precipite mandò dal cielo un vento 
Destro, gagliardo, perchè in brevi istanti 
Misurasse del mar Tonde il naviglio. 
Crune passò il buon legno, e la di belle 
Acque irrigata Calcide, che il Sole 
Già tramontava, ed imbrunian le strade; 
E, spinto sempre da quel vento amico. 
Cui governava un Dio, sopra Fea sorse; 
E di là costeggiò TElide, dove 
Regnan gli Epèi. Quinci il figliuol d'Ulisse 
Tra le scoscese Echinadi si mise. 
Pur rivolgendo nel suo cor, se i lacci 
Schiverebbe de* Proci, o vi cadrebbe. 

Ma in altra parte Ulisse e il buon custode 
Sedean sott'esso il padiglione a cena, 

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280 ODISSEA (v. 375-410) 

E non lunge sedean gli altri pastori. 
Pago de* cibi il naturai talento, 
Ulisse favellò, tentando Eumèo, 
S'ei, non cessando dalle cure amiche. 
Ritenerlo appo sé nella sua cara 
Stalla intendesse, o alla città mandarlo. 
Eumèo, disse, m'ascolta; e voi pur tutti. 
Tosto che il ciel s'inalbi, alla cittade, 
Ond'io te non consumi, ed i compagni. 
Condurmi io voglio a mendicar la vita. 
Ma tu d'utili avvisi, e d'una scorta 
/ Fidata mi provedi. Andrò vagando 
Di porta in porta, e ricercando, come 
Sforzami rea necessità, chi un pane 
Mi porga, ed una ciotola. D'Ulisse 
Mi farò ai tetti, e alla sua donna saggia 
Novelle recheronne, e avvolgerommi 
Tra i Proci alteri, che lasciarmi forse 
Nella lor copia non vorran digiuno. 
Io, che che piaccia lor, subito e bene, 
Eseguirò; poiché, saper t'è d'uopo 
Che per favor del messagger Ermete, 
Da cui grazia ed onore acquista ogni opra, 
Tal son, che ne* servigi, o il foco sparso 
Raccor convenga, o le risecche legna 
Pendere, o cuocer le tagliate carni, 
il vin d'alto versare, uffici tutti J 

Che i minori prestar sogliono ai grandi, j 

Me nessun vince su l'immensa terra. | 

Sdegnato assai gli rispondette, Euméo; j 

Ahi! qual pensier ti cadde, ospite, incapo? 1 
Brami perir, se raggirarti pensi j 

Tra i Proci, la cui folle oltracotanza | 

Sale del ciel sino alla ferrea volta. 
Credi a te somigliare i lor donzelli? 
Giovani in belle vestimenta, ed unti 

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V. 411-446) LIBRO XV. 281 

La chioma sempre, e la leggiadra faccia, 
Ministrano ai superbi; e sempre cardie 
Delle carni, de' pani e de* licori 
Splendono agli occhi le polite mense. 
Elimani: che né a me, nò de* compagni 
jrave al alcun la tua presenza torna. 
Ma come giunto sia d*Ulisse il figlio. 
Da lui tunica e manto, e da lui scorta 
Riceverai, dove che andar t'aggradi. 

Eumèo, rispose il paziente Ulisse, 
Possa Giove amar te, siccome io t'amo, 
Te, che al vagar mio lungo ed all'inopia 
Ponesti fine! Io non so peggio vita: 
Ma il famelico stomaco latrante 
Grl' inopi a errar, per acchetarlo, sforza, 
E que'mali a soffrir, che ad una vita 
Povera s'accompagnano, e raminga. 
Or, quando vuoi eh' io teco resti, e aspetti 
Telemaco, su via, della canuta 
Madre d'Ulisse parlami, e del padre, 
Che al tempo che il fìgliuol sciolse per Troia, 
Della vecchiezza il limitar toccava. 
Veggon del Sole in qualche parte i rai? 
d'Aide la magion freddi gli accolse? 

Ospite, ripigliò l'inclito Eumèo, 
Altro da me tu non udrai, che il vero. 
Laerte vive ancora, e Giove prega 
Che la stanca dal corpo alma gli tragga : 
Tanto del figlio per l'assenza, tanto 
Per la morte si duol della prudente 
Moglie, che intatta disposoUo, e in trista 
Morendo il collocò vecchiezza cruda. 
La lontananza del suo figlio illustre 
A poco a poco, ed infelicemente. 
Sotterra la condusse. Ah tolga Giove, 
Che qual m'è amico, e con amor mi tratta, 

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282 ^ ODISSEA (v. 447-482 

Per una aimìì via discenda a Dite! 
Finch' ella visse, m'era dolce cosa, 
Sebben dolente si mostrasse in faccia. 
L'interrogarla e il ricercarla spesso: 
Poich' ella mi nutrì con la de' pepli 
Vaga Ctimene, sua figliuola egregia, 
E de* suoi parti l'ultimo. Con questa 
Cresceami, e quasi m'onorava al pari. 
Ma come fummo della nostra etade 
Ambi sul primo invidìabil fiore. 
Sposa lei fero in Same, e ricchi doni 
N'ebbero, ed infiniti: e me con vesti 
Leggiadre in dosso, e bei calzari ai piedi, 
Mandò i campi abitar la mia signora. 
Che di cor ciascun dì vie ^piti m* amava. 
Quanto seco io perdetti! E ver che queste 
Fatiche dure, in che la vita io spendo. 
Mi fortunano i Numi, e ch'io gli estrani 
Finor ne alimentai, non che me stesso. 
Ma di fatti conforto, o di parole 
Sperare or da Penelope non lice: 
Che tutta in preda di superba gente 
É la magion; né alla Regina ponno 
Rappresentarsi e far domande i servi. 
Pigliar cibo e bevanda al suo cospetto, 
E poi di quello ancor, che l'alma loro 
Sempre rallegra, riportare ai campi. 

Eumèo, rispose l'avveduto Ulisse, 
Te dalla Patria lungi e da' parenti 
Pargoletto sbalzò dunque il tuo fato? 
Orsti, ciò dimmi, e schiettamente: venne 
La città disertata, in cui soggiorno 
Avea la madre veneranda e il padre? 
O incautamente abbandonato fosti 
Presso le agnelle o i tori, e gente ostile 
Ti rapi sulle navi, e ai tetti addusse 

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V. 483-518) LIBRO XV. 283 

)i questo Re, che ti comprò a gran prezzo? 

Ed a rincontro Eumèo, d'uomini capo: 
Quando a te risaperlo, ospite, caie, 
Tacito ascolta, e goditi, e alle labbra 
VIettì, assiso, la tazza. Or cosi lunghe 
Lic notti van, che trapassar si ponno 
Parte dormendo, e novellando parte. 
Sé corcarti t'è d'uopo innanzi al tempo; 
luco il gran sonno nuoce. Ove degli altri, 
^iò piacesse ad alcuno, esca e s'addorma: 
yia, fatto bianco l'Oriente, siegua, 
C^on digiuno però, gl'ispidi verri. 
5 noi sediam nel padiglione a mensa, 
\.mbi a vicenda delle nostre doglie. 
Diletto, rimembrandole, prendendo; 
Poiché de* mali ancora uom, che sofferse 
Molto, e molto vagò, prende diletto. 

Ceri' isola, se mai parlar ne udisti, 
Gliace a Delo di sopra, e Siria è detta, 
Dove segnati del corrente Sole 
I ritorni si veggono. Già grande 
Non è troppo, ma buona; armenti e greggi 
Produce in copia, e ogni speranza vince 
Col frumento e col vino. Ivi la fame 
Non entra mai, nò alcun funesto morbo 
Consuma lento i miseri mortali: 
Ma come il crine agli abitanti imbianca. 
Cala, portando in man l'arco d'argento, 
Apollo con Artemide, e gli uccide 
Di saetta non vista un dolce colpo. 
Due cittadi ivi son di nerbo eguale; 
E rOrmenide Ctesio, il mio divino 
Padre, dell'una e l'altra il fren reggea. 
Capitò un giorno di Fenici, scaltra 
Gente, e del mar misuratrice illustre. 
Rapida nave negra, che infinite 

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284 ODISSEA (v. 519-554) 

Chiudea in sé stessa bagattelle industri. 
Sedusse? questi uùa fenicia donna, 
Che il padre schiava nel palagio avea. 
Bella, di gran persona, e di leggiadri 
Lavori esperta. I maculati panni 
Lavava al fonte presso il cavo legno. 
Quando un di qu«* ribaldi a ciò la trasse, 
Che alle femmine incaute, ancor che vote 
Non sien d*ogni virtù de, il senno invola. 
Poscia chi fosse, richiedeale, e donde 
Venuta: ed ella senza indugio l'alte 
Del padre mio case additegli, e disse: 
Io cittadina della chiara al mondo 
Sidone metallifera, e del ricco 
Aribante figliuola esser mi vanto. 
Tafi ladroni mi rapirò un giorno, 
Che dai campi tornava, e mi venderò, 
Trasportata sul mare, a quel signore , 
Che ben degno di me prezzo lor diede. 

Non ti saria, colui rispose allora. 
Caro dunque il seguirci, ed il superbo 
De' tuoi parenti rivedere albergo? 
Riveder lor, che pur son vivi, e in fama 
Di dovizia tra noi? Certo mi fora. 
La donna ripigliò, sol che voi tutti 
Di ricondurmi al natio suol giuriate 
Salva sul mar na vigere, e sicura. 
Disse; e tutti giuravano. E in tal guisa 
Tra lor di nuovo favellò la donna: | 

Statevi or cheti, e o per trovarmi al fonte, 
E incontrarmi tra via, nessun mi parli. 
Risaprebbelo il vecchio, e di catene 
Me graverebbe, sospettando, e a voi 
Morte, cred* io, macchineria. La cosa 
Tenete dunque in seno, e' a provvedervi 
Di quanto v'è mestier, pensate intanto. 

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(v. 555-590) LIBRO XV. ' 285 

La nave appien vettovagliata e carca, 
Giungane a me l'annunzio in tutta fretta, 
Ed io, non che altro, recherò con meco 
Quanto sotto alle man verràmmi d'oro. 
Altra mercè vi darò ancora, un figlio 
Di quest'ottimo Re nel suo palagio 
Rallevo, un vispo tal, che ad ogn' istante 
Fuor mi scappa di casa. Io vi prometto 
Alla nave condurlovi; né voi 
Picciol tesor ne ritrarrete, ovunque 
Per venderlo il meniate a estranie genti. 

Disse, e alla reggia ritornò. Coloro, 
Nel paese restando un anno intero, 
Fean di vitto e di merci immenso acquisto. 
Fornito il carco, e di salpare in punto. 
Un messaggio alla femmina spedirò. 
Uomo spedir d'accorgimenti mastro. 
Che con un bello, aureo monile, e d'ambra 
Vagamente intrecciato, a noi sen venne. 
Madre ed ancelle il rivolgeantra mano, 
Prezzo non lieve promettendo, e a gara 
Gli occhi vi tenean su. Tacitamente 
Quegli ammiccò alla donna: indi alla nave 
Drizzava i passi. Ella per mano allora 
Presemi, e fuori uscì : trovò le mense 
Nell'atrio, e 1 nappi, in che bevean del padre 
I commensali al parlamento andati 
Con esso il padre caro ; e di que' nappi 
Tre, che in grembo celò, via ne portava 
Ed io seguiala nella mia stoltezza. 
Oià tramontava il Sole, e di tenèbre 
Ricopriasi ogni strada; e noi veloci 
Giungemmo al porto e alla fenicia nave. 
Tutti saliti, le campagne acquose 
Pendevam lieti con un vento in poppa, 
Che da Giove spiccavasi. Sei giorni 

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286 ODISSEA (v. 591626; 

Le fendevamo, e notti sei: ma Giove 

Il settimo non ebbe agli altri aggiunto. 

Che dalla Dea, d'avventar dardi amante, 

Colpita fu la nequitosa donna. 

Nella sentina con rimbombo cadde, 

Quasi trafìtta folaga. Tra Tacque 

La scagliaro i Fenici, esca futura 

Ai marioi vitelli; e nella nave 

Solo io rimasi, abbandonato e mesto» 

Poi Tonda e il vento li sospinse ai lidi 

D'Itaca, dove me comprò Laerte. 

E cosi questa terra, ospite io vidi. 

Eumèo, rispose il paziente Ulisse, 
Molto a me TiUma commovesti in petto 
Narrando i casi tuoi. Ma Giove almeno 
Vicin tosto ti pose al male il bene, 
Poiché venisti ad un signor cortese 
Che quanto a rallegrar, non che a serbare, 
La vita è d'uopo, non ti niega. Ed io 
Sol dopo lunghi e incomodi viaggi 
Di terra in terra, a queste rive approdo. 

Tali fra lor correan parole alterne. 
Dormirò al fin, ma non un lungo sonno: 
Che in seggio a comparir d'oro la bella 
Già non tardò ditirosata Aurora. | 

Frattanto di Telemaco i compagni 
Presso alla riva raccogliean le vele. 
L'albero dechinàr, lanciaro a remi 
La nave in porto, l'ancore gittaro, 
Ed i canapi avvinsero. Ciò fatto. 
Sul lido usciano, ed allestian la cena. 
Rintuzzata la fame, e spenta in loro 
La sete, Voi, cosi d'Ulisse il figlio, 
Alla città guidatemi la nave, 
Mentre a' miei campi ed ai pastori io movo 
Del cielo all'imbrunir, visti i lavori, 

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(v. 627-662) LIBRO xv. _ , 287 

10 pure inurberommi, e in premio a voi 
Lauto domane imbandirò convito. 

Ed io dove ne andrò figlio diletto? 
Teoclimèno disse. A chi tra quelli, 
Che nella discoscesa Itaca sono 
Più potenti, offrirommi? Alla tua madre 
Dritto ir dovronne, e alla magion tua bella? 

11 prudente Telemaco riprese: 

Io stesso in miglior tempo al mio palagio 
T'invierei, dove cortese ospizio 
Tu non avresti a desiare. Or male 
Capiteresti: io non sarei con teco, 
Né te vedria Penelope, che scevra 
Dai Proci, a cui raro si mostra, tele 
Nelle più alte stanze a oprare intende. 
Un uom bensì t'additerò, cui franco 
Puoi presentarti: Eurimaco, del saggio 
Polibo il figlio, che di Nume in guisa 
Onoran gì' Itacesi. Egli è il più prode , 
E il regno, più che gli altri, e la consorte 
D'Ulisse affetta. Ma se, pria che questo 
Maritaggio si compia, i Proci tutti 
Non scenderanno ad abitar con Pluto,' 
L'Olimpio il sa, benché sì alto alberghi. 
Tal favellava; ed un augello a destra 
Gli volò sovra il capo, uno sparviere. 
Ratto nunzio d'Apollo: avea nell'ugne 
Bianca colomba, e la spennava, e a terra 
Fra lo stesso Telemaco e la nave 
Le piume ne spargea. Teoclimèno 
Ciò vide appena, che il garzon per mano 
Prese, e il trasse in disparte, e sì gli disse: 
Senza un Nume, o Telemaco, l'augello 
Non volò a destra. Io, che di centra il vidi, 
Per augurale il riconobbi. Stirpe 
Più regia della tua qui non si trova, 

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S88 ODISSEA (v. 663M) 

Qui possente ad ognor fìa la tua casa. 

Così questo, Telemaco rispose, 
S'avveri, o foresti er, com* io tal pegni 
Ti darei d'amistà, che te chiunque 
Ti riscontrasse, chiameria beato. 
Quindi si volse in cotal guisa al fido 
Suo compagno Pireo: Figlio di Olito, 
Tu, che le voglie mie fosti mai sempre 
Tra quanti a Pilo mi seguirò, e a Sparta, 
Condurmi il forestiero in tua magione 
Piacciati, e usargli, finché io vengo, onore. 

Per tardi, gli rispose il buon Pireo, 
Che tu venissi, io ne avrò cura, e nulla 
D'ospitale sarà che nel mio tetto. 
Dove il condurrò tosto, ei non riceva. 

Detto, salse il naviglio, e dopo lui 
Gli altri salìanlo, e s'assidean su i banchi. 
Telemaco s'avvinse i bei calzari 
Sotto i pie molli, e la sua valid' asta 
Rame appuntata, che giacca sul palco 
Della nave, in man tolse; e quei le funi 
Sciolsero. Si spingean su con la nave 
Ver la città, come il garzone ingiunse; 
Ed ei studiava il passo, in sin che innanzi 
Gli s'aperse il cortile, ove le molte 
S'accovacciavan setolose scrofe. 
Tra cui vivea l'inclito Eumèo, che, o fosse 
Nella veglia o nel sonno, i suoi padroni 
Dormendo ancor, non che vegliando, amava 



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LIBRO DECIMOSESTO 



ARGOMENTO 

Letizia d* Eumèo air arrivo di Telemaco , che mandalo alla 
città, per avvertir del suo ritorno la madre. — Minerva 
appare ad Ulisse, gli restituisce le sue sembianze; e gli 
comanda di scoprirsi al figliuolo. — Intanto que' Proci che 
erano in agguato, accortisi del ritorno di Telemaco, escono 
di quello, e si rendono in Itaca. — Eumèo . eseguito Tor- 
dine, sa. riconduce alla villa, né riconosce però Ulisse , cui 
Pallade novamente trasforma. 



L'inclito Eumèo nel padiglione, e Ulisse, 
Racceso il foco in su la prima luce, 
Leggier pasto allestiano; e fuori al campo 
Co* neri porci uscìan gli altri custodi. 
Ma i cani latrator, non che a Telemaco 
Non abbaiar, festa gli feano intorno. 
S'avvide Ulisse del blandir de' cani, 
E d'uom un calpestìo raccolse, e queste 
Voci drizzò al pastor: Certo qua, Eumèo, 

tuo compagno o conoscente, giunge: 
Poiché, lontani dal gridare, i cani 
Latratori car^zzanlo, ed il basso 

De* suoi vicini pie strepito io sento. 

Non era Ulisse al fin di questi detti, 
Che neir atrio Telemaco gli apparve. 
Balzò Eumèo stupefatto, e a lui di mano 

1 vasi, ove mescea l'ardente vino, 
Caddero: andògli incontro, e il capo, ed ambi 
Gli baciò i rilucenti occhi e le mani, 

E un largo pianto di dolcezza sparse. 

Odissea oigtizedbyQjpogle 



290 *^ ODISSEA (v. 21-56) 

Come tenero padre un figlio abbratìcia, 
Che il decim;' anno da remota piaggia 
Ritorna, unico figlio, e tardi nato. 
Per cui soffrì cento dolori, e cento; 
Non altrimenti Eumèo, gittate al collo 
Del leggiadro Telemaco le braccia, 
Tutto bacioUo, quasi allora uscito 
Dalle branche di Morte, e lagrimando, 
Telemaco, gli disse, amato lume. 
Venisti adunque! Io non avea più speme 
Di te veder, poiché volasti a Pilo. 
Su via, diletto figlio, entrar ti piaccia. 
Si oh' io goda mirarti or, che d'altronde 
Nel mio soggiorno capitasti appena. 
Raro i campi tu visiti, e i pastori; 
Ma la città ritienti, e la funesta . 
Turba de* Proci che osservar ti cale. 
Kntrerò, babbo mio, quegli rispose: 
Che per te, per vederti, e le tue voci 
Per ascoltare, al padiglione io vegno. 
Restami nel palagio ancor la madre? 
O alcun de* Proci disposolla, e nudo 
Di coltri e strati, e ai sozzi aragni in preda 
Giace del figlio di Laerte il letto?- 
Nel tuo palagio, ripigliava Eumèo, 
Riman con alma intrepida la madre 
Benché nel pianto a lei passino i giorni, 
Passin le notti; ed ella viva indarno. 

Ciò detto, Tasta dalla man gli prese, 
E Telemaco il pie mettea sul marmo 
Della soglia, ed entrava. Ulisse a lui 
Lo scaimo, in cui sedea, cesse: ma egli 
Dal lato suo non consentialo, e, Statti, 
Yorestier, disse, assiso; un altro seggio 
'oi troverem nella capanna nostra, 

quell'uomo è lontaa, che dar mei puote. 

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(v. 57-92) LIBRO XVI. 291 

Ulisse, indietro fattosi, di nuovo 
Sedea. Ma il saggio guardian distese 
Virgulti verdi, e una vellosa pelle, 
E il garzon vi adagiò. Poi le rimaste 
Del giorno addietro abbrustolite carni 
LàOr recò su i taglieri; e ne* canestri 
Posti Tun sovra Taltro in fretta i pani, 
E il rosso vino nelle tazze infuso, 
Ad Ulisse di centra egli s*assise. 
Sbramato della mensa ebbero appena 
11 desiderio naturai, che queste 
Telemaco ad Eumèo drizzò parole: 
Babbo, d'onde quest'ospite? In che guisa 
E quai nocchieri ad Itaca il menare? 
Certo a piedi su l'onda ei qua non venne. 

E tu così gli rispondesti, Eumèo: 
Nulla, fìgliuol, ti celerò. Natio 
Dell'ampia Creta egli si vanta, e dice 
Molti paesi errando aver trascorsi 
Per volontà d'un Nume avverso. Al fine 
Si calò giù da una Tesprozia nave, 
E al mio tugurio trasse. Io tei consegno. 
Quel che tu vuoi, ne fa'; sol ti rammenta 
Ch'ei di tuo supplicante ambisce il nome. 

Grave al mio cor, Telemaco riprese, 
Parola, Eumèo, tu proferisti. Come 
L'ospite ricettar nella paterna 
Magion poss' io? Troppo io son verde ancora, 
Né rispinger da lui con questo braccio 
Chi primo l'assalisse, io mi confido. 
La madre sta fra due, se, rispettando 
La comun voce e il maritai suo letto, 
; Viva col figlio, e la magion governi, 
O a quel s'unisca degli Achei, che doni 
Le pFesenta più ricchi, ed è più prode. 
Bensì al tuo forestier tunica e manto, 

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292 ODISSEA (v.^93-128) 

E una spada a due tagli, bei calzari 
Dar voglio, e là inviarlo, ov'ei desia. 
Che se a te piace ritenerlo,' e cura 
Prenderne, io vesti, e d'ogni sorta cibi, . 
Perchè te non consumi, e i tuoi compagni. 
Qua manderò. Ma ch*ei s'accosti ai Proci, 
Che d'ingiurie il feriscano, e d'oltraggi 
Con dolor mio, non sarà mai ch'io soffra. 
Che potria contro a tanti e si valenti 
Nemici un sol, benché animoso e forte? 

Nobile amico, così allora Ulisse, 
Se anco a me favellare or si concede. 
Il cor nel petto mi si rode, udendo 
La indegnitade in tua magion de' Proci, 
Mentre di tal sembiante io pur ti veggo. 
Cedi tu volontario? O in odio forse 
Per l'oracol d'un Dio t'ha la cittade? 
i fratelli abbandonanti, cui tanto 
S'affida l'uom nelle più dure imprese? 
Perchè con questo cor l'età mia prima 
Non ho? Perchè non son d'Ulisse il figlio? 
Perchè Ulisse non son? Vorrei che tronco 
Per mano estrana mi cadesse il capo, 
S'io, nella reggia penetrando, tutti 
Non mandassi in rovina. E quando ancora 
Me soverchiasse l'infinita turba. 
Perir terrei nella mia reggia ucciso 
Pria che mirar tuttora opre si turpi, 
Gli ospiti mal menati, violate 
Ahi colpa! le fantesche, ed inghiottito 
A caso, indarno, e senza fine frutto. 
Quanto si miete ogni anno e si vendemmia. 

Straniero, eccoti il ver, ratto rispose 
Il prudente Telemaco: non tutti 
M'odiano i cittadin, né de' fratelli. 
Cui tanto l'uom nelle più dubbie imprese 

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(v. 129-164) LIBRO xvi; 293 

Suole appoggiarsi, richiamarmi io posso. 
Volle il Saturnio che di nostra stirpe 
D'età in età spuntasse un sol rampollo. 
Arcesio generò Laerte solo, 
Laerte il solo Ulisse, e poscia Ulisse 
Me lasciò nel palagio, unico figlio, 
Di cui poco godè: quindi piantossi 
Nemica gente al nostro albergo in seno. 
Quanti ha Dulichio e Same, e la selvosa 
Zacinto, e la pietrosa Itaca prenci, 
Ciascun la destra della madre agogna. 
Ella né rigettar può, né fermare 
Lo inamabili nozze. Intanto i Proci 
Cuoprono i deschi con le pingui membra 
Delle sgozzate vittime, e gli averi 
Mi struggon tutti; né andrà molto forse, 
Che più grata sarò vittima io stesso. 
Ma ciò ^e'Numi su i ginocchi posa. 
Babbo, tu vanne rapido, e alla madre 
Narra che salvo io le tornai da Pilo. 
Così «narralo a lei, che alcun non t*oda 
Degli Achivi, e qua riedi, ov'io m'arresto. 
Ben sai che molti del mio sangue han sete. 

E tu in risposta gli dicesti, Eumèo: 
Conosco, veggo, ad uom che intende, parli. 
Ma non vorrai che messo all'infelice 
Laerte ancor per la via stessa io vada? 
Ei, pensoso d'Ulisse un tempo e tristo. 
Pur dei campi ai lavor guardava intento, 
E, dove brama nel pungesse, in casa 
Pasteggiava co' servi. Ed oggi è fama 
Che da quel dì che navigasti a Pilo, 
Né pasteggiò co' servi, né de' campi 
Più ai lavori guardò; ma sospirando 
Siede, e piangendo, e alle scarne ossa intanto 
S'affigge, ohimè! l'inaridita cute. 

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294 ODISSEA _ (v. 165-200) 

Gran pietade! Telemaco riprese. 
Ma lasciamolo ancor per brevi istanti 
Nella sua doglia. Se in man nostra tutto 
Fosse, il ritorno a procurar del padre 
Non si rivolgerebbe ogni mia cura? 
Esponi adunque 1* imbasciata, e riedi, 
Né a lui pe' campi divertir; ma solo 
Priega la madre, che in tua vece al vecchio 
Secreta imbasciatrice e frettolosa 
La veneranda economa destini. 

Detto così, eccitollo; ed ei con mano 
Presi i calzari, e avvintiseli ai piedi. 
Subitamente alla città tendea. 
Non partì dalla stalla il buon custode, 
Che l'armigera Dea non se ne addesse. 
Scese dal cielo, e somigliante in vista 
A bella e grande, e de* più bei lavori 
Femmina esperta, si fermò alla porta 
Del padiglion di centra, e a Ulisse apparve. 
Telemaco non videla: che a tutti 
Non si mostran gì* Iddìi. Videla il padre, 
E i mastini la videro, che a lei 
Non abbaiar, ma del cortil nel fondo 
Trepidi si celare e guaiolanti. 
Ella accennò co' sopraccigli, e il padre 
La intese, ed uscì fuori, e innanzi stette 
Nella corte alla Dea, che sì gli disse: 
Laerziade generoso e accorto, 
Tempo è che al tuo figliuol tu ti palesi, 
Onde, sterminio meditando ai Proci, 
Moviate uniti alla città. Vicina, 
Ed accinta a pugnar, tosto m'avrete. 

Tacque Minerva, e della verga 'd*oro 
Toccollo. Ed ecco circondargli a un tratto 
Belle vesti le membra, e il corpo farsi 
Più grande e più robusto; ecco le guanoe 

.fligitizedbyGoOQle 



(v. 201-236) LIBRO xvT. 295 

Stendersi, e già ricolorarsì in bruno, 
E all'azzurro tirar su per lo mento 
I peli, che. parean d'argento in prima. 

La dea sparì, rientrò Ulisse; e il figlio, 
Da maraviglia preso e da terrore, 
Chinò gli sguardi, e poscia. Ospite, disse, 
Altro da quel di prima or mi ti mostri, 
Altri panni tu vesti, ed a te stesso . 
Più non somigli. Alcun per fermo sei 
Degli abitanti dell'Olimpo. Amico 
Guardane, acciò per noi vittime grate, 
Grati s'offrano a te doni nell'oro 
Con arte sculti: ma tu a noi perdona. 

Non sono alcun degl' Immortali, Ulisse 
Gli rispondea. Perchè agli Dei m' agguagli? 
Tuo padre io son: quel per cui tante soffri 
Nella tua fresca età sciagure ed onte. 

Così dicendo^ baciò il figlio, e al pianto, 
Che dentro gii ocelli avea costantemente 
Ritenuto sin qui, l'uscita aperse. 
Telemaco d'aver su gli occhi il padre 
Credere ancor non sa. No, replicava, 
Ulisse tu, tu il genitor non sei, 
Ma per maggior mia pena un Dio m' inganna. 
Tai cose oprar non vale uom da sé stesso, 
Ed è mestier che a suo talento il voglia 
Ringiovanire, od invecchiarlo, un Nume. 
Bianco i capei testé, turpe le vesti 
Eri, ed ora un Celicela pareggi. 

Telemaco, riprese il saggio eroe. 
Poco per veritade a te s'addice, 
Mentre possiedi il caro padre, solo 
Maraviglia da lui trarre e spavento: 
Che un altro Ulisse aspetteresti indarno. 
Sì, quello io son, che dopo tanti affanni 
Durati e tanti, nel vigesim'anno 

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296 - ODISSEA (v. 237-272; 

La mia Piatria Tividi. Opra fti questa 
Della Tritonia bellicosa Diva 
Che qual piti aggrada a lei, tale mi forma, 
Ora un canuto mendicante, e quando 
Giovane con bei panni al corpo intorno: 
Però che alzare un de' mortali al cielo, 

negli abissi porlo, è lieve ai Numi. 
Cosi detto, s*assise. Il figlio allora 

Del genitor s'abbandonò sul collo. 
In lagrime scoppiando ed in singhiozzi. 
Ambi un vivo desir sentian del pianto: 
Né di voci sì flebili e stridenti 
Risonar s'ode il saccheggiato nido 
D'aquila o d'avvoltoio, a cui pastore 
Rubò i figliuoli non ancor pennuti, 
Come de' pianti loro e delle grida 
Miseramente il padiglion sonava. 
E già piagnenti e sospirosi ancora 
Lasciati avriali, tramontando, il Sole, 
Se il figlio al padre non dicea: Qual nave. 
Padre, qua ti condusse, e quai nocchieri? 
Certo in Itaca il piò non ti portava. 
Celerò il vero a te? l'eroe rispose. 

1 Feaci sul mar dotti, e di quanti 
Giungono errando alle lor piagge, industri 
Riconduttori, me su ratta nave 
Dormendo per le salse onde guidaro, 

E in Itaca deposero. Mi fero 
Di bronzo in oltre e d'oro, e intesti panni. 
Bei doni, e molti, che in profonde grotte 
Per consiglio divin giaccionmi ascosi. 
Ed io qua venni al fin, teco de' Proci 
Nostri nemici a divisar la strage. 
Con l'avviso di Pallade. Su, via. 
Contali a me, sì eh' io conosca, quanti 
Uomini sono, e quali, e nella mente 

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(v. 273-308) ' - LiBRp XVI. 297 

Libri, Sé contrà lor combatter i^oli, 
O in aiuto chiamape altri convegna. 

O padre mio, -Telemaco riprese. 
Io sempre udia te celebrar la fama 
Bellicoso di man, di mente accorto: 
Ma' tu cosa dicesti or gigantesca 
Cotanto, che alta maraviglia tiemmi. 
Due soli battagliar con molti e forti? 
Non pensar che a una decade, o a due sole , 
Montin: sono assai più. Cinquantadue 
Giovani eletti da Dulichio uscirò, 
S sei donzelli li seguiauo. Venti 
Ne mandò Same, e quattro; e abbandonaro 
Venti Zacinto. Itaca stessa danne 
Dodici, e tutti prodi; e v'ha con essi 
Medonte araldo, ed il cantor divino, 
E due nell'arte loro incliti scalchi. 
Ci affronterem con questa turba intera. 
Che la nostra magion possiede a forza? 
Temo che allegra non ne avrem vendetta. 
Se rinvenir si può chi a noi soccorra 
Con pronto braccio e cor, dunque tu pensa. 
Chi a noi soccorra? rispondeagli Ulisse. 
Giudicar lascio a te, figlio diletto. 
Se Pallade a noi basti, e basti Giove, 
O cercar d'altri, che ci aiuti, io deggia. 
E il prudente Telemaco:' Quantunque 
Siedan lungi da noi su l'alte nubi, 
Nessun ci può meglio aiutar di loro. 
Che su i mortali imperano, e §\i i Divi. 
Non sederan da noi lungi gran tempo, 
Il saggio Ulisse ripigliava, quando 
Sarà della gran lite arbitro Marte. 
Ma tu il palagio su l'aprir dell'alba 
Trova e t'aggira tra i superbi Proci. 
Me poi simile in vista ad un mendico, 

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29S ODISSEA ' X^' 30ap'344^ 

Dispregevole vecchio il fido Eumèo 
Nella cittade condurrà. Se oltraggio 
Mi verrà fatto tra le nostre mura, 
Soffrilo; e dove ancor tu mi vedessi 
Trar per li pie fuor della soglia, o segno 
D*acerbi colpi far, lo sdegno affrena. 
Sol di cessar dalle follie gli esorta, 
Parole usando di mèle consperse. 
A cui non baderan: però che pende 
L'ultimo sovra lor giorno fatale. 
Altro dirotti, e tu fedel conserva 
Nel tuo petto ne fa'. Sei tu mio figlio? 
Scorre per le tue vene il sangue mio? 
Non oda alcun eh' è in sua magione Ulisse; 
E né a Laerte pur, né al fido Eumèo, 
Né alla stessa Penelope, ne venga. 
Noi soli spierera, tu ed io. l'ingegno^ 
Dell'ancelle e de* servi; e vedrem noi, 
Qual ci rispetti, e nel suo cor ci tema, ^ 
O quale a me non guardi, e te non curi. 
Benché fuor dell'infanzia, e non da ieri. 

Padre, riprese il giovinetto illustre, 
Spero che me conoscerai tra poco, 
E ch'io né ignavo ti parrò, né folle. 
Ma troppo utile a noi questa ricerca. 
Credo, non fora; e ciò pesar ti stringo. 
Vagar dovresti lungamente, e indarno. 
Visitando i lavori, e ciascun servo 
Tentando; e intanto i Proci entro il palagio 
Ogni sostanza tua struggon tranquilli. 
Ben tastar puoi delle fantesche l'alma, 
Qual colpevole sia, quale innocente: 
Ma de' famigli a investigar pe' campi 
Soprastare io vorrei, se di vittoria 
Segno ti die l'egidarmato Giove. 

Mentre si fean da lor queste parole, 

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(v. 345-380) " LIBRO XVI. 25 

La nate, che Telemaco e i compagni 
Condotti avea da Pilo, alla cittade 
Giunse, e nel porto entrò. Tirare in secco 
Gli abili servi, e disarmare il legno, 
E di Olito alla casa i preziosi 
Doni rcQaro dell' Atride. In oltre 
Mosse un araldo alla magion d'Ulisse 
Nunziando a Penelope che il figlio 
Ne* campi suoi si trattenea, perch'ella, 
Visto entrar senza lui nel porto il legno, 
Di nuovo pianto non bagnasse il volto. 
L'araldo ed il pastor dier Tun nell'altro 
Con la stessa imbasciata entro i lor petti. 
Nò pria varcar della magion la soglia, 
Che il banditor gridò tra le fantesche: 
Reina, è giunto il tuo diletto figlio. 
Ma il pastore a lei sola, ed all'orecchio. 
Ciò tutto espose, che versato in core 
Telemaco gli avea: quindi alle mandre 
Ritornare affrettavasi, l'eccelse 
Case lasciando, e gli steccati a tergo. 
Ma tristezza e dolor l'animo invase 
De* Proci. Uscirò del palagio, il vasto 
Cortile attraversare, ed alle porte 
Sedean davanti. Amici, in cotal guisa 
Eurimaco a parlar tra lor fa il primo: 
Ebben, che dite voi di questo, a cui 
Fede si poca ciaschedun prestava, 
Viaggio di Telemaco? Gran cosa 
Certo, e condotta audacemente a fine. 
Convien nave mandar delle migliori 
Con buoni remiganti, acciocché torni 
Quella di botto, che agli agguati stava. 

Proflferte non avea l'ultime voci. 
Che Anfinomo, rivolti al lido gli occhi, 
Un legno scorse nel profondo porto, 

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800 ' ODISSEA, ~ ,(v. 381-416; 

Ed altri intesi a ripiegar le vele. 
Altri i remi a deporre, e, dolcemente 
Ridendo, non s'invi! messaggio alcuno, 
Disse, già. dentro sono: o un Nume accorti 
Li fece, o trapassar videro, e indarno 
Giunger tentare del garzon la nave. 

Sorsero, e al lito andare. Il negro legno 
Fa tratto in secco, e disarmato ; e tutti 
Per consultar si radunare i Proci. 
Né con lor permettean che altri sedesse, 
Giovane o vecchio; e così Antinoo disse: 
Poh! come a tempo il dilivraro i Numi! 
L'intero dì su le ventose cime. 
A vicenda sedean gli esploratori: 
Poi, dato volta il Sol, la notte a terra 
Mai non passammo, ma su ratta nave 
Stancavam l'onde sino ai primi arbori, 
Tendendo insidie al giovane, e Testremo 
Preparandogli eccidio. E non pertanto 
Nella sua patria il ricondusse un Dio. 
Consultiam dunque, come certa morte 
Dare al giovane qui. Speriamo indarno 
La nostra impresa maturar, a'ei vive: 
Che non gli falla il senno, e a favor nostro 
La gente, come un dì, più non inchina. 
Non aspettiam che a parlamento ei chiami 
Gli Achivi tutti, né crediam che lento 
Si mostri, e molle troppo. Arder di sdegno 
Veggolo, e, sorto in pie , dir che ruina 
Noi gli ordivamo, e che andò il colpo a vóto. 
Prevenirlo è mestieri, e o su la via 
Della cittads spegnerlo, o ne* campi. 
Non piace forse a voi la mia favella, 
E bramate ch*ei viva, e del paterno 
Retaggio goda interamente ? Adunque 
Noi dal fruirlo ritiriamci, Tuno 

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[^. 417-452) LIBRO xvi. 301 

Disgiungasi dall'altro, e al proprio albergo 
Si renda: indi Penelope richieda, 
E quel cui sceglie il fato, e che offre a lei 
Più ricchi doni, la Regina impalmi. 

Tutti ammutirò a cotai voci. Al fine 
Sorse trar lor dell'Arezlade Niso 
La regia prole, Anfìnomo, che, duce 
Di quei competitor che dal ferace 
Dulichio uscirò, e di più sana mente 
Tra i rivali dotato, alla Regina 
Men, che ogni altro, sgradia co' detti suoi. 
Amici, disse, troppo forte impresa 
Struggere affatto un real germe. I numi 
Domandiamone in pria. Sarà di Giove 
Questo il voler? Vibrerò il colpo io stesso, 
Non che gli altri animar; dov'ei decreti 
Diversamente, io vi consiglio starvi. 
Così d'Arezio il figlio, e non indarno. 
S'alzare, e rientrar nell'ampia sala, 
E sopra i seggi nitidi posare. 

Ma la casta Penelope, che udito 
Avea per bocca del fedel Medonte 
11 mortai rischio del figliuol, consiglio 
Prese di comparire ai tracotanti 
Proci davante. La divina donna 
Uscì dell'erma stanza; e con le ancelle 
Sul limitar della Dedalea sala 
Giunta, e adombrando co* sottili veli. 
Che le pendean dal capo, ambo le guance ^ 
Antinoo rampognava in questi accenti: 
Antinoo, alma oltraggiosa, e di sciagure 
Macchinator; nella città v'ha dunque 
Chi tra gli eguali tuoi primo vantarti 
Pef saggezza osi, e per facondia? Tale 
Giammai non fosti. Insano I e al par che insano, 
Empio, che di Telemaco alla vita 

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302 \ ODISSÈA ' (V. 453-48S; 

Miri, e non curi i supplici, per cui 
Giove dairalto si dichiara. Ignoto 
Forse ti fu sin qui, che fuggitivo 
Qua riparava, e sbigottito un giorno 
li padre tuo, che de* Tesproti a danno 
Co' Tafì predator s* era congiunto ? 
Nostri amici eran quelli, e porlo a morte 
Voleano, il cor volean trargli del petto. 
Non che i suoi campi disertar : ma Ulisse 
Si levò, si frammise; e, benché ardenti, 
Li ritenea. Tu di quest*uom la casa 
Ruini e disonori ; la consorte 
Ne ambisci, uccidi il figlio, e me nel fondo 
Sommergi delle cure. Ah! cessa, e agli altri 
Cessare ancor, quanto è da te, comanda. 

Figlia illustre d'Icario, a lei rispose 
Eurimaco di Pòlibo, fa' core, 
E si tristi pensier da te discaccia. 
Non è, non fu, non sarà mai ehi ardisca 
Contra il figlio d'Ulisse alzar la mano. 
Me vivo, e con questi occhi in fronte aperti. 
Di cotestui, cosa non dubbia, il nero 
Sangue scorreria giù per la mia lancia. 
Me il distruttor delle cittadi Ulisse 
Tolse non rado sovra i suoi ginocchi, 
Le incotte carni nella man mi pose. 
L'almo licer m'ofi'ri. Quindi uom più caro 
Io non ho di Telemaco, e non voglio 
Che la morte dai Proci egli paventi. 
Se la mandan gli Dei, chi può scamparne? 
Cosi dicea, lei confortando, e intanto 
L'eccidio pel figliuol gli stava in core. 
Ma ella salse alle sue stanze, dove 
A lagrimar si dava il suo consorte, 
Finché, per tregua a tanti affanni, un dolce 
Sonno invìoUe l'occhiglauca Palla, 

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(v. 489-524) ; libro xvi, : ^ 303 

Con la notte comparve il fido Eumèo 
Ad Ulisse e a Telemaco, che, pingue 
Sacrificato ai Numi adulto porco. 
Lauta se ne allestian cena in quel punto. 
Se non che Palla al Laerziade appresso 
Fecesi, e, lui della sua verga tocco, 
Nella vecchiezza il ritornò di prima, 
E ne* primi suoi cenci ; onde il pastore 
Noi ravvisasse in faccia, e, mai potendo 
Premer nel cor la subitana gioia, 
Con r annunzio a Penelope non gisse. 

Ben venga il buon pastor 1 così primiero 
Telemaco parlò. Qual corre grido 
Per la città? Vi rientraro i Proci? 
O mi tendon sul mare insidie ancora? 

E tu così gli rispondesti, Eumèo: 
La mente a questo io non avea, passando 
Fra i cittadini : che portar ravviso, 
E di botto redir, fu sol mia cura. 
Bensì m'avvenni al bandi t or, che primo 
Corse parlando alla Regina. Un'altra 
Cosa dirò, quando la vidi io stesso. 
Prendendo il monte che a Mercurio sorge, 
E la cittade signoreggia, vidi 
Rapidamente scendere nel porto 
Nave d'uomini piena, e d'aste acute 
Carca, e di scudi. Sospettai che il legno 
Fosse de' Proci; né più avanti io seppi. 

A tai voci Telemaco sorrise. 
Pur sogguardando il padre, e gli occhi a un tempo 
Del custode schivando. A questo modo. 
Fornita ogni opra, e già parati i cibi. 
D'una egual parte in questi ognun godea. 
Ma come il lor desio più non richiese, 
Si corcaro alfin tutti, ed il salubre 
Dono del sonno ricettar nel petto, 

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LIBRO' DECIMOSETTIMO 



ARGOMENTO 

Arrivo prima di Telemaco alla città , e poi d' Ulisse accom- 
pagnato da Bumèo. — • Ulisse ò insultato dal caprtùo Me- 
lanzio . e riconosciuto alle porte del palaszo dal yecchio 
cane Argo, che ne muore di gioia. — Bntrato nella sala io 
forma di vecchio mendico, va intorno accattando ; a Anti- 
noo lo scaccia superbamente da sé. e uno sgabello gli lan- 
cia contro. — Penelope gli fa saper per Bumèo, che desi- 
dera di parlargli. — Risposta d'Ulisse. 

Tosto che aperse del mattin la figlia 
Con rosea man Teteree porte al Sole , 
Telemaco, d'Ulisse il caro germe. 
Che inurbarsi yolea« sotto le piante 
S'avvinse i bei calzari, e la nodosa 
Lancia, che in man ben gli scattava, tolse, 
E queste al suo pastor drizzò parole: 
Babbo, a cittade io vo, perchè la madre 
Veggami, e cessi il doloroso pianto. 
Che altramente cessar, credo, non puote. 
Tu r infelice forestier la vita 
Guidavi a mendicar: d'un pan, d*un colmo 
Nappo non mancherà chi lo consoli. 
Nello stato in eh' io sono, a me non lice 
Sostener tutti. Monteranno in ira? 
Non farà che il suo male. Io dal mio lato 
Parlerò sempre con diletto il vero. 

Amico, disse allora il saggio Ulisse, 
Partire intendo anch'io. Più ohe ne'caippi, 

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(V. 20-55) LIBRO xvn. è05 

Nella cittade accattar giova ; un frusto, 
Chi Torrà, porgerammi. Io più d'etade 
Non sono a rimaner presso le stalle, 
E obbedire un padron, checché m'imponga. 
Tu vanne: a me quest'uom sarà per guida, 
Come tu ingiungi, sol che prima il foco 
Mi scaldi alquanto, e più s* innalzi il Sole. 
Triste, qual vedi, ho vestimenta, e guardia 
Prender degg'io dal mattutino freddo. 
Che sul cammiu che alla città conduce. 
Ed è, sento, non breve, offender puommi. 

Telemaco senz'altro in via si pose. 
Mutando i passi con prestezza, e mali 
Nella sua mente seminando ai Proci. 
Come fu giunto al ben fondato albergo. 
Portò Tasta, e appoggioUa ad una lunga 
Colonna, e in casa, la marmorea soglia 
Varcando, penetrò. Primiera il vide 
La nutrice Euriclèa, che le polite 
Pelli stendea su i variati seggi, 
E a lui diritta, lagrimando accorse: 
Poi tutte gli accorrean l'altre d'Ulisse 
Fantesche intorno, e tra le braccia stretto 
Sulle spalle il baciavano, e sul capo. 
Frattanto uscia della secreta stanza. 
Pari a Diana, e all'aurea Vener pari. 
La prudente Penelope, che al caro 
Figlio gettò le man, piangendo al collo, 
E la fronte baciògli , ed ambo gli occhi 
Stellanti ; e non restandosi dal pianto, 
Telemaco, gli disse, amata luce. 
Veniste adunque! lo non credea più i lumi 
Fissare in te, dacché una ratta nave , 
Contra ogni mio desir, dietro alla fama 
Del genitor furtivamente a Pilo 
T'addusse. Pària: quale incontro avesti? 

O'ilf Ma Digitized by GoÒ^e 



30& - ODISSEA (v. 5^-91) 

Madre^ del grave rischio oiid'io campai. 
Replicava Telemaco, il dolore 
Non rinnovarmi in petto, e lo spavento. 
Ma in alto sali con le ancelle : quivi 
Lavata, e cinta d*una pura veste 
Le membra delicate, a tutti 1 Numi 
Ecatombe legittime prometti, 
Se mi consente il vendicarrni Giove. 

10 per un degno forestier, che venne 
Meco da Pilo, andrò alla piazza. Innanù 
Co' miei fidi compagni io lo spedii, 

E commisi a Pireo, che in sua magione 
L'introducesse, e sino al mio ritorno 
Con onore il trattasse, e con affetto. 

Non indarno ei parlò. Lavata e cinta 
Di veste pura il delicato corpo, 
Penelope d' intègre a tutti i Numi 
Ecatombe votavasi, ove al figlio 

11 vendicarsi consentisse Giove. 

Né Telemaco a uscir fuor del palagio 
Molto tardò: l'asta gli empiea la mano, 
E due bianchi il seguian cani fedeli. 
Stupia ciascun, mentr'ei mutava il passo: 
Tal grazia sovra lui Palla diffuse. 
Gli alteri Proci stavangli da questo 
Lato, e da quel, voci parlando amiche, 
Ma nel profondo cor fraudi covando. 
Se non ch'ei tosto si sciogliea da essi; 
E là, dove sedea Mentore, dove 
Antifo ed Aliterse, che paterni 
Gli eran compagni dalla prima etade, 
A posar s'avviò: quei d'ogni cosa 
L'addi mandare. Sopraggiunse intanto 
Pireo, lancia famosa, il qQal nel fòro 
Per la cittade il forestier menava, 
A cui 8'alzò Telemaco, e s'offerse. 

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(v. 92-127) LIBRO xviL 307 

E oosì primo favellò Pireo: 
Telemaco, farai che al mio soggiorno 
Vengan le donne tue per que* superbi 
Doni, onde Menelao ti fu cortese. 

E il prudente Telemaco: Pireo, 
Ignoto è ancor di queste cose il fine. 
Se i Proci, me secretamente anciso, 
Tutto divideransi ik mio retaggio, 
Prima, che alcun di loro,* io di que* doni 
Vo*che tu goda. E dove io lor dia morte, 
A me lieto recar li potrai lieto. 

Disse, e guidò nella sua bella casa 
L' ospite sventurato. Ivi, deposte 
Sovra i troni le clamidi vellute, 
Sceser nel bagno; e come astersi ed unti 
Per le servili man furo, e di manto 
Vago e di vaga tunica vestiti, 
Su i ricchi seggi a collocarsi andare. 
E qui l'ancella da bell'aureo vaso 
Purissim*acqua nel bacil d'argento 
Versava, e stendea loro un liscio desco 
Su cui la saggia dispensiera i bianchi 
Pani venne ad imporre, e non già poche 
Belle dapi non fresche, ond' è custode. 
Penelope sedea di fronte al caro 
Figlio, e non lungi dalle porte; e fini 
Velli purpurei, a una polita sede 
Poggiandosi, torcea. Que' due la destra 
Stendeano ai cibi; né fu pria repressa 
La fame loro, e la lor sete spenta, 
Che in tai voci la madre i labbri apriva: 
lo, figlio, premerò, salita in alto. 
Quel che divenne a me lugubre letto, 
Dappoi che Ulisse inalberò le vele 
Co' figliuoli d'Atrèo : lugubre letto, 
Ch'io- da quel giorno del mio pianto aspergo. 

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308 ODISSEA {v. 128-163; 

Noa vorrai dunque tu, prima che i Proci 
Entrino alla raagion, dirgli, se nulla 
Del ritorno del padre udir t'avvenne? 

Il prudente Telemaco a rincontro: 
Madre il tutto io dirò. Pilo trovammo, 
Ed il pastor de' popoli Nestorre. 
Qual padre accoglie con carezze un figlio 
Dopo lunga stagion d'altronde giunto, 
Tal me in sua reggia, e tra l'illustre prole, 
La bianca testa di Nestorre accolse. 
Ma diceami, che nulla udì d'Ulisse, 

vivo fosse, fatto polve ed ombra. 
Quindi al pugnace Menelao mandommi 
Con buon cocchio e destrieri; ed io là vidi 
L'argiva Elèna, per cui Teucri & Greci, 
Cosi piacque agli Dei, tanto sudaro. 

Il bellicoso Menelao repente 
Chiedeami, qual bisogno alla divina 
Sparta m'avesse addotto. Io non gli tacqui 
Nulla, e l'Atride: Ohimè! d'un eroe dunque 
Volean giacer nel letto uomini imbelli? 
Siccome allor che malaccorta cerva, 

1 cerbiatti suoi teneri e lattanti 
Deposti in tana di leon feroce. 

Cerca, pascendo, i gioghi erti e l'erbose 
Valli profonde ; e quello alla sua cava 
Riede frattanto, e cruda morte ai figli 
Porta, e alla madre ancor: non altrimenti 
Porterà cruda morte ai Proci Ulisse. ^ 
Ed oh piacesse a Giove, a Febo e a Palla, 
Che qual si levò un dì centra Taltero 
Filomelide nella forte Lesbo, 
E tra le lodi degli Achivi a terra 
Con mano invitta, lotteggiando, il pose, 
Tal costoro affrontasse! Amare nozze 
Fòran le loro, e la lor vita un punto. 

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(v, 164-199). LIBRO xviL , 309 

Qaanto^alla tua domanda, il Re soggiunse, 
Ciò raccontarti senza fraude intendo, 
Che un oràcol verace, il marin vecchio 
Proteo, svelommi. Asseverava il Nume, 
Che molte e molte lagrime dagli occhi 
Spargere il vide in solitario scoglio , 
Soggiorno di Calipso, inclita Ninfa, 
Che rimandarlo niega ; ond'ei, cui solo 
Non avanza un naviglio, e non compagni 
Che il careggiu del mar su Tampio dorso, 
Star gli convien della sua Patria in bando. 
Ciò in Isparta raccolto, io ne partii; 
E un vento in poppa m' inviare i Numi, 
Che rattissimo ad Itaca mi spinse. 
Con tal voci Telemaco alla madre 
Li* anima in petto scompigliava. Insorse 
Taoclimèno allora: veneranda 
Della -gran prole di Laerte donna, 
Tutto ei già non conobbe. Odi i miei detti. 
Yero e integro sarà Toracol mio. 
Primo tra i Numi in testimonio Giove, 
E la mensa ospitai chiamo, ed il sacro 
Del grande Ulisse limitar, cui venni : 
Lo s^oso tuo nella sua patria terra 
Siede, o cammina, le male opre ascolta, 
E morte a tutti gii orgogliosi Proci 
Nella sua mente semina. Mei disse 
Chiaro dal cielo un volator ch'io scorsi, 
E al tuo figlio mostrai, sedendo in nave. 

E la saggia Penelope : Deh questo, 
Ospite, accada 1 Tali e tanti avresti 
Del mio sincero amor pegni, che ognuno 
Ti chiameria, scontrandoti, beato. 

Mentre così parlando, e rispondendo 
Di dentro ivan la madre, il figlio e il vate, 
Gli alteri Proci alla magion davante 

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310 ' ODISSEA (v. 20O-g35) 

Dischi lancìavan per diletto, e dardi 

Sul pavimento lavorato e terso, 

Della baldanza lor solito arringo. 

Ma, giunta V ora della mensa, e addotte 

Le vittime da tutti intorno i campi, 

Medonte che nel genio ai Proci dava 

Più che altro in fra gli araldi, e ai lor banchetti 

Sempre assistea, Giovani, disse, quando 

Godeste ornai de* giochi, entrar v'aggradi, 

Sì che il convivio s'imbandisca. Ingrata 

Cosa non parmi il convivare al tempo, 

Sursero immantinente ed alle voci 

Del banditor non repugnaro. Entrati, 

Deposer sulle sedie i manti loro. 

Pingui capre scannavansi, e i più grandi 

Montoni, e grossi porci, e una buessa 

Di branco; e il prandio s'apprestava. E intanto 

Dai campi alla cittade andar d' un passo 

Preparavasi Ulisse ed il pastore. 

Pria favellava Eumèo d'uomini capo: 
Stranier, se il mio piacere io far potessi, 
Tu delle stalle rimarresti a guardia. 
Ma, poiché partir brami, e ciò pur vuoisi 
Dal mio signor, le cui rampogne io temo. 
Però che gravi son Tire de' Grandi, 
Moviam : già vedi che scemato è il giorno , 
E infredderà più l'aere in vèr la sera. 
Tai cose ad uom, che non le ignora, insegni, 
Ripigliò il Laerziade. Ebben, moviamo: 
Ma vammi innanzi, e da', se da una pianta 
Il recidesti, un ferte legno, a cui 
Per la via, che malvagia odo, io mi regga. 
Disse, e agli omeri suoi per una torta. 
Corda il suo rotto e vii zaino sospese, 
E il bramato baston porsegli Eumèo. 
Quindi le stalle abbandonar, di cui^ 

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[■(v. 286-271) LIBRO xvii. ^ ^Sll 

iJRimaneano i famigli a guai^dia, e'i cani, 
' Cosi vèr la città sotto le forme 
D'un infelice mendicante e vecchio, 
E curvo sul bastoDo, è con le membra 
Nelle vesti più turpi, il suo Re stesso 
L'amoroso pastore allor guidava. 

Già, vinto il sentiero aspro, alla cittade 
Si fean vicini, ed apparia la bella, 
Donde attignea ciascun, fonte artefatta, 
Che una pura tra Terbe onda volvea. 
Construsaerla tre regi: Itaco prima, 
Poi Nerito e Polittore. Rotondo 
D'anni acquidosi lo cerchiava un bosco. 
Fredda cadea Tonda da un sasso, e sopra 
Un aitar vi sorgea sacro alle Ninfe, 
Dove offria preci il viandante, e doni. 
Qui di Dolio il figlinol, Melanzio, in loro 
S'incontrò; conducea le capre, il fiore 
Del gregge, ai Proci; e il seguiandue pastori. 
Li vide appena, che bravoUi, e indegne 
Saettò in loro, e temerarie voci, 
Che tutto commovean d'Ulisse il core. 
Or si, dicea, che un tristo a un tristo è guida. 
Giove li forma, indi gli accoppia. Dove 
Meni tu quel ghiottone, o buon porcaio, 
Quel mendico importuno, e delle mense 
Pèste, che a molte signorili porte 
Logorerassi gli omeri, di pane 
Frusti chiedendo, non treppiedi, o conche? 
Se tu le stalle a cu>9todir mei dessi, 
E a purgarmi la corte, e a' miei capretti 
La frasca molle ad arrecar, di solo 
Bevuto siere ingrosseria ne' fianchi. 
Ma, poiché solo alle tristi opre intese. 
Travagliar non vorrà, vorrà più ptesto^ 
Di porta in porta domandando, un ventre 

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312 X , ODISSEA / (y. 272-i 

Pascere insaziabile. Ma senti 

Cosa che certo avvenir dee. Se all'alta 

Magion s'accosterà del grande Ulisse, 

Molti sgabelli di man d' uom lanciati 

Alla sua testa voleranno intorno, 

E le coste trarrannogli disloco. 

Ciò disse, ed appressollo, e nella coscia 
Gli die d'un calcio, come stolto ch'era. 
Nò dalla via punto lo smosse: fermo 
Restava Ulisse, e in sé volgea, se l'alma 
Col nodoso baston torgli dovesse, 
O in alto sollevarlo, e su la nuda 
Terra gettarlo capovolto. Ei l'ira 
Contenne e sopportò. Se non ch'Eumèo 
À.1 caprar si converse, e ìmproverollo, 
E, levate le man, molto pregava: 
belle figlie dell'Egioco, Ninfe 
Naiadi, se il mio Re v'arse giammai 
D'agnelli e di capretti i pingui lombi, 
Empiete il voto mio. Rieda, ed un Nume 
La via gli mostri. Ti cadria, capraio, 
Quella superbia dalle ardite ciglia, 
Con cui vieni oltraggioso, e si frequente, 
Dai campi alla città. Quindi per colpa 
De' cattivi pastori a mal va il gregge. 

Oh, oh, Melanzio ripigliò di botto, 
Che mi latra oggi quello scaltro cane. 
Che un giorno io spedirò sovra una bruna 
Nave dalla serena Itaca lunge, - 
Perchè a me in copia vettovaglia trovi? 
Cosi il Dio dal sonante arco d'argento 
Telemaco uccidesse oggi, e dai Proci 
Domo fosse il garzon, come ad Ulisse 
Non sorgerà della tornata il giorno! 

Ciò detto, ivi lascioUi ambo, che lento 
Moveano il piede, e» suo cammin seguendo. 

Digifeed byCjOOQlC 



(v. 308r343) LIBRO XVII. < 813 

D'Ulisse alla magion ratto pervenne. 
Subito entrava, e §*assidea tra i Proci 
Di rimpetto ad Eurimaco, che tutto 
Era il suo amore; né i 'donzelli accorti, 
£ la solerte dispensiera, innanzi 
Un solo istante s'indugiaro a porgli 
Quei parte delle carni, e i pani questa. 

Ulisse ed il pastore al regio albergo 
Giungeano intanto. S'arrestaro, udita 
L'armonia dolce della cava cetra: 
Che l'usata canzon Femio intonava. 
Tale ad Eumèo, che per man prese, allora 
Favellò il Laerziade: Eumèo, d' Ulisse 
La bella casa ecco per certo. Fora, 
Benché tra molte, il ravvisarla lieve. 
L'un pian su l'altro monta, è di muraglia 
Cinto il cortile, e di steccati, doppie 
Sono e salde le porte. Or chi espugnarla 
Potria? Gran prandio vi si tiene, io credo, 
Poiché Todor delle vivande sale, 
E risuona la cetera, cui fida 
VoUer compagna de' conviti i Numi. 

E tu così gli rispondesti, Eumèo: 
Facile a te, che lungo mai dal segno 
Non vai, fu il riconoscerla. Su, via. 
Ciò pensiam, che dee farsi. tu primiero 
Entra, e ai Proci ti mesci, ed io qui resto ; 
O tu rimani, e metterommi io dentro. 
Ma troppo a bada non istar: che forse, 
Te veggendo di fuor, potrebbe alcuno 
Percuoterti, o scacciarti. Il tutto pesa. 

Quel veggio anch'io, che alla tua mente splen- 
Gli replicava il paziente Ulisse. (de, 

Dentro mettiti adunque: io rimarrommi. 
Nuovo ai colpi non sono e alle ferite, 
E la costanza m'insegnare i molti 

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314 ODISSEA {v. 344^379] 

Tra Tarmi e in mar danni sofferti, a cui 
Questo s'aggiungerà. Tanto comanda 
La forza invitta dell'ingordo ventre, 
Per cui cotante Tuom dura fatiche, 
E navi arma talor, che guerra altrui 
Deir infecondo mar portan su i campi. 

Cosi dicean tra lor, quando Argo, il cane, 
Ch'ivi giacca, del paziente Ulisse, 
La testa, ed ambo sollevò gli orecchi. 
Nutrillo un giorno di sua man l'eroe. 
Ma cèrne, spinto dal suo fato a Troia, 
Poco frutto potè. Bensì condurlo 
Centra i lepri, ed i cervi, e le silvestri 
Capre solca la gioventù robusta. 
Negletto allor giacca nel molto fimo 
Di muli e buoi sparso alle porte innanzi, 
Finché, i poderi a fecondar d'Ulisse, 
Nel togliessero i servi. Ivi il buon cane, 
Di turpi zecche pien, corcato stava; 
Com'egli vide il suo signor più presso, 
E, benché tra que' cenci, il riconobbe, 
Squassò ia coda festeggiando, ed ambe 
Le orecchie, che drizzate avea da prima, 
Cader lasciò: ma incontro al suo signore 
Muover, siccome un dì, gli fu disdetto, 
Ulisse, riguardatolo, s'asterse 
Con man furtiva dalla guancia il pianto, 
Celandosi da Eumèo, cui disse tosto: 
Eumòo, quale stupori Nel fimo giace 
Cotesto, che a me par cane si bello. 
Ma non so, se del pari ci fu veloce, 
nulla valse, come quei da mensa. 
Cui nutron per bellezza i lor padroni. 

E tu cosi gli rispondesti, Eumèo: 
Del mio Re lungi morto è questo il cane. 
Se tal fosse di corpo e d'atti, quale 

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(v, 38a-415) LIBRO xvjj. 315 

Lasciollo, a Troia veleggiando, Ulisse, 
Sì veloce a vederlo e si gagliardo, 
Gran maraviglia ne trarresti: fiera 
Non adocchiava, che del folto bosco 
Gli fuggisse nel fondo, e la cui traccia 
Perdesse mai. Or rinfortunio ei sente. 
Peri d'Itaca lungo il suo padrone, 
Né più curan di lui le pigre ancelle; 
Che pochi dì stanno in cervello i servi. 
Quando il padrone lor più non impera. 
L* onniveggente di Saturno figlio 
Mezza toglie ad un uom la sua virtude, 
Come sopra gli giunga il dì servile. 
Ciò detto, il pie nel sontuoso albergo 
Mise, e avviossi drittamente ai Proci; 
Ed Argo, il fido can, poscia che visto 
Ebbe dopo dieci anni e dieci Ulisse, 
Gli occhi nel sonno della morte chiuse. 

Ma l'egregio Telemaco fu il primo 
Che scorgesse il pì^stor nella superba 
Sala passato; e a sé il chiamò d'un cenno, 
Ed ei, rivolto d'ogni intorno il guardo, 
Levò uno scanno ivi giacente, dove 
Seder solea lo scalco, e le infinite 
Carni partire ai banchettanti Proci. 
Levollo, ed a Telemaco di centra 
Il piantò presso il desco, e vi s* assise; 
E delle carni a lui pose davanti 
Lo scalco, e pani dal canestro tolti. 

Ulisse ivi a non molto anch' egli entrava 
Simil ne* cenci e nel baston nodoso. 
Su cui piegava il tergo, a un infelice 
Paltonier d'anni carco. Entrato appena, 
Sopra il frassineo limitar sedea^ 
Con le spalle appoggiandosi ad un saldo 
Stipite cipressin, cui già perito 

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316 owssEA (v, 416451; 

Fabbro alzò a piombo, e ripoli con arte, 
Telemaco il pastor chiama, e togliendo 
Quanto avea pane il bel canestro, e quanta 
Carne nelle sue man capir potea, 
Questo, gli dice, all'ospite tu reca, 
E gli comanda che a ciascun de* Proci 
S'accosti mendicando. A cui nel fondo 
Dell'inopia cascò, nuoce il pudore. 

Andò il pastor repente, e, allo straniero 
Soffermandosi in faccia. Ospite, disse, 
Ciò ti manda Telemaco, e t'ingiunge 
Che mendicando ti presenti a ognuno 
De' Proci in giro. A cui nel fondo, ei dice, 
Dell'inopia cascò, nuoce il pudore. 

E il Laerziade rispondea; Re Giove, 
Telemaco dal ciel con occhio guarda 
Benigno sì, eh' ei nulla brami indarno. 

Detto ciò solo, prese ad ambe mani 
Ulisse il tutto, e colà innanzi ai piedi 
Su la bisaccia ignobile sei pose. 
Finché il diyin Demodoco cantava, 
Cibavasi 1' uom saggio : al tempo stesso 
L'un dal cibo cessò, l'altro dal canto. 
Strepitavano i Proci entro la sala: 
Ma Palla, al figlio di Laerte apparsa, 
L'esortò i pani ad accattar dai Proci, 
Tastando chi più asconda o men tristezza, 
Benché a tutti la Dea scempio destini. 
Ei volse a destra, e ad accattar da tutti 
Gio, stendendo la man, come se mai 
Esercitato non avesse altr'arte. 
Mossi a pietade il soccorreano, e forte 
Stupiano, e domandavansi a vicenda. 
Chi fosse, e donde il forestier venisse. 

E qui Melanzio, Udite, o dell'illustre 
Penelope, dicea, vagheggiatori. 

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(v. 452-487) LIBRO xvii. 3Ì7 

L'ospite io vidi, a cui la via mostrava 
De* porci il guardian: ma da qtial chiara 
Stirpe disceso egli si vanti, ignoro. 

Guardian famosissimo, Antinoo 
Così Eumèo rimbrottò, perchè costui 
Guidasti alla città? Ci mancan forse 
Vagabondanti paltonieri infesti, 
Delle mense flagello? 0, che d'Ulisse 
Qui si nutra ciascun, poco ti cale, 
Che questo ancor, donde io non so, chiamasti ? 

E tal risposta tu gli festi, Eumèo: 
Prode, Antinoo, sei tu, ma ben non parli. 
Chi un forestiero a invitar mai d* altronde 
Va, dove tal non sia che al mondo giovi. 
Come profeta, o sanator di morbi, 
O fabbro industre in legno, o nobil vate, 
Che le nostr'alme di dolcezza inondi? 
Questi invitansi ognor, non un mendico 
Glie ci consumi, e non diletti, o serva. 
Ma tu 1 ministri del mio Re lontano 
Più, che ogni altro de* Proci e de* ministri 
Me più, che ogni altro, tormentar non cessi, 
Npn men curo io però, finché la saggia 
Penelope e Telemaco^ deiforme 
Vivono a me nella magion d'Ulisse. 

Ma Telemaco a lui: Taci, parole 
Non cangiar molte con Antinoo. È usanza 
Di costui 1* assalir con aspri detti 
Chi non 1* offende, e incitar gli altri ancora. 
Poi converso a quel tristo; In ver, soggiunse 
Cura dt me, qual padre, Antinoo prendi 
Tu che 1* ospite vuoi sì duramente 
Quinci sbandire. Ah noi consenta Giove! 
Dagline: io, non che oppormi, anzi l'esigo. 
La madre d'annoiare o alcun de* servi 
Bel padre mio, tu non temer per questo. 

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318 ODISSEA (v. 488-5^ 

Ma cosa tal non è da te, cui solo 
La propria gola soddisfar talenta. 

alto di favella e d'alma indomo, 
D'Eupite disse incontanente il figlio, 
Che parlasti, Telemaco? Se i Proci 
Quel don, eh* io serbo a lui, gli fesser tutti. 
Starsi almeno ei dovria tre lune in casa 
Da noi lontano; e, lo sgabello preso, 
Su cui tenea beendo i molli piedi. 
Alto in aria il mostrò. Gli altri cortesi 
Gli eran pur d* alcun che, sì eh' ei trovossi 
Di carni e pani la bisaccia colma. 
Mentre alla soglia, degli Achivi i doni 
Per gustar, ritornava, ad Antinoo 
Si fermò innanzi, e disse : Amico, nulla 
Dunque mi porgi? Degli Achivi il primo 
Mi sembri, come quei che a Re somiglia. 
Quindi piti ancor, che agli altri, a te s'addice 
Largo mostrarti: io le tuo lodi, il giuro, 
Per tutta spargerò l'immensa terra. 
Tempo già fu ch'io, di te al par felice, 
Belle case abitava, e ad un ramingo, 
Qual fosse, e in quale stato a me venisse. 
Del mìo largia: molti avea servi, e nuli* 
Di ciò falliami, onde gioiscon quelli 
Che ricchi e fortunati il mondo chrama. 
Giove, il perchè ei ne sa, strugger mi volle 
Ei, che in Egitto per mio mal mi spinse 
Con ladroni moitivaghi: viaggio 
Lungo a funesto. Nell'Egitto fiume 
Fermai le ratte navi, ed ai compagni 
Restarne a guardia ingiunsi, e quell'ignota 
Terra ire alcuni ad esplorar dall'alto. 
Ma questi da un ardir folle e da un cieco 
Desio portati, a saccheggiar le belle 
Campagne dagli Egizi, a via menarne 

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(v. 524-559) LiBìio xviL 319 

Le donne e i figli non parlanti, i grami 
Coltivatori a uccidere. Volonne 
Tosto il romore alla città: né prima 
L'alba s'imporporò, che i cittadini 
Vennero, e pieno di cavalli e fanti 
Fu tutto il campo, e del fulgor dell'armi. 
Cotale allora il Fulminante pose 
Desio di fuga de' compagni in petto, 
Che un sol far testa non osava: uccisi 
Fur parte, e parte presi, e ad opre dure 
Sforzati; e ovunque rivolgeansi gli occhi, 
Un disastro apparia. Me consegnaro 
A Demetore Jaside, che in quelle 
Parti era giunto, e dominava in Cipro, 
Dond'io, carco di mali, al fin qua venni. 

£ di novo cosi d'Eupite il figlio: 
Qual Genio avverso una si fatta lue. 
Le nostre mense a conturbar, ci addusse? 
Ti enti nel mezzo, e dal mio desco lunge, 
Se un'altra Egitto amara e un'altra Cipro 
Trovar non brami in Itaca. Io mendico 
Mai non conobbi più impudente e audace. 
T'offri a ciascun l'un dopo l'altro e allarga 
Ciascun par te la man senza consiglio: 
Che rotto cade ogni ritegno, dove 
Regna la copia, e dell'altrui si dona. 
Poh! replicava il Laerziade, indietro 
Ritirandosi alquanto, alla sembianza 
Poco l'animo adunque in te risponde. 
Chi mai creder potria che pur di sale 
A supplicante tu daresti un grano 
Balla tua mensa, tu che un frusto darmi 
Dall'altrui non sapesti, e così ricca? 

Montò Antinoo in più furia, e, torve in lui 
Fissando le pupille. Ora io non penso 
Che uscirai quinci con le membra sane, 

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320 ODISSEA (v. S60-^5) 

Poscia che all'onte ne venisti. Disse, 
E afferrò lo sgabello, ed avventollo, 
E in su la punta de la destra spalla 
Percosse il forestiero. Ulisse fermo 
Stette, qual rupe, né d'Antinoo il colpo 
Smosselo: bensì tacito la testa 
Crollò, agitando la vendetta in core. 
Indi sul limitar sedea di nuovo. 
Deposto il zaino tutto pieno, e ai Proci 
Favellava cosi: Competitori 
Dell* illustre Reina, udir vi piaccia 
Ciò che il cor dirvi mi comanda. Dove 
Pe* campi, per la greggia o per Tarmento 
Pugnando è Tuom ferito, il porta in pace. 
Me per la trista ed importuna fame, 
Gran fonte di disastri, Antinoo offese. 
Ma se ha propizi i Dei, se ha Furie nitrici, 
Chi non ha nulla, della morte il giorno 
Pria, che quel delle nozze, Antinoo colga. 

E d*Eupite il fìgliuol: Tranquillo e assiso, 
Cibati, o forestiere, o quinci sgombra, 
Acciò gli schiavi, poiché si favelli. 
Per li piedi e le man te del palagio 
Non traggan fuori, e tu ne vada in pezzi. 

Tutti d'ira s'accesero, ed alcuno, 
Mal, disse, fosti, Eupltide, un tapino 
Viandante a ferir. Sciaurato! S'egli 
Degli abitanti deirOlimpo fosse? 
Spesso d' estrano pellegrino in forma 
Per le cittadi si raggira un Nume, 
Vestendo ogni sembianza, e alle malvage - 
De' mortali opre, ed alle giuste guarda. 

Tai voci Antinoo dispregiava. Intanto 
Della percossa rea gran duol nel petto 
Telemaco nodria. Non però a terra 
Dalle ciglia una lagrima gli cadde. 

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(v. 596.631) , LIBRO XVII. ' 321 

Sol crollò anch' ei tacitamente il capo, 
Itnminando nel cor l'alta vendetta. 
Ma la saggia Penelope, cui giunse 
L'annunzio in alto dell'indegno colpo, 
Tra le ancelle proruppe in questi accenti: 
Deh cosi lui d'un de* suoi dardi il Nume 
Dal famoso d'argento arco ferisca! 
Ed Eurinome a lei: Se gl'Immortali 
Fesser pieni i miei voti, a un sol de* Proci 
Non mostreriasi la nuov'alba in cielo. 

Nutrice mia. Penelope riprese. 
Mi spiaccion tutti, perchè tutti ingiusti: 
Ma del par che la morte Antinoo abborro. 
Move per casa un ospite infelice 
Dalla sua fame a mendicar costretto; 
Ciascun gli dà, tal eh* ei n' ha il zaino colmo : 
E d'Eupite il figliuol d'uno sgabello 
Nella punta dell'omero il percuote. 

Cotesti accenti tra le ancelle assisa 
Liberò dalle labbra; e in quella Ulisse 
Il suo prandio compiea. Ma la Regina, 
Eumèo chiamato a sé. Va', gli dicea. 
De* pastori il più egregio, ed a me invia 
Quel forestiere, onde in colloquio io seco 
Mi restringa, e richiedagli, se mai 
D'Ulisse udì, se il vide mai con gli occhi, 
Ei, che di gran viaggi uom mi rassembra. 

E tu cosi le rispondesti, Eumèo: 
Oh volesser gli Achei per te, Regina, 
Tacersi alcuni istanti! Ei tal favella. 
Che somma in cor ti verseria dohìezza. 
Io tre giorni, appo mie l'ebbi, e tre notti, 
Che fuggito era da un' odiata nave: 
Né però tutti mi narrò i suoi guai. 
Qual racceso dai Numi illustre vate 
Voce si grata agli ascoltanti innalza, 



322 ODISSEA (v, 632-667] 

Che r orecchio fisgando in lui le ciglia, 
Se dal canto riman, tendono ancora: 
Tal mi beava nella mia capanna. 
Bissemi che di padre in figlio a Ulisse 
Dell'ospitalità stringealo il nodo: 
Che nativo di Creta era, dei- grande 
Minosse culla; e che di là, cadendo 
D'un mal sempre nell'altro, a* tuoi ginocchi 
Venia di gramo supplicante in atto. 
M'affermò che d'Ulisse avea tra i ricchi 
Tesproti udito, che vive anco, e molti 
All'avita magion teso^ri adduce. 

La prudente Penelope a rincontro: 
Vanne, ed a me l'invia, sì ch'io l'ascolti. 
Gli altri fuor delle porte o nel palagio 
Trastullili pur, poscia che han lieto il core. 
Crescono i monti delle lor sostanze. 
Di cui solo una parte i servi loro 
Toccano; ed essi qui l'intero giorno 
Banchettan lautamente, e il fior del gregge 
Struggendo e dell'armento, e le ricolme 
Della miglior vendemmia urne votando. 
Fanno una strage: né v'ha un altro Ulisse. 
Che atto a fermarla sia. Ma l'eroe giunga, 
E piena con Telemaco di tanti 
Barbari oltraggi prenderà vendetta- 
Finito non avea, che il figlio ruppe 
In un alto starnuto, onde la casa 
Risonò tutta. La Regina rise, 
E, va', disse ad Eumèo., corri, e il mendico 
Mandami. Starnutare alle mie voci i 

Non udisti Telemaco? Maturo 
De' Proci è il tato, né alcun fia che scampi. | 
Ciò senti ancora, e in mente il serba. Quando i 
Verace in tutto ei mi riesca, i cenci | 

Gli cangerò di botto in vesti belle. j 

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(v. 668.T03) ; libro xvii. 323 

Corse il fido pastore, e allo straniero, 
Standogli presso, ospite padre, disse. 
Te la saggia Penelope, la madre 
Di Telemaco, vuole: il cor la spinge 
D'Ulisse a ricercar, benché sol dato 
Le abbian sin qui le sue ricerche duolo. 
Quando yerace ti conosca, i cenci 
Ti cangerà di botto in vesti belle. 
Cibo non mancherà chi ti largisca. 
Se tu l'andrai per la città chiedendo, 

Eumèo, rispose il paziente Ulisse, 
Alla figlia d'Icario, alla prudente 
Penelope, da me nulla del vero 
Si celerà. So le vicende appieno 
D'Ulisse, con cui sorte io m'ebbi eguale: 
Ma la turba difficile de' Proci, 
Di cui del ciel sino alla ferrea volta 
Monta l'audace tracotanza, io temo. 
Pur testé, mentr' io già lungo la sala, 
Nulla oprando di mal, percosso io fui; 
E non prevenne il doloroso insulto 
Telemaco, non che altri. Il Sol cadente 
Ad aspettar nelle sue stanze adunque 
Tu la conforta. Mi domandi allora 
Del ritorno d'Ulisse innanzi al foco: 
Poiché il vestito mio mal mi difende. 
Tu il sai, cui prima supplicante io venni. 

Die volta, udito questo, il buon pastóre; 
E Penelope a lui, che già la soglia 
Col pie varcava: Non mei guidi, Eumèo? 
Che pensa il forestier? Tema de* Proci, 
vergogna di sé, forse occupollo? 
Guai quel mendico cui ritien vergognai 

Ma tu cosi le rispondesti, Euméo: 
Ei, come altri farebbe in pari stato, 
De' superbi schivar l'onte desia, ,,,,;,^Goo§le 



324 . ODissr>A ^' (v. 704-727) 

Bensì t'esorta sostener, Regina, 
Finché il dì cada. Cosi meglio voi 
Potrete ragionar sola con solo. 

Gran senno in lai, chiunque sia, dimora, 
Ella riprese: che sì audaci e ingiusti 
Non ha l'intero mondo uomini altrove. 

Eumèo ritorno ai Proci, e di" Telemaco 
Parlando, onde altri non potesse udirlo, 
All'orecchia vicin. Caro, gli disse. 
Lo mandre, tua ricchezza e mio sostegno, 
A custodire io vo. Tu su le cose 
Qui veglia, e piU sovra te stesso, e pensa 
Che i giorni passi tra una gente ostile, 
Cui prima, ch'ella noi. Giove disperda. 

Sì, babho mio, Telemaco rispose. 
Parti, ma dopo il cibo, e al di novello 
Torna, e vittime pingui adduci teco. : 

Tacque; ed Eumèo sovra il polito scanno 
Novamente sedea. Cibato, ai campi 
Ire affrettossi, gli steccati addietro 
Lasciando, e la magion d'uomini piena 
Gozzoviglianti, cui jpiacere il ballo 
£)ra, e il canto piacer, mentre spiegava 
L^ali sue nere sovra lor la Notte. 



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LIBRO DECIMOTTAVO 



ARGOMENTO 

Combattimento tra Irò ed Ulisse, che riman» al di sopra. ^ 
Penelope si presenta ai Proci, e si lagna che insultino gli 
ospiti, e che, aspirando alle nozze di lei. in vece di offe- 
rirle i doni secondo il costume, divorino le sue sostanze. — 
Doni de* Proci a Penelope. —Sopravvenuta la notte, Ulisse 
è insaltato novamento, prima con parole dair ancella Me- 
lanto, e poi da Burimaco, chd uno sgabello, come gièk fece 
Antinoo, lanciagli contro. 



Un accattante pubblico sorvenne, 
Di mendicar per la cìttade usato, 
Famoso Yorator, che mai non disse 
Per molto cibo, e per vin molto, Basta. 
E gigante a vederlo, ancor che poco 
Di forza e cuore in si gran corpo fosse. 
• Egli avea nome Arneo: così chiamoUo, 
Nel dì che nacque, la diletta madre. 
Ma dai giovani tutti Irò nomato 
Ej^a, come colui che le imbasciate 
Portar solca, qual gliene desse il carco. 
Giunto fu appena, che scacciava Ulisse 
Balla sua casa, ed il mordea co* detti: 
Vecchio, via dal vestibolo, se vuoi 
Ch*io non ti tragga fuor per un de* piedi. 
Non vedi l'ammiccar, perch'io ti tragga, 
Di tutti a me? Pur m'arrossisco, e stommi. 
Ma levati, o alle prese io con te vegno. 

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à2Ó ,' ODISSEA \ (t. 19-54 

Bieco Ulisse guatoUo, e Siciagurato, 
, Rispose, in opra io Bon t'offendo, o in voce, 
Né che alcuno a te doni, anco a man piene. 
T'invidio io punto. Questa soglia entrambi 
Ci capirà. Tu non dovresti noia 
Del mio bene sentir, tu, che un mendico 
Mi sembri al par di me. Dispensatori 
Delle ricchezze all'uom sono i Celesti. 
Invitarmi a pugnar non ti consiglio. 
Onde infiammato, benché vecchio, d'ira 
Le labbra io non t* insanguini, ed il petto. 
Più assai tranquillo io ne sarei domane; 
Che alla magion del figlio di Laerte 
Ritorno far tu non potresti, io credo. 

Poh, sdegnato il pezzente Irò riprese. 
Più volubili i detti a questo ghiotto 
Corrono, e ratti più, che non a vecchia 
Che sempre al tbcolar s'aggira intorno. 
S' io queste man pongogli addosso, tutti 
Dalle mascelle, come a ingordo porco 
Entrato fra le biade, i denti io schianto. 
Or bene, un cinto senza più ti cuopra , 
E questi ci conoscano alla pugna. 
Che tosto avremo. Io veder voglio, come 
Con uom combatterai tanto più verde. 

Così sul liscio limitar dell'alte 
Porte garrian d'ingiuriosi motti. 
Avvisossene Antinoo, e, dolcemente 
Ridendo, sciolse tai parole: Amici, 
Nulla di sì giocondo a questi alberghi 
Gli abitator dell'etra unqua mandaro. 
Si bisticcian tra lor l'ospite ed Irò, 
E già le man frammischiano. Su, via. 
Meglio alla zuffa raccendiamli ancora. 

Tutti s'alzare, nelle risa dando, 
E ai due straccioni s'affollaro intorno, 

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. .... I , 

l^v. 5S90) LIBRO XVIII. 327 

2d Àntinoo così; Nobili Proci, 
mentitemi pensier mio. Di que' ventrigli 
>i capre, che di sangue e grasso empiuti 
ESul foco stan per la futura cena, 
Scelga qual più vorrà chi vince, e quindi 
\ D'ogni nostro convito a parte sia; 
Né più tra noi s'aggiri altro cencioso. 

Ciò piacque a tutti. Ma l'accorto eroe. 
Cui non fallian le astuzie. Amici, disse. 
Ad uom dagli anni e dai disastri rotto 
Con giovane pugnar non parmi bello. 
E pur botte a ricevere e ferite 
La rea mi spinge imperiosa fame. 
Ma voi giurate almen che nessuno, Irò 
Per favorir, me della man gagliarda 
Percoterà, male adoprando: troppo 
Mi tornerebbe allor duro il cimento. 

Giurare. E di Telemaco in tal guisa 
La sacra possa favellò; Straniero, 
Di respinger costui ti detta il core? 
Respingilo ; nò alcun temer de* Proci. 
Chi t'oserà percuotere, con molti 
A combattere avrà. Gli ospiti io curo, 
E tal favella non condannan certo 
Eurimaco ed Antinoo, ambo prudenti. 

Disse; e ciascuno approvò il dettò. Ulisse 
Si spogliò tosto, e de* suoi panni un cinto 
Formossi, e nudi i lati omeri, nudo 
Mostrò il gran petto e le robuste braccia, 
E i magni fianchi discoprì: Minerva, 
Che per lui scese dall'Olimpo, tutte 
De* popoli al pastor le membra crebbe. 
Stupirò i Proci fieramente, e alcuno . 
Cosi dicea, volgendosi ai vicino: 
Irò, già non più Iro> in su la testa 
S'avrà tratto egli stesso il suo malanno, 

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328. ODISSEA.. (v. 91-126) 

Tai Ranchi ostenta e tali braccia il veglio 1 
A queste voci malamente d'Irò 
L'animo eommoveasi. E non pertanto 
Col cinto ai lombi, e pallido la faccia. 
Gli schiavi a forza il conducean: su Tossa 
Tremavangli le carni. Antinoo allora 
Prsndealo a rimbrottar: Millantatore, 
Perchè or non muorilo a che nascesti un giorno, 
Tu, che si temi, e tremi, uom dagli affanni, 
Non men che dall'età, snervato e domo? 
Ma odi (^uel che di te fìa. Se a terra 
Con vincitrice man colui ti mette. 
Io te gettato in una ratta nave 
Manderò nell'Epiro al rege Echeto, 
Flagello de' mortali, il qual ti mozzi 
Gli orecchi e il naso con acerbo ferro, 
E, da stracciarsi crudi, a un can vorace 
Butti gli svelti genitali in preda. 

Un tremor gli entrò in corpo ancor più forte: 
Ma il condusser nel mezzo. I due campioni 
Le mani alzare: dubitava Ulisse, 
Se del pugno così dar gli dovesse, 
Che lui caduto abbandonasse l'alma» 
atterrarlo, e non piti, con minor colpo. 
Questo partito scelse, onde agli Achivi. 
Celarsi meglio. Irò la destra spalla 
Ad Ulisse colpi; ma Ulisse in guisa 
Sotto l'orecchia l'investì nel collo, 
Che l'ossa fracassógli; usciagli il rosso 
Sangue fuor per la bocca, ed ei mugghiando 
Cascò, digrignò i denti, e il pavimento 
Calcitrando battè. Gli amanti a quella 
Vista, levate le lor braccia in alto, 
Scoppiavan delle risa. Intanto Ulisse^ 
L'un de' piedi afferratogli il traea 
Pel vestibolo fuor sino alla corte, 

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(v. 127-162) , LiRRO xviu. 329 

E all'entrata del portico. Ciò fcitto, 
Col dosso al muro Tappoggiò, gli pose 
Bastone in mano-, e> Qui, gli disse, or siedi, 
E scaccia, dal palagio i cani e i ciacchi; 
Né più arrogarti, così vii, qual sei, 
Su gli ospiti dominio, e su i mendichi: 
Che un'altra volta non t* incontri peggio. 

Così dicendo, si gittava intorno 
Alle spalle il suo zaino, e al limitare 
Ritornava, e sedeavi. Rientrare 
Con dolce riso in su le labbra i Proci, 
Ed a lui blande rivolgean parole: 
Ospite, Giove a te con gli altri Numi 
Quanto più brami, e t' è più caro, invii, 
A te, che la città smorbasti a un tratta 
Di questo insaziabile accattone. 
Che ad Echeto, degli uomini flagello, 
Tra poco andrà su gli Epiroti lidi. 

Così parlaro; e dell'augurio Ulisse 
Godea nell'alma; e Antinoo un gran ventriglio 
Di sangue e di pinguedine ripieno 
Gli recò innanzi. Ma il valente Anfinomo 
Due presenlògli dal canestro tolti 
Candidissimi pani, e, propinando 
Con aurea tazza, Salve, disse, o padre, 
Porestier, salve : se infelice or vivi, 
Lieti scorranti almeno i dì futuri. 

Anfinomo, l'eroe scaltro rispose. 
D'intendimento e di ragion dotato, 
Mi sembri, e in questa tu ritrai dal padre, 
Da Niso Dulichiense, ond'io la fama 
Sonare udia, buono del par, che ricco. 
Da cui diconti nato ; e fede ancora 
Ne fa il tuo senno, e le parole e gli atti. 
A te dunque io favello, e tu i miei detti 
Ricevi, e serba in te. Sai tu di quanto 

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330 ^ , ODISSEA * (v. 163Ì9S 

Spira, e passeggia su la terra, o serpe, 
Ciò che al mondo avvi dì più infermo ? È ruomo. 
Finché stato felice i Dei gli danno, 
E il suo ginocchio di vigor fiorisce, 
Non crede che venir debhagli sopra 
L'infortunio giammai. Sopra gli viene? 
Con ripugnante alma iudegnata il soflPre: 
Ohe quali i giorni son, che foschi o chiari 
De' mortali il gran padre e de' Celesti 
D'alto gli manda, tal dell'uomo è il cuore. 
Vissi anch' io vita fortunata e illustre, 
E," secondando la mia forza, e troppo 
Nel genitor fidando e ne' germani, 
Non giuste, vaglia il vero, opre io commisi. 
Ma ciascuno a ben far dee por l'ingegno, 
E quel, che dai Numi ha, fruir tranquillo: 
Ne costoro imitar, che iniquamente 
Struggono i beni, e la pudica donna 
Oltraggian d'un eroe, che lungo tempo 
Dalla sua patria e dagli amici, io credo. 
Lontano ancor non rimarrà: che a questi 
Luogi anzi è assai vicino. Al tuo ' ricetto 
Quindi ppssa guidarti un Dio pietoso, 
E tòrti agli occhi suoi, com' egli appaia: 
Poiché decisa senza molto sangue. 
Messo ch'egli abbia in sua magione il piede, 
Non fla tra i Proci e lui l'alta contesa. 
Libò, ciò detto, e accostò ai labbri il nappo, 
E tornello ad Anfìnomo. Costui 
Per la sala iva, conturbato il core, 
E squassando la testa, ed il suo male 
Divinando, ma invan: fuggir non puote; 
Legato anch'ei da Palla, onde cadesse 
Per Tasta di Telemaco. Nel seggio. 
Donde sorto era, si ripose intanto. 
Ma d'Icario alla figlia, alla prudente 

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(v. 199.S34) ^ LIBRO xvirì..^ à31 

Penelope, la Dea dai glauchi lumi 
Spirò il disegno di mostrarsi ai Proci, 
Perchè lor s'allargasse il core in petto 
Di nuova speme; ed in onor più grande 
Presso il consorte e il figlio ella salisse. 
Diede, né hen sa come, in un gran riso, 
E tai detti formò : sento un desire 
Non prìa sentito di mostrarmi ai Proci, 
Eurinome, bench'io tutti gli abborra. 
Utile avviso in lor presenza io bramo 
A Telemaco dare, il qual troppo usa 
Con que' superbi giovani, che accenti 
Ti drizzan blandi, e insìdianti da tergo. 

Saggio è il consiglio, Eurìnome rispose. 
Va', figlia, dunque, ed il tuo nato assenna. 
Ma pria ti lava, e su le guance poni 
L'usato unguento. Apparir vuoi con fticcia 
Dalle lagrime tue solcata e guasta? 
Quel pianger sempre, e dall'un giorno all'altro 
Nulla divario far, poco s'addice, 
(xià venne il figlio nell'età fiorita, 
In cui vederlo con l'onor del mento 
Sì ardentemente supplicavi ai Numi. 

Per zelo che di me l'alma ti scaldi, 
Replicava Penelope, di bagni, 
Eurinome, o di lisci or non parlarmi. 
Il dì che Ulisse s' imbarcò per Troia, 
Tolsermi ogni beltà dal volto i Numi. 
Bensì Autonoe mi chiama, e Ippodamia, 
Che da lato mi stieno. Ai Proci sola 
Non offrirommi : che pudor mei vieta. 
Tacque ; e la vecchia Eurìnome le donne 
A chiamar tosto, e ad affrettarle, uscio. 

Ma, l'occhiazzura Dea, nuovo pensiero 
Formando nella mente, alla pudica 
Figlia d'Icario un molle sonno infuse. 

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332 ' * ' .Oi>issBA "(v. 235-270) 

Mentro glacea sovra U suo seggio, e tutte 

Il molle sonno le sciogliea le jnembra. 

Palla Minerva di celesti doni 

La rifornìa, perchè di lei più sempre 

Invaghisser gli Achei. Pria su le guance 

Quella, che tien dalla bellezza il nome. 

Sparse divina essenza, onde si lustra 

La inghirlandata d'or Vener, se mai 

Va delle Grazie al dilettoso ballo : 

Poi di corpo la crebbe, e ricolmolla 

Nel volto, e tal su lei candor distese, 

Che l'avorio tagliato allora allora 

Ceder doveale al paragon. La Diva 

Risalì deir Olimpo in su le cime. 

Venner le ancelle strepitando, e ratto. 
Si riscosse Penelope dal sonno, 
E con man gli occhi stropicciossi e disse: 
Qual dolce sonno della sua fosc'ombra 
Me infelice coprì? Deh così dolce 
Morte subitamente in me la casta 
Artemide scoccasse; ed io Tetade 
Piti non avessi a consumar nel pianto. 
Sospirando il valor sommo, infinito 
D*un eroe, cui non sorse in Grecia il pari. 

Così detto, scendea dalle superne 
Lucide stanze al basso, e non già sola. 
Ma con Autonoe e Ippodamia da tergo. 
Sul limitar della Dedàlèa sala. 
Ove i Proci sedean trovasi appena, 
Che arresta il pie tra Tuna e l'altra ancella 
L'ottima delle donne, e co'sottili 
Veli del capo ambe le guance adombra. 
Senza forza restaro e senza moto: 
L'alma più inteneria, si raddoppiava 
Delle nozze il desire in ogni petto. 
Ella queste a Telemaco parole: 

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(v. 271-306) - LIBRO xvni. ' 333 

Figlio, io te più non riconosco. Sensi 
Nutrivi in mente più maturi e scorti 
Nella tua fanciullezza; ed or che grande 
Ti veggio, e in un'età più ferma entrato, 
Or che stranier, che a riguardar si fesse 
La tua statura e la heltà, te prole 
D' uom beato dirla, più non dimostri 
Giustizia o senno. Tollerar sì indegno 
Trattamento d'un ospite in tua reggia 1 
Oltraggio sì crudel, che vendicato 
Non siagli, puote a un forestier qui usarsi. 
Che su te non ne cada eterno scorno? 

Il prudente Telemaco rispose: 
Madre, perchè ti crucci, io non mi sdegno. 
Meglio, che pria ch*io di fanciullo uscissi, 
Lo umane cose, il pur mi credi, intendo, . 
E tra lor non confondo il torto e il dritto. 
Ma tutto oprare, o antiveder, non valgo. 
Circondato qual sono e insidiato 
Da fiera gente, e d'assistenti solo. 
Quanto alla lotta tra l'estranio ed Irò, 
Parte i Proci non v'ebbero, e del primo 
Fa la vittoria. Ed oh ! piacesse al padre 
Giove, e alla Diva Pallade, e ad Apollo, 
Che. tentennasse a cotestor già domi 
La testa, e si sfasciassero le membra, 
Nel vestibolo agli uni, e agli altri in sala 
Come a quell'Ire, che alle porte or siede 
Dell'atrio, il capo qua e là piegando. 
D'un ebbro in guisa, e che su i piedi starsi 
Non può, né a casa ricondursi: tanto 
Le membra riportonne afflitte e péste. 

Cosi la madre e il figlio. Indi tai voci 
Eurìmaco a Penelope drizzava: 
Figlia d'Icario, se te vista tutti 
Avesser per l'Iasio Argo gli Achivi, 

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334 ODISSEA. . (v. 307-342; 

Turba qui di rivali assai più folta 
Banchetteria dallo spuntar dell'alba : 
Che non v'ha donna che per gran sembiante, 
Per bellezza e per senno a te s* agguagli. 

E la nobile a lui. d'Icario figlia : 
Eurìmaco, Tirtù, sembianza, tutto 
Mi rapirò gli Dei, quando gli Argivi 
Sciolser per Troia, e con gli Argivi Ulisse. 
S'egli, riposto in sua magione il piede, 
A reggere il mio stato ancor prendesse. 
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia. 
Ora io m'angoscio: tanti a me sul capo 
Mali piombare. Ei, d'imbarcarsi in atto, 
Prese la mia con la sua destra, e, Donna, 
Disse, non credo io già che i forti Achei 
Da Troia tutti riederanno illesi: 
Poiché sento pugnaci essere i Teucri, 
Gran sagittari, e cavalieri egregi. 
Che pel campo agitar sanno i destrieri 
Rapidamente; quel che in breve il fato 
Delle guerre terribili decide. 
Quindi, se me ricondurran gli Eterni, 
O Troia riterrà morto, o cattivo, 
Sposa, io non so. Tu sovra tutto veglia. 
Rispetta il padre mio, la madre onora, 
Come oggi, od ognor più, fì.nch*io son luuge. 
E allor che del suo pel vedrai vestito 
Del figlio il mento, a qual ti fia più in grado, 
Lasciando la magion, vanne consorte. 
Tal favellava; ed ecco giunto il tempo. 
L'infausta notte apparirà, che dee 
Portare a me queste odiose nozze, 
A me, cui Giove ogni letizia spense. 
Ma ciò la mia tristizia oggi più aggrava, 
Che gli usi antichi non si guardan punto. 
Color, cho donn£k illustre e d'uom possente 

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{v. 343^378) xiBBO xvau 335 

Figlia uà di ambiano, e contentieaa tra loro, 

Belle conducean vittime, gli amici 

Per convitar della bramata donna, 

E doni aqTiesta offrian: non già raitrui 

Struggeano impunemente a mensa assisi. 

Disse, e l'eroe gioì ch'ella in tal modo 
De' Proci i doni procurasse, e loro 
Molcesse il petto con parole blande, 
Mentre in fondo del core altro volgea. 

Ma cosi Antinoo allor: Nobil d'Icario 
Figlia, saggia Penelope, ricevi 
I doni che gli Achei già per offrirti 
Sono, e cui fora il ricusar stoltezza; 
Ma noi di qua non ci torrem, se un prima 
De' pi il illustri fra noi te non acquista. 

Piacquero i detti ; e alla sua casa ognuno 
Per li doni spedi. L'araldo un grande 
Recò ad Antinoo, e variò, e assai bel peplo, 
Che avea dodici d'or fibbie lampanti. 
Con ardiglioni ben ricurvi attate. 
Eurimaco un monile addur si fece. 
D'oro, e intrecciato d'ambra, opra da insigne 
Mastro sudata, che splendea qual sole. 
Due serventi portare a Euridamante 
Finissimi orecchini a tre pupille. 
Donde grazia infinita uscia di raggi. 
Pregio non fu men prezioso il vezzo. 
Che re Pisandro, di Polittor figlio. 
Dalle mani d'un servo ebbe ; e non meno 
Belli d'ogni altro Acheo parvero i doni. 
La divina Penelope, seguita 
Dall'ancelle, co' doni alle superne 
Stanze montava; e i Proci al ballo e al canto, 
Finché, a romper nel mezzo i lor diletti, 
L' pmbra notturna sovra lor cadesse. 
Caduta sovra lor l'ombra notturna, 

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336 ODISSEA (v. 379-414) 

Trtì gran bracièri saettanti luoa,- 
Cui legne secche e dure, e fesse appena, 
Nodrìano, i servi collocar nel mezzo; 
E allumar qua e là più faci ancora. 
Cura di questi fuochi aveano alterna 
Le donne del palagio. A. queste feo 
Tai detti il ricco di consigli Ulisse: 
Schiave d'Ulisse, del Re vostro assente 
Per sì luDga stagion, la veneranda 
Regina vostra a ritrovar salite. 
Fusi rotando, o pettinando lane, 
Sedetele vicino, e ne* suoi mali 
La confortate. Mio pensier frattanto 
Sarà, che ai Proci non fallisca il lume. 
Quando attendere ancor volesser Falba, 
Me non istancheran: che molto io sono 
Da molto tempo a tollerare avvezzo. 

Questi detti lor feo. Riser le ancelle, 
E a vicenda guardavansi, e schernirlo 
Con villane parole una Melante, 
Bella guancia, s' ardìa. Dolio costei 
Generò, ma Penelope nutrilla. 
Siccome figlia, nulla mai di quanto 
Lusinga le fanciulle a lei negando: 
Né s'afflisse per ciò con la Regina 
Melante mai, che anzi tradiala, e s'era 
A Eurimaco d'amor turpe congiunta. 
Costei pungea villanamente Ulisse: 
Ospite miserabile, tu sei 
Un uomo, io credo, di cervello uscito, 
Tu, che in vece d'andar nell'officina 
D'un fabbro a coricarti, o in vii taverna, 
Qui tra una schiera te ne stai di prenci , 
Lungo cianciando, e intrepido. Alla mente 
Ti sali senza forse il molto vino, 
d'un briaco hai tu la mente, e quindi 

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(v. 415-450) LifeRo xviii. ' S37 

Senza costrutto parli. esulti tanto, 
Perchè il ramingo Irò vincesti? Bada, 
Non alcun qui senza indugiare, insorga , 
Che» d'Irò assai miglior^ te nella testa 
Con le robuste man pesti, e t'insozzi 
Tutto di sangue, e del palagio scacci. 

Bieco guatolla, e le rispose Ulisse: 
Cagna, io ratto a Telemaco i tuoi sensi, 
Perch'ei ti tagli qui medesmo in pezzi, 
A riportare andrò. Cosi dicendo. 
Le femmine atterrì, che per la casa 
Mosser veloci; benché a tutte forte 
Le ginocchia tremassero: si presso 
Ciò ch'ei lor detto avea, credeano al vero. 
Ei si fermò presso i bracieri ardenti, 
La luce ravvivandone, e tenendo 
Gli occhi ne' Proci ognor, mentre nemiche 
Cose agitava, e non indarno, in petto. 

Minerva intanto non lasciava i Proci 
Rimanersi dall' onte, acciò in Ulisse 
Crescer dovesse col dolor lo 'sdegno. 
Eurimaco di Pòlibo parlava 
Primo, l'eroe mordendo, e a nuovo riso 
Provocando i compagni: Udite« amanti 
Deir inclita Regina, un mio pensiero. 
Che tacer non poss'io. Non senza un Nume 
Venne costui nella magion d' Ulisse. 
Splender gli veggo come face, il capo, 
Sovra cui non ìspunta un sol capello. 
Quindi, al rovesciator delle munite 
Città converso, Forestier, soggiunse, 
Vorrestù a me servir, s'io ti pigliassi 
Per assestar nel mio poder le siepi, 
E gli alberi piantar? Buona mercede 
Tu ne otterresti: cotidiano vitto, 
E vestinienti al dosso, e ai piò calzari. 

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338 " ODISSEA (V.-451-48C 

Ma perchè sol fosti di vizi a scuola. 
Anzi che faticar, pittocar vuoi, 
Onde, se t*è possibile, sfamarti. 

Eurlmaco, rispose il saggio Ulisse , 
Se tra noi gara di lavor sorgesse 
A primavera, quando il giorno allunga, 
E con adunche in man falci taglienti 
Ci ritenesse un prato ambo digiuni 
Sino alla notte, e non mancasse Terba; 
O fosser da guidare ad ambo dati 
Grandi, rossi, gagliardi, e d'erba sazi 
Taurì d'etade e di virtude uguali, 
E date quattro da spezzar sul campo 
Sode bubulce col pesante aratro, 
Vedresti il mio vigor, vedresti, come 
Aprir saprei dritto e profondo il solco! 
Poni ancor, che il Saturnio un'aspra guerra 
Da qualche parte ci volgesse addosso. 
Ed io scudo e due lance, ed alle tempie 
Salda celata di metallo avessi, 
Misto ai primi guerrier mi scorgeresti 
Nella battaglia, e Y importuna fame 
Oittare a me non oseresti in faccia. 
Or protervo è il tuo labbro, e duro il core, 
E forte in certa guisa, e grande sembri, 
Perche con poca gente usi, e non brava: 
Ma Ulisse giunga, o appressi almeno, e queste 
Porte, benché assai larghe, a te già vòlto 
Negli amari, cred'io, passi di fuga 
Deh come a un tratto sembreriano anguste! 

Eurimaco in maggior collera salse, 
E, guardandolo bieco. Ah ! doloroso, 
Disse, vuoi tu ch'io ti diserti? Ardisci 
Cosi gracchiar fra tanti , e nulla temi ? 
O il vin t'ingombra, o tu nascesti pazzo, 
O quel vinto Irò ti cavò di senno. 

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(v. 487-522> LIBRO xviii. 539 

Ciò detto, prese lo sgabel: ma Ulisse 
S'abbassava d'Anfìnomo ai ginocchi, 
Per cannarsi da Eorimaco, che in vece 
Nella^man destra del coppier percosse. 
Cascata rimbombò la coppa in terra, 
E il pincerna ululando andò riverso. 
Strepitavano i Proci entro la sala 
Dall'ombre cinta della notte; e alcuno, 
Mirando il suo vicin, Morto, dicea. 
Prima che giunto qua, l'ospite fosse! 
Portato non ci avria questo sì grave 
Tumulto. Or si battaglia, e per chi dunque? 
Per un mendico: e già svanì de' nostri 
Prandi il diletto, ed il più vii trionfa, 

E Telemaco allor: Che insania è questa, 
Miseri, a cui non cai piti della mensa ? 
Certo vi turba e vi commuove un Dio. 
Su, via, poiché de' cibi e de* licori 
Tacerà il desiderio in tutti voi. 
Ite a corcarvi, se vel detta il core. 
Ne* vostri alberghi: che nessuno io scaccio. 

Tutti, mordendo il labbro, alle sicure 
Parole di Telemaco stupirò. 
Ma tra lor sorse Anfinomo, l'illustre 
Fìgliuol di Niso: Amici, a chi ben parla 
Sinistro più non si risponda, o acerbo, 
Né l'ospite s'oltraggi, o alcun de' servi, 
Che in corte son del rinomato Ulisse. 
Muova il coppiere in giro, e poscia, fatti 
I libamenti, nelle nostre case, 
Le membra al sonno per offrir, si vada 
E si lasci a Telemaco la cura 
Dello stranier, quando al suo tetto ei venne. 

Disse, e non fu, cui non piacesse il detto. 
L'inclito Mulio, il Dulichiense araldo 
D'Anffnomo, versò dall'urna il vino, 

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S40 ODISSEA (v. 623.528) 

E a tutti in giro^^ nelle tazze il porse : 
Ed i Proci libaroj e del licore 
Dolce, qual mèle, s' inondare il petto. 
Ma com'ebber libato, e a piena voglia 
Bevuto, ognun, per dar le membra al sonno, 
Affrettò di ritrarsi al proprio albergo. 



LIBRO DECIMONONO 



ARGOMENTO 

Partiti ì Proci, trasportano Ulisse e Telemaco Tanm nelle 
stanze superiori. -^ Telemaco va a coricarsi ; e Pendope 
scende per favellar con Ulisse, che solo è rimasto. ~ Questi 
finge ana storia, che la Reginii ode con grande commozion 
d* animo. --< La nutrice Euricléa riconosce , lavandolo , 
Ulisse. *« Penelope gli narra on sogno, e gli palesa il 
cimento che intende proporre ai Proci, come condìzion delle 
nozze alle quali non può oramai più sottrarsi. 

Nell'ampia sala sì rimanea l'eroe, 
Strage con Palla macchinando ai ProcL 
Subito al figlio si converse, e disse: 
Telemaco, levar di questi luoghi 
L'armi conviene, e trasportarle in alto. 
Se le bell'armi chiederanno i Proci y 
Con parolette a lusingarli vólto, 
Io, lor dirai, dal fumo atro le tolsi. 
Perchè non eran più quali lasciolle 
Ulisse il giorno che per Troia sciolse ; 
Ma deturpate, scolorate , ovunque 
Il bruno le toccò vapor del foco. 



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(v/ 13^48) LIBRO XIX. 341 

Sovra tutto io temei, né senza un Nume 
Destossi in me questo timor, non forse 
Dopo molto votar di dolci tazze 
Tra voi sorgesse un' improvvisa lite , 
E Tun l'altro ferisse, ed il convito 
Contaminaste, e gli sponsali. Grande 
Allettamento è alFuom lo stesso ferro. 

Telemaco seguì del suo diletto 
Padre il comando, e alla nutrice, cui 
Tosto a sé dimandò. Mamma , dicea , 
Sa, via, ritieni nelle stanze loro 
Le femmine rinchiuse, in sin ch'io Tarmi, 
Che qui nella mia infanzia, e nell' asi^enza 
Del padre, mi guastò neglette il fumo, 
Trasporti in alto. Collocarle io voglio, 
Dove del foco non le attinga il vampo. 

Ed Euriclèa; Figlio, rispose, in petto 
Deh ti s'annidi al fin senno cotanto. 
Che regger possi la tua casa, e intatti 
Serbar gli averi tuoi! Ma chi la strada 
Ti schiarerà? Quando non vuoi che innanzi 
Con le fiaccole in man vadan le ancelle. 

Il forestier, Telemaco riprese. 
Chi si nutre del mio, benché venuto 
Di lunge, io mai non patiroUo inerte. 
Tanto bastò a colei, perché ogni porta 
Del ben construtto ginecèo fermasse. 

Ulisse incontanente e il caro figlio 
Corréano ad allogar gli elmi chiomati. 
Gli umbilicati scudi e l'aste acute; 
E avanti ad ambo TAtenea Minerva, 
Tenendo in mano una lucèrna d' oro. 
Chiarissimo spargea lume d'intorno. 
E Telemaco al padre : padre , quale 
Portento ! Le pareti ed i bei palchi, 
E le travi d' abete e le sublimi 

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342 ODISSEA ■ ^ (v. 4d-84) 

Colonne a me rifolgorare io veggio. 
Scese, io credo, qua dentro alcun de' Numi. 
Taci, rispose Ulisse: i tuoi pensieri 
Rinserra in te, né cercare oltre. Usanza 
Degli abitanti dell'Olimpo è questa. 
Or tu vanne a corcarti; io qui rimango 
Le ancelle a spiar meglio, e della saggia 
Madre le inchieste a provocar, che molte 
Certo, ed al pianto miste, udire avviso. 

Disse ; e il figliuolo indi spiccossi, e al vivo 
Delle faci splendor nella remota 
Cella si ritirò de' suoi riposi , 
L'aurora ad aspettar: ma nella sala. 
Strage con Palla agli orgogliosi Proci, 
Architettando, rimanea 1' eroe. 

La prudente Reina intanto uscìa 
Pari a Diana, e all'aurea Vener pari, 
Della stanza secreta. Al foco appresso 
L'usato seggio di gran pelle steso, 
E cui d'Icmalio l'ingegnosa mano 
Tutto d'avori e argenti avea commesso, 
Le collocare: sostenea le piante 
Un polito sgabello. In questa sede 
La madre di Telemaco posava. 
Venner le ancelle dalle bianche braccia 
A tor via dalle mense il pan rimasto, 
E i vóti nappi, onde bevean gli amanti. 
Poi dai bracieri il mezzospento foco 
Scorsero a terra, e nuove legna, e molte, 
Sopra vi accatastar, perchè schiarata 
La sala fosse, e riscaldata a un tempo. 
Melante allor per la seconda volta 
Ulisse rampognava: Ospite, adunque 
La notte ancor t'avvolgerai molesto 
Per questa casa, e addocchierai le donne? 
Fuori, sciagurato, esci, e del convito, 

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(v. ^.120) ^ LIBRO XIX. 343 

Che ingoiasti, t'appaga, o ver, percosso 
Da questo tizzo, salterai la soglia. 

Con torvo sguardo le rispose Ulisse : 
Malvagia, perchè a me guerra sì atroce? 
Perchè la faccia mia forse non lustra? 
Perch' io mal vesto, e, dal bisogno astretto, 
Qaal tapino uomo, e viandante, accatto? 
Felice un giorno anch' io splendidi ostelli 
Tra le genti abitava, e ad un ramingo, 
Qual fosse, o in quale stato a me s'offrisse, 
Bel mio largia; molti avea servi, e nulla 
Di ciò mi venia meno ond'è chiamato 
Ricco, e beata l'uom vita conduce. 
Ma Giove, il figlio di Saturno, e nota 
La cagione n'è a lui, disfar mi volle. 
Guarda però, non tutta un giorno cada. 
Donna, dal viso tuo quella beltade, 
Di cui fra l'altre ancelle or vai superba: 
Gaarda, non monti in ira, e ti punisca 
La tua. padrona ; o non ritorni Ulisse , 
Come speme ne' petti ancor ne vive. 
E s'eiperì, tal per favor d'Apollo 
Fuor venne il figlio dall'acerba etade. 
Che femmina, di cui sien turpi i fatti, 
Mal potria nel palagio a lui celarsi. 

Udì tutto Penelope, e l'ancella 
Sgridò repente : O temerario petto , 
Cagna sfacciata, io pur nelle 4ue colpe. 
Che in testa ricadrannoti, ti colgo; 
Sapevi ben, poiché da me l'udisti. 
Ch'io lo straniero interrogar volea, 
Un conforto cercando in tanta doglia. 

Dopo questo, ad Eurinome si volse 
Con tali accenti: Eurinome, uno scanno 
Reca, e una pelle, ove, sedendo, m'oda 
L'ospite favellargli, e mi risponda. 

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344 "^ ODISSEA ' (v. 121«1d6) 

Disse ; e la dispensiera un liscio scanno 
Recò in fretta, e giìr pose, e d'una deiisa 
Pelle il coprì. Vi s'adagiava il molto 
Dai casi afflitto^ e non naai domo, Ulisse, 
Cui Penelope a dir così prendea: 
Ospite, io questo chiederotti in prima. 
Chi? di che loco? e di che stirpe sei? 

E Ulisse, che piti là d* ogni uomo seppe: 
Donna, esser può giammai pel mondo tutto 
Chi la lingua snodare osi in tuo biasmo? 
La gloria tua sino alle stelle sale, 
Qual di Re sommo, che sembiante a un Nume, 
E su molti imperando uomini, e forti, 
Sostiene il dritto: la ferace terra 
Di folti gli biondeggia orzi e frumenti. 
Gli arbor di frutti aggravansi, robuste 
Figlian le pecorelle, il mar dà pesci 
Sotto il prudente reggimento, e giorni . 
L'intera nazion mena felici. 
Ma pria, che della Patria e del linguaggio, 
Di tutt'altro mi chiedi, acciò non cresca 
Di tai memorie il dolor mio più ancora. 
Un infelice io son, né mi conTiene . 
Seder, piagnendo, nella tua magione: 
Che i suoi confini ha il pianto, e ai luoghi vuoisi 
Mirare, e ai tempi. Se non tu, sdegnarsi 
Ben potria contro a me delle serventi 
Tue donne alcuna, e dire ancor, che quello, 
Che fuor m'esce degli occhi, è il molto vino. 

E la saggia Penelope a rincontro : 
Ospite, a me virtù, sembianza, tutto 
Rapito fu deigli immortali, quando 
Co' Greci ad Ilio navigava Ulisse. 
S'ei rientrando negli alberghi aviti, 
A reggere il mio stato ancor togliesse, 
Ciò mia gloria sarebbe, e beltà mia, 

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(V. 157-1192) LiBEo XIX. ' 345 

Or le Gure m'opprimono, ehe molte 
Manderò a me gli abitator d'Olimpo. 
Qaanti lia Dulichio e Same , e la selvosa 
Zacinta, e la serena Itaca prenci, 
Mi ambiseon ripugnante ; e sottosopra 
Volgoa cosi la reggia mia, che poco 
Agli ospiti ornai fommi, e ai supplicanti 
Veder, né troppo degli araldi io curo. 
Io mi consumo, sospirando Ulisse. 
Quei m'affrettano intanto all'abborrito 
Passo, ed io centra lor d'inganni m'armo, 
Pria grande a oprar tela sottile, immensa, 
Nelle mie stanze, come un Dio spirommi. 
Mi diedi, e ai Proci incontanente io dissi: 
Griovani, amanti miei, tanto vi piaccia, 
Quando già Ulisse tra i defunti scese, 
Le mie nozze indugiar , eh' io questo possa 
Lugubre ammanto por l'eroe Laerte, 
Acciocché a me non péra il vano stame 
Prima fornir, che T inclemente Parca 
Di lunghi sonni apportatrice il colga. 
Non vo'xjhe alcuna delle Achèe mi morda, 
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo. 
Fallisse un drappo, in cui giacersi estinto* 
A questi detti s'acchetaro. Intanto 
Io, finché il dì splendea, l' insigne tela 
Tesseva, e poi la distessea la notte 
Di mute faci alla propizia fiamma. 
Un triennio cosi l'accorgimento 
Sfuggii degli Achei tutti, e fede ottenni. 
Ma, giuntomi il quarto anno, e le stagioni 
Tornate in sé con lo scader de' mesi, 
E de' celeri di compiuto il giro. 
Colta dai Proci, per viltà di donne 
Nulla di me curanti, alla sprovvista, 
E gravemente improverata, il drappo 

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346 ' . ODISSEA (v. 193-228) 

Condurre al termia suo dovei per forza. 
Ora io né declinar le odiate nozze 
So, né trovare altro compenso. A quelle 
M'esortano i parenti, e non comporta 
Che la sua casa gli si strugga, il figlio. 
Che omai tutto conosce, e al suo retaggio 
Intender può, qual cui dà gloria Giove. 
Ad ogni modo la tua Patria dimmi, 
Dimmi la stirpe: d*un pietra certo 
Tu non uscisti, o d'una quercia, <;oma 
Suona d'altri nel mondo antica fama. 

veneranda, le rispose Ulisse, 
Donna del Laerziade, il mio lignaggio^ 
Saper vuoi dunque? Io te l'insegno. È vero 
Che augumento ne avran gli affanni miei, 
Naturai senso di chiunque visse 
Misero pellegrin molt'anni e molti 
Dalla Patria lontan: ma tu non cessi 
D'interrogarmi, e satisfarti io voglio. 
Bella e feconda sovra il negro mare 
Giace una terra che s* appella Creta, 
Dalle salse onde d'ogni parte attinta. 
Gli abitanti v'abbondano, e novanta. 
Contien cittadi, e la favella ò mista: 
Poiché vi son gli Achei, sonvi i natii 
Magnanimi Cretesi ed i Cidonii, 
E i Dorii in tre divisi, e i buon Pelasgi. 
Gnosso vi sorge, città vasta, in cui 
Quel Minosse regnò, che dal Tonante 
Ogni nono anno era agli arcani ammesso. 
Ei generò Deucalione, ond'io 
Cui nascendo d'Etón fu posto il nome. 
Nacqui, e nacque il mio frate Idomenéo 
Di popoli pastor, che di virtute 
Primo, non che d'età, co' degni Atridi 
Ad Ilio andò su le rostrate navi, 

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(v. 229-264) LIBRO xix. 347 

Là» vidi Ulisse, ed ospitali doni 
Gli feci. A Creta spinto avealo un forte 
Vento, che, mentr'ei pur vèr la superba 
Troia tendea, dalle Malee lo svolse, 
E il fermò neirAmniso, ove lo speco 
D' Ilitia s'apre in disastrosa piaggia. 
Sì che scampò dalle burrasche appesa. 
Entrato alla città, d'Idomenèo, 
Ohe venerando e caro egli chiamava 
Ospite suo, cercò: se non che il giorno 
Correa decimo, o undecime, che a Troia 
Passato il mio fratello era sul mare. 
Ma io l'addussi nel palagio, a cui 
Nulla d'agi mancava, e dove io stesso 
QaeH'onor gli rendei, ch'io seppi meglio. 
E fu per opra mia che la cittade 
Bianco pan, dolce vino, e buoi da mazza, 
I suoi compagni a rallegrar, gli diede. 
Dodici dì nell'isola restaro. 
Perchè levato da un avverso Nume 
Imperversava un Aquilou sì fiero. 
Che a stento si reggea l'uomo su i piedi. 
Quello il di terzodecimo al fin cadde; 
E solcavan gli Achei l'onde tranquille. 
Cosi fingea, menzogne molte al vero 
Simili profferendo: ella, in udirle, 
Pianto versava, e distruggeasi tutta. 
E come neve che su gli alti monti 
Subito vento d'Occidente sparse, 
Scioglieasi d'Euro all'improvviso fiato. 
Sì che gonfiati al mar corrono fiumi: 
Tal si stemprava in lagrime, piangendo 
L'uom suo diletto, che sedeale al fianco. 
Della consorte lagrimosa Ulisse 
Pietà nell'alma risentia: ma gli occhi 
Stavangli, quasi corno o ferro fos^e, 

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348 ODISSEA (V. 265-300) 

Nelle palpebre immoti, e gli stagnava 
Nel' petto ad arte il ritenuto pianto. 

Ella, poiché di lagrime fu sazia. 
Così ripigliò i detti: Ospite, io voglio 
Far prova ora di te, se qual racconti, 
Ulisse, e i suoi, tu ricettasti in Creta. 
Dimmi: quai panni rivestianlo? e quale 
Di lui, de' suoi compagni era 1* aspetto? 

Rispose il ricco di consigli Ulisse: 
Vigesim'anno è omai ch'egli da Creta 
Si drizzò a Troia, e il favellare, o donna, 
Di sì antica stagion duro mi sembra. 
Io tutta volta ubbidirò, per quanto 
Potrà sovra di sé tornar la mente. 
Un folto Ulisse avea manto velloso 
Di porpora, cui doppio urna sul petto 
Fermaglio d'oro, e nel dinanzi ornava 
Mirabile ricamo: un can da caccia 
Tenea co' piedi anteriori stretto 
Vaio cerbiatto, e con aperta bocca 
Sovra lui, che tremavane, pendea: 
E stupia il mondo a rimirarli in oro 
Effigiati ambo così, che l'uno 
Soffoca l'altro, e già l'addenta, e l'altro 
Fuggir si sforza, e palpita ne' piedi. 
In dosso ancora io gli osservai sì molle 
Tunica, e fina si, qual di cipolla 
Vidi talor l'inaridita spoglia, 
E splendea, come il Sol ; tal che di .molte 
Donne, che l'adocchiar, fu maraviglia. 
Ma io non so, se in Itaca gli stessi 
Vestiti usasse, o alcun di quei che seco 
Partirò su la nave, o in lor magioni 
Viaggiante l'accolsero, donati 
Gli avesse a lui: che ben voluto egli era. 
E pochi ragguagliare in Grecia eroi. 

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(v. 301*386) LIBRO XIX. " 349 

So che una spada del più fìno rame, 
E un bel manto purpureo, e una talare 
Vesta in dono io gli porsi, e ali* impalcata 
Nave il guidai di riverenza in segno. 
Araldo, che d*età, poco il vincea, 
L'accompagnava: alto di spalle, e grosso, 
X>oVio rappresentarlo a te dovessi, 
Nero la cute, ed i capelli crespo, 
E chiamavasi Euribate. Fra tutti 
I suoi compagni l'apprezzava Ulisse, 
Come più di pensieri a sé conforme. 

A queste voci maggior voglia in lei 
Surse di pianto, conosciuti i segni. 
Che sì chiari e distinti esporsi udiva. 
Fermato il lagrimare, Ospite, disse, 
Di pietà mi sembrasti, e d*ora innanzi 
Di grazia mi parrai degno, e d'onore. 
Io stessa gli recai dalla secreta 
Stanza piegate le da te descritte 
Vesti leggiadre, io nel purpureo manto 
La sfavillante d'or fìbbia gli affìssi. 
Or né vederlo più, né accorlo in questa 
Sua dolce terra sperar posso. Ahi crudo 
Destin ben fu, che alla malvagia Troia, 
Nome abborrito, su per Tonda il trasse! 

D'Ulisse, egli riprese, inclita donna. 
Al bel corpo, che struggi, omai perdona, 
Né più volerti macerar nell'alma, 
L* uom tuo piangendo. Non già ch'io tenbiasmi : 
Che ognuna spento quell'uom piange, a cui 
Vergine si congiunse, e diede infante. 
Benché diverso nel valor da Ulisse, 
Ohe agli Dei somigliar canta la fama. 
Ma resta dalle lagrime, e l'orecchio 
Porgi al mio dir, che sarà vero e integro. 
Io de'Tesproti tra la ricca gente^ 

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350 ' -.ODISSEA (v, 337-372) 

Ch'ei viTe, intesi, e già ritorna, e molti, 
Tesor, che qua e là raccolse, adduce. 
É ver che perde il legno e i suoi compagni, 
Della Triuacria abbandonando i lidi, 
Per la giusta di Giove ira, e del Sole, 
Di cui morto que' folli avean Farmento. 
Il mar, che tutti gì' inghiotti, sospinse 
Lui su gli avanzi delia nave infranta 
Al caro degli Dei popol Feace. 
Costor di cuore il riverian, qual Nume^ 
Colmavanlo di doni, e in Patria salvo 
Ricondurre il volean : se non che. nuove 
Terre veder pellegrinando, e molti 
Tesori radunar, più saggio avviso 
Parve all'eroe d'accorgimenti mastro, 
E cui non v'ha chi di saver non ceda. 
Così a me de'Tesproti il re Fidone 
Disse, e giurava, in sua magion libando, 
Che varata la barca era» e parati 
Color che deon ripatrì'arlo. Quindi 
Mi congedò: che, per Dulichio a sorte, 
Le vele alzava una Tesprozia nave. 
Ma ei mostrommi in pria« quanto avea Ulisse 
Raccolto errando, e che una casa intera 
Per dieci etadi a sostener bastava. 
Poi soggiungeami, che a Dodona ir volle, 
Giove per consultare, e udir dall'alta 
Quercia indovina, se ridursi ai dolci 
Campi d'Itaca sua dopo si lunga 
Stagion dovesse alla scoperta, o ignoto. 
Salvo, è dunque, e vicin; né dagli amici 
^Disgiunto, e schiuso dalle avite mura 
Gran tempo rimarrà? Vuoi tu ch'io giuri? 
Prima il Saturnio in testimonio io chiamo. 
Sommo tra i Numi, ed ottimo, e d'Uhase 
Poscia il sacrato focolar, cui venni; 

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(v. 373-408) LiSRa xixr , ^ ' B5l 
Tatto, qual dico, seguir dee. Quest'anno, 
Li* ano uscenda de' mesi, o entrando Taltro, 
Varcherà Ulisse le paterne soglie. 
Ob s' avveri T Penelope rispose. 
Tal dell'affetto mio pegni tu avresti, 
Che quale, o forestiero, in te con gli occhi 
Desse, dina: Vedi mortai beato! 
Ma altro io penso, e quel ch'io penso fia: 
Né riederà il consorte, né tu scorta 
Impetrerai; che non v'ha più un Ulisse 
Qai, se pur v'era un giorno, e non fu sogno, 
Un Ulisse non v'ha, che i venerandi 
Ospiti ancor nel suo real palagio 
Sappia, ed accomiatarli. Or voi, mie donne, 
Liavate i piedi allo straniero, e un denso 
I>i coltri e vesti e splendidi mantelli 
Letto gli apparecchiate, ov'ei corcato 
Tutta notte si scaldi in sino all'alba. 
L'alba comparsa in Oriente appena. 
Voi tergetelo e ungetelo; ed ei mangi 
Seduto in casa col mio figlio, e guai 
De' servi a quel che ingiuriarlo ardisse ! 
UMcio più non gli sarà commesso. 
Per cruccio ch'ei mostrassene. Deh come 
Sapresti, o forestier, eh* io l'altre donne 
Vinco, se vinco, di boutade e senno, 
Mentre di cenci e di squallor coverto 
Pasteggiar ti lasciassi entro l'albergo? 
Cose brevi son gli uomini. Chi nacque 
Con alma dura, e duri sensi nutre, 
Le sventure a lui vivo il mondo prega, 
£ il maledice morto. Ma se alcuno 
Ciò, che v'ha di più bello, ama, ed in alto 
Poggia con l'intelletto, in ogni dove 
Gli òspiti portan la sua gloria, e volt 
Eterno il nome suo dì bocca in bocca. 

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352 omssEi (v. 409-444; 

Saggia del figlio di Laerte dònna, 
Ripigliò^ Ulisse, le vellose vesti 
Cadeanmi in odio, «d i superbi manti, 
Da quel dì che su nave a lunghi remi 
Lasciai di Creta i nevicosi monti.^ 
Io giacerò, qual pur solea, passando 
Le intere notti insonne. Oh quante notti 
Giacqui in sordido letto, e dell'aurora 
Mal corcato affrettai la sacra lucei 
Né a me de' piedi la lavanda piace: 
Né delle donne, che ne' tuoi servigi 
Spendonsi, alcuna toccherà il mio piede. 
Se non è qualche annosa e onesta vecchia, 
Che al par di me sofferto abbia a* suoi giorni. 
A questa il pie non disdirei toccarmi. 

E l'egregia Penelope di nuovo: 
Ospite caro, pellegrin di senno 
Non capitò qua mai, che di te al core 
Mi s'accostasse piti, di te, che in modo 
Leggiadro esprimi ogni prudente senso. 
Una vecchia ho molto avvisata e scorta, 
Che nelle braccia sue quell'infelice 
Raccolse uscito del materno grembo, 
E buon latte gli dava, ed il crescea. 
Ella, benché di vita un soffio in lei 
Rimanga sol, ti laverà le piante. 
Via, fedele Euriclèa, sorgi, e a chi d'anni 
Pareggia il tuo signor, le piante lava. 
Tal ne* piedi vederlo, e nelle mani 
Parmi in qualche da noi lontana parte: 
Che ratto l'uom tra le sciagure invecchia. 

Euriclèa con le man coperse il volto, 
E versò calde lagrime, e dolenti 
Parole articolò: Me sventurata, 
Figlio,*^er amor tuo! Più, che altri al mondo, 
^Te, che noi morti, odia il Saturnio padre. 

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(^. 445-480) _ LIBRO XIX. . 353 

Tanti non gli arse alciini floridi lombi, 

Tante ecatombe non gli offerse, come 

Ta, di giunger pregandolo a tranquilla 

Vecchiezza, e un prode allevar figlio; ed ecco 

Che del ritorno il di Giove ti spense. 

O buon vegliardo, allor che a un altro albergo 

D'alcun signor lontano ei pellegrino 

S'appresserà, Tinsulteran le donne, 

Qual te insultare tutte queste serpi, 

Da cui. Tonte schivandone e gli oltraggi, 

Venir tocco ricusi; ed a me quindi 

La Sglia saggia del possente Icario 

Tal ministero impon, che non mi grava. 

10 dunque il compierò, si per amore 
Della Reina, e si per tuo: che forte 
Commossa dentro il sen l'alma io mi sento. 
Ma tu ricevi un de' miei detti ancora: 
Fra molti grami forestier, che a questa 
Magion s'avvicinare, un sol, che Ulisse 
Nella voce, ne' piedi, in tutto il corpo, 
Somigliasse cotanto, io mai noi vidi. 

Vecchia, rispose lo scaltrito eroe, 
Cosi chiunque ambo ci scorse, afferma: 
Correr tra Ulisse e me, qual tu ben dici, 
Somiglianza cotal, che l'un par l'altro. 
L'ottima vecchia una lucente conca 
Prese, e molta fredd* acqua entro versovvi, 
E su vi sparse la bollente, Ulisse, 
Che al focolar sedea, vèr l'ombra tutto 
Si girò per timor, non Euriclèa 
Scorgesse, brancicandolo, l'antica 
Margine ch'ei portava in su la coscia, 
E alla sua fraudo si togliesse il velo. 
Euriclèa nondimen, che già da presso 
Fatta gli s'era, ed il suo re lavava, 

11 segno ravvisò della ferita 

Odissea ^ » , 

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354 ODISSEA ' (V; 481<816) 

Dal bianco dente d'un cinghiale impressa 
Sul monte di Parnaso; e ciò fu, quando 
Della sua madre al genitor famoso 
Garzone andò, ad Autòlico, che tutti 
Del rapir vinse, e del giurar nell'arti, 
Per favor di Mercurio, a cui si grate 
Cosce d'agnelli ardeva, e di capretti. 
Che ogni suo passo accompagnava il Nume 

Autòlica un di venne all'Itacese 
Popolo in mezzo, e alla città, che nato 
Era di poco alla sua f glia un figlio. 
Questo Euriclèa su le ginocchia all'avo 
Dopo il convito pose, e feo tai detti: 
Autòlico, tu stesso il nome or trova 
Da imporre in fronte al grazioso parto, 
Pei* cui stancasti co' tuoi voti i Numi. 
E prontamente Autòlico in risposta: 
Genero, e figlia mia, quel gì' imporrete 
Nome, ch'io vi dirò. D'uomini e donne 
Su l'altrice di molti immensa terra 
Spavento io fui: dunque si chiami Ulisse. 

10 poi, se, di bambin fatto garzone. 
Nel superbo verrà materno albergo 
Sovra il Parnaso, ove ho le mie ricchezze, 
Doni gli porgerò per cui più lieto 
Discenderà da me, che a me non salse. 

A ricevere Ulisse andò tai doni, 
E Autòlico l'accolse^ ed i suoi figli. 
Con amiche parole, e aperte braccia; 
E Tavola Anfitòa, strettolo al petto, 

11 capo, ed ambi gli baciò i begli occhi. 
Ai figli il padre comandò, nò indarno, 
La mensa: un bue di cinque anni menaro. 
Lo scoiar, l'acconciar, tutto il partirò; 
E i brani, che ne fur con arte fatti. 
Negli schidoni infissero, e ugualmente 

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(y. 517-552)' libro xix. 355 

Li dispensar, domi che gli ebbe il foco. 
Così tutto' quel dì d'ugual per tutti 
Prandio godean sino airOccaso. Il Sole 
Caduto, e apparsa della notte l'ombra, 
La dolcezza provar, cui reca il sonno. 
Ma come figlia del mattin l'Aurora 
Si mofitrò in ciel ditirosata e bella, 
I figliuoli d'Autòlico ed Ulisse 
Con molti cani a una gran caccia uscirò. 
La Testita di boschi alta montagna 
Salgono, e in breve tra i ventosi gioghi 
Veggonsi di Parnaso. Il Sol recente, 
Dalle placide sorte acque profonde 
DeirOceàn, su i rugiadosi campi 
Saettava i suoi raggi, e i cacciatori 
Scendeano in una valle: innanzi i cani 
Ivan, fiutando le selvatic' orme, 
E co' figli d'Autòlico, pallando 
Una lancia, che lunga ombra gittava, 
Tra i cani e i cacciatori andava Ulisse. 
Smisurato cinghiale in così folta 
Macchia giacca, che né di venti acquosi 
Forza, nò raggio mai d'acuto Sole 
La percoteva, né le piogge affatto 
V'entravano: copri'a di secche foglie 
Gran dovizia la terra. Il cinghiai fiero, 
Che al calpestio, che gli sonava intorno, 
Appressare ognor più sentia la caccia^ 
Sbucò del suo ricetto, e orribilmente 
Rizzando i peli della sua cervice, 
E con pregni di foco occhi guatando. 
Stette di centra. Ulisse il primo, l'asta 
Tenendo éoprammano, impeto fece 
In lui, ch'ei d'impiagare ardea di voglia: 
Ma la fera prevennelo, ed il colse 
Sovra il ginocchio con un colpo obliquo 

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' 356 ODISSEA ' (y. 553-588) 

Della gran sauna, e ne rapi assai carùe; 
Né però della coscia airosso- aggiunse. 
Ferilla Ulisse allor nelFomer destro, 
Dove il colpo assestò; scese profonda 
L'aguzza punta della fulgid*asta; 
E il mostro su la polvere cade. 
Mettendo un grido, e ne volò via l'alma. 
Ma d'Autòlico i f gli a Ulisse tutti 
Travagliavansi intorno: acconciamente 
Fasciar la piaga, e con possente incanto 
Il sangue ne arrestare, e dell'amato 
Padre all'albergo il trasportare in fretta. 
Sanato appieno, e di bei doni carco, 
Contenti alla cara Itaca contento 
Lo rimandare. Il padre suo Laerte 
E la madre Anticlèa gioian pur troppo 
Del suo ritorno, e il richiedean di tutto, 
E più della ferita; ed ei narrava, 
Come, invitato a una silvestre guerra 
Da* figliuoli dell' avo, il bianco dente 
Piai^ollo d*un cinghiai sovra il Parnaso. 

Tal cicatrice l'amorosa vecchia 
Conobbe, brancicandola, ed il piede 
Lasciò andar giù: la gamba nella conca 
Cadde, ne rimbombò il concavo rame, 
E piegò tutto da ima banda, e in terra 
L'acqua si sparse. Gaudio a un'ora e duolo 
La prese, e gli occhi le s'empier di pianto, 
E in uscir le tornò la voce indietro. 
Proruppe al fin, prendendolo pel mento: 
Caro figlio, tu sei per certo Ulisse, 
Né io, né io ti ravvisai, che tutto 
Pria non avessi il mio signor tastato. 

Tacque; e guardò Penelope, volendo 
Mostrar che l'amor suo lungi non era. 
Ma la Reina né veder di centra 

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(v. 589-624) LIBRO xix. 357 

Proteo, uè mente por :. che Palla il core 
Le torse altrove. Ulisse intanto strinse 
Oon la man destra ad Euriclèa la gola, 
E a so tirella con la manca, e disse: 
Nutrice, vuoi tu perdermi? Tu stessa, 
Si, mi tenesti alla tua poppa un giorno, 
E nell'anno ventesimo, sofferte 
Pene infinite, alla mia Patria io venni. 
IMa, poiché mi scopristi, e un Dio si volle, 
Taci, e di me qui dentro altri non sappia: 
Però ch'io giuro, e non invan, che s'io 
Con l'aiuto de' Numi 1 Proci spegno. 
Né da te pur, benché mia balia, il braccio, 
Che l'altre donne ucciderà, ritengo. 

Figlio, qual mai dal core osò parola 
Salirti in su le labbra? ella riprese. 
Non mi conosci tu nel petto un'alma 
Ferma ed inespugnabile? Il segreto 

10 serberò, qual dura selce, o bronzo. 
Ciò senti ancora, e tei rammenta: dove 
Spengan gli Dei per la tua mano i Proci, 
Delle donne in palagio ad una ad una 
Qual t'ingiuria, io dirotti, e qual t'onora. 

Nutrice, del tuo indizio uopo non havvi. 
Ripigliò Ulisse. Io per me stesso tutte 
Le osserverò, conoscerólle: solo 
Tu a tacer pensa, e lascia il resto ai Numi. 

La vecchia tosto per nuov' acqua uscio, 
Sparsa tutta la prima. Asterso ch'ebbe 
Ulisse, ed unto, ei novamente al foco, 
Calde aure a trarne, s'accostò col seggio, 
E co' panni la margine coverse. 
E Penelope allor: Brevi parole, 
Ospite, ancora. Già de' dolci sonni 

11 tempo è giunto per color, cui lieve /^* 
Doglia consente il ricettarli in petto :-^^® 

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358 omss&A ~ (v. 625-660) 

Ma doglia a me non lieve i Numi diero. 
Finché riluce il di, solo ne* pianti 
Piacere io trovo, e ne' sospiri, mentre 

.Guardo ai lavori deirancelle, e a* miei. 
La notte poi, quando ciascun s' addorme, 
Che vai corcarmi, se le molte cure 
Crudele intorno al cor muovonmi guerra? 
Come allor che di Pàndaro la figlia 
Ne' giorni primi del rosato aprile, 
La fìoriscente Filomela, assisa 
Degli arbor suoi tra le più dense fronde, 
Canta soavemente, e in cento spezza 
Suoni diversi la instancabil voce, 

'Iti, che a Zelo partorì, piangendo, 
Iti caro, che poi barbara uccise 
Per insania, onde più sé non conobbe: 
Non altrimenti io piango, e l'alma incerta 
In questa or piega, ed ora in quella parte, 
S'io stia col figlio, e integro serbi il tutto 
Le sostanze, le serve, e gli alti tetti, 
Del mio consorte rispettando il letto, 
E del popol le voci; o quello io siegua 
Degli Achei tra i miglior, che alle mie nozze, 
Doni infiniti presentando, aspira. 
Sino a tanto che il figlio era di senno. 
Come d'età, fanciullo ancor, lasciata 
Questa io mai non avrei per altra casa: 
Ma or ch'ei crebbe, e della pubertade 
Già la soglia toccò, men priega ei stesso, 
Non potendo mirar lo strazio indegno. 
Che di lui fan gli Achivi. Or tu, su, via, 

^'f>iegami un sogno, ch'io narrarti intendo. 
^®^ti nella mia corte oche io nutrisco, 
E ^^ qualche diletto emmi il vederje 
Cogiti» (ia limpid* acqua il biondo grano. 
Menti» ìq Iq osservo, ecco dall'alto monte 

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(v. 661-606) LIBRO XIX. 359 

Orande aquila calar curvorostrata, 

P* Tangere a tutte la cervice, tutte 

L*una su Taltra riversarle spente, 

E risalii vèr T etere divino. 

Io mettea lai, benché nel sogno, e strida, 

E le no>ili Achee dal crin ricciuto 

Veniano a me, che miserabilmente 

L'oche plorava dall'aguglia morte, 

E a me intorno affoUavansi. Ma quella, 

Rivolando dal ciel, su lo sporgente 

Tetto sedeasi, e con umana voce. 

Ti raccheta, diceami, e spera, o figlia 

Del glorioso Icario: un vano sogno 

Questo non è, ma vision verace 

Di ciò che seguirà. Nell'oche i Proci 

Havvisa, e in queste d' aquila sembianze 

Il tuo consorte, che al fln venne, e tutti 

Stenderà nel lor sangue a terra i Proci. 

Tacquesi; e il sonno abbandonommi, ed io, 

Gittando gli occhi per la corte, vidi 

Le oche mie, che nel trogolo, qual prima, 

I graditi frumenti ivan beccando. 

Donna, rispose di Laerte il figlio, 
Altramente da quel che Ulisse feo 
Non lice il sonno interpretar: l'eccidio 
Di tutti i Proci manifesto appare. 

E la saggia Penelope: Non tutti. 
Ospite, i sogni investigar si ponno. 
Scuro parlano e ambiguo, e non risponde 
L'effetto sempre. Degli aerei sogni 
Son due le porte, una di corno, e l'altra 
D'avorio. Dall'avorio escono ì falsi, 
E fantasmi con sé fallaci e vani 
Portano : i veri dal* polito corno, 
E questi mai 1* uom non iscorge indarno. 
Ah! creder non poss'io che quinci uscisse 

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360 ODissBJL (v. 697-732) 

L'immagin fiera d'un evento, donde 
Tanta verrebbe a me gioia, e al mio figlio. 
Ma odi attento i detti miei. Già Talba, 
Che rimuover mi dee da questi alberghi. 
Ad apparir non tarderà. Che farmi? 
Un giuoco io propor vo*. Dodici pali, 
Quai puntelli di nave, intorno a cui 
Va del fabbro la man, piantava Ulisse 
L'un dietro all'altro con anelli in cima; 
Ed ei, lungo tenendosi, spingea 
Per ogni anello la pennuta freccia. 
Io tal cimento proporrò. Chi meglio 
Tender l'arco saprà fra tutti i Proci, 
E d'anello in anello andar col dardo, 
Lui seguir non ricuso, abbandonando 
Questa si bella, e ben fornita, e ricca 
Magion de' miei verd'anni, ond* anche in sogno 
Dovermi spesso ricordare io penso. 

veneranda, ripigliava Ulisse, 
Donna del Laerzìade, una tal prova 
Punto non diflferir : pria che un de' Proci 
Questo maneggi arco lucente, e il nervo 
Ne tenda, e passi pe' ritondi ferri, 
Ti s'offrirà davante il tuo consorte. 

E Penelope al fine: Ospite, quando. 
Vicino a me sedendoti, il diletto 
Protrar della tua voce a me volessi, 
Non mi cadrebbe su le ciglia il sonno. 
Ma non può sempre l'uom vivere insonne: 
Che legge a tutto stabilirò, e meta 
Su la terra fruttifera gli Eterni. 
Io, nelle stanze alte salita, un letto 
Premerò, che divenne a me lugubre 
Dal dì che Ulisse il can^e funesto 
Per la nemica sciolse infanda Troia. 
Tu nel palagio ti riposa, e a terra 

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(v, 733-739) - LIBRO XIX.. • 3jBl^ 

Sdraiati, o, se ti piace, a té le mie 
I>oxine apparecchieran, dove corcarti. 
La Regina, ciò detto, alle superne 
^lontò sue stanze, e non già sola; ed ivi 
Sino a tanto piangea Tamato Ulisse, 
Ctie un dolce sonno sovra lei spargesse 
La cilestra negli occhi augusta Diva. 

LIBRO VENTESIMO 



ARGOMENTO 

Ulisse si sdraia neiratrio, e osserva la disonestà deirancelle. 

— C.liiede a Giove qualche segno favorevole ; ed 6 esaudito. 

— Temeritìk di Melanzio* e accoglienza amorevole di File- 
zio. — Ctesippo lancia contro ad Ulisse un pie di bue : ma 
noi coglie. — Vaticinio di Teoclimeno. — I Proci se ne 
fan beffe ; e scherniscono Ulisse ancora e Telemaco. 

Il magnanino^o figlio di Laerte 
Giaoea nell* atrio. Una recent;e pelle - 
Steso aveasi di bue con altre molte 
Di pingui agnello dagl'ingordi Achei 
Sagrifìcate; e d'un velloso manto 
Lui già corcato Eurinome coverse. 
Qui co* pensieri suoi l'eroe vegliava, 
Sventure ai Proci divisando. Intanto 
Le ancelle, che solcano ai Proci darsi. 
Uscirò di lor camere, in gran riso 
Prorompendo tra loro, e in turpe gioia. 
Ei forte l'alma sì sentia commossa, 
E bilanciava, se avventarsi, e tutte 

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362 omssBAr (v. 14'4'j 

Porle a morte^ dovesse in un istante, 
consentir che per l' estrema volta 
Delinquesser le tristi; e in sé fremea. 
E come alior che ai cagnolini intorno 
Gira la madre, e, se un ignoto spunta, 
Latra, e brama pugnar; non altrimenti 
Egli, che mai patia l'opre nefande, 
Alto fremea nel generoso petto. 
Pur, battendosi Tanca, e rampognando 
Egli stesso il suo cor, Soffri, gli disse, 
Tu, che assai peggior male allor soffristi, 
Che il Ciclope fortissimo gli amici 
Mi divorava. Tollerar sapesti, 
Finché me fuor dell'antro il senno trasse, 
Quand'io già della vita era in su l'orlo. 

Ei cosi i moti reprimea del core. 
Che ne' recinti suoi cheto si stette. 
Non lasciava però su l'un de' fianchi 
Di voltarsi, o su l'altro, a quella guisa 
Che pien di sangue e d'adipe ventriglio 
Uom, che si strugge di vederlo incotto. 
D'un gran foco all'arder volg^ e rivolge. 
Su questo ei si voltava, o su quel fianco, 
Meditando fra sé, come potesse 
Scagliarsi al fin contra i malnati prenci, 
Contra molti egli solo; ed ecco, scesa 
Di cielo, a lui manifestarsi in forma 
D'una mortale l'Atenéa Minerva. 
Stettegli sovra il capo, e tai parole 
Gli volse: degli umani il piti infelice. 
Perché i conforti rifiutar del sonno? 
Sei pur nel tuo palagio, appo la fida 
Tua donna, e al fianco d'un figliuolo, acuì 
Vorriano aver l'uguale i padri tutti. I 

Il ver parlasti, o Dea, rispose Ulisse: 
Se non che meco io mi consiglio, come 

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V. &Cr.85) LIBRO XX. 363 

Scagliarmi ai Proci svergognati incontro, 
Mentre in foUa ognor son quelli, ed io solo. 
la oltre io penso, e ciò più ancor mi turba, 
Che, quando col favore anco m'avvenga 
Del Tonante, e col tuo, cacciarli a Dite, 
Non so dove sottrarmi a quella turba 
Che vengiarli vorrà. Tu questo libra. 

Tristo! riprese la negli occhi azzurra, 
L'uomo a un compagno suo crede, a un mortale 
Peggior di sé talvolta, e meno esperto, 
El tu non a me Diva, e a me, che in ogni 
Travaglio tuo sempre ti guardo? Sappi, 
Che se cinquanta d'uomini parlanti 
Fosserci intorno pugnatrici schiere. 
Sparsi por la campagna i greggi loro. 
Tua preda diverriano, e i loro armenti. 
Chetati, e il sonno nel tuo asn ricevi: 
Che vegliando passar la notte in guardia 
Troppo é molesto. Uscirai fuor tra poco 
Da tutti senza dubbio i mali tuoi. 
Disse, e un sopor dolcissimo gl'infuse: 
Né pria le membra tutte quante sciolte 
Gli vide, e sgombra d'ogni affanno l'alma 
Che all'Olimpo tornò l'inclita Diva. 

Ma il sonno sen fuggì dagli occhi a un tratto 
Della Reina, che già sovra il molle 
Letto sedeasi, e ricadea nel pianto. 
Come sazia ne fu, calde a Dì'ana 
Preghiere alzò la sconsolata donna: 
O del Saturnio figlia, augusta Dea, 
Deh! nel mio seno un de* tuoi dardi scocca, 
E ratto poni in libertà quest'alma, 
O mi rapisca il turbine, e trasporti 
Per l'aria, e nelle rapide correnti 
DeirOceàn retrogrado mi getti 
Così già le Pandaridi sparirò, 

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364 ODISSEA (v. 86-12], 

Che per voler de' Numi alla lor madre 

Crucciati, e al padre, nella mesta casa 

Orfanello rimaste erano, e sole. 

Venere le nutrì di dolce mèle, 

Di vin soave e di rappreso latte: 

Senno e beltade sovra ogni altra, donna 

Giuno compartì loro, Artemi un'alta 

Statura, ed ai lavori i più leggiadri 

Mano e intelletto la gran Dea d'Atene. 

Già Venere d'Olimpo i gioghi eccelsi 

Montato avea, per dimandar le nozze 

Delle fanciulle al fulminante Giove, 

Che nulla ignora, e i tristi eventi e i lieti 

Conosce de' mortali; e quelle intanto 

Dalle veloci Arpie furo rapite, 

E in balia date alle odiose Erinni. 

Cosi d'Itaca me tolgano i Numi, 

d'un de* dardi suoi l'oricrinita 

Diana mi ferisca; ond'io ritrovi, 

Benché ne* regni della morte, Ulisse, 

E del mio maritaggio uom non rallegri, | 

Che di lui fia tanto minore. Ahi lassa! 

Ben regger puossi la piti ria sventura, 

Quando, passati lagrimando i giorni, 

Le notti almen ci riconforta il sonno, 

Che su i beni l'oblio sparge, e su i mali. 

Ma sogni a me fallaci un Nume invia: 

E questa notte ancor mi si corcava i 

Da presso il mio consorte in quel sembiante | 

Che avea nel di che su la nave ascese. 

Tacque; e sul trono d'or l'Aurora apparve. 

Ulisse udì le lagrimose voci. 
Ed in sospetto entrò, che fatta accorta 
Di lui si fosse, e già pareagli al capo 
Vedersela vicina, AIzosìjì, e il manto 
E i cuoi, tra cui giacca, raccolse, e pose 

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V. 122-157) LiBRO^ XX. 365 

?ovra una sedia, e la bovina pelle 
Fuor portò del palagio. ladi, levate 
Le mani, a Giove supplicava: O Giove 
Pildre, e Dei tutti, che per terra e mare 
Me dopo tanti affanni al patrio nido 
Ricondaceste, un lieto augurio in bocca 
Mettete ad un di quei che nel!' interno 
Vegghiano ; e all'aria aperta un tuo prodigio, 
Giove, mi mostra. Cosi, orando, disse. 

U di Ilo il sommo Giove, e incontanente 
Dal sublime tonò lucido Olimpo, 
E l'eroe giubbilonne. Al tempo stesso 
Donna che il grano macinava, detti 
Presaghi gli mandò, donde non lungi 
Del pastor delle genti eran le mole. 
Dodici donne con assidua cura 
Gir avan' ciascun di dodici mole, 
E in bianca polve que* frumenti ed orzi 
Riducean, che deiruom son forza e vita. 
Le altre dormian dopo il travaglio grave: 
Ma quella, cui reggean manco le braccia^ 
Compiuto non l'avea. Costei la mola 
Fermò di botto, e feo volar tai voci. 
Che segnale al Re furo: padre Giove, 
Degli uomini signore e degli Dei, 
Forte tonasti dall'eterea volta, 
E non v'ha nube. Tal portento è al certo 
Per alcun de' mortali. Ah! le preghiere 
Anco di me infelice adempì, o padre, 
Cessi quest'oggi nella bella sala 
Il disonesto pasteggiar de' Proci, 
Che di fatica m'hanno, e di tristezza 
Presso un grave macigno omai consunta. 
L'ultimo sia de'lor banchetti questo. 

Della voce allegravasi, e del tuono 
L'illustre figlio di Laerte, e l'alta 

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366 ODISSEA.. (v. 158-103 

Già in pugno si tenea giusta vendetta. 

L'altre fantesche raecoglieansi intanto, 
E un foco raccendean vivo e perenne. 
Ma il deiforme Telemaco di letto 
Surse, vestì le giovanili membra. 
L'acuto brando all'omero sospese, 
Legò sotto i pie molli i bei calzari, 
E una valida strinse asta nodosa 
Con fino rame luminoso in punta. 
Giunto alla soglia, s'arrestò col piede, 
E ad Euriclea parlò: Cara nutrice, 
Il trattaste voi ben di cibo e letto 
L'ospite? forse non curato giacque? 
Anco la madre mia, benché sì saggia. 
Sfallisce in questo: chi è men degno ^ onora, 
E non cura onorar chi più sei merta. 

Ed Euriclea: Pigliuol, non incolparmi 
La innocente tua madre. A suo piacere 
Bevea l'ospite assiso; e quanto all'esca, 
Domandato da lei, disse, mestieri 
Non ne aver più. Come appressava l'ora 
Del riposo e del sonno, apparecchiargli 
C'impose un letto: ma i tappeti molli 
Rifiutò, qual chi vive ai mali in grembo. 
Corcossi nel vestibolo su fresca 
Pelle di tauro, e cuoi d'agnello: noi 
D'una vellosa clamide il coprimmo. 

Telemaco, ciò udito, uscia dell'alte 
Stanze, al foro per ir, con l'asta in mano; 
E due seguianlo pieveloci cani. 
Colà gli Achei dagli schinieri egregi 
Raccolti l'attendean: mentre l'antica 
D'Opi di Pisenòr figlia, le ancelle 
Stimolando, Affrettatevi, dlcea, 
Parte a nettar la sala, e ad inaffiarla, 
E le purpuree su i ben fatti seggi 

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(v. 194^29) ^ LIBRO XX. . 367 

Coverte a dispiegar; parte le mense 
Con le umide a lavar forate spugne, 
E i vasi a ripolire, è i lavorati 
Nappi rìtondi; ed al profondo fonte 
Parte andate per l'acqua, e nel palagio 
Recatela di fretta. I Proci molto 
Non tarderan: sollecitar li dee 
Questo dì, che festivo a tutti splende. 
Tutte ascoltare, ed ubbidirò. Venti 
Al fonte s'avviar dalle nere acque: 
L'altre gli altri compieano interni uffici. 
Vennero i servi degli Achivi, e secche 
Legna con arte dividean; le donne 
Venner dal fonte; venne Eumèo, guidando 
Tre, della mandra fior, nitidi verri. 
Che nel vasto cortil pascer lasciava. 
Quindi, fermate nel suo Re le ciglia, 
Vecchio, imparare a rispettarti forse, 
0, disse, a t* oltraggiar seguon gli Achei? 
Euméo, rispose il Re, piacesse ai Numi 
Questa gente punir, che nell'altrui 
Magion rei fatti, ingiuriando, pensa, 
E dramma di pudor non serba in petto ! 
Così tra lor dicean, quando il capraio 
Co' più bei della greggia eletti corpi. 
L'avido ventre a riempir de' Proci, 
Giunse Melanzio, e seco due pastori. 
Ei le capre legò sotto il sonante 
Portico, e morse nuovamente Ulisse: 
Stranier, molesto ci sarai tu ancora, 
Mendicando da ognun? Fuori una volta 
Non uscirai? Difficilmente, io credo. 
Noi ci dividerem, che l'un dell'altro 
Assaggiate le man non abbia in prima: 
Però che tu villanamente accatti. 
Altra mensa in città dunque non fuma? 

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368' ODISSEA (v..230-26u 

Nulla l'offeso eroe; ma sol crollava 
Tacitamente il capo, e la risposta. 
Che farà con la man, tra sé volgea. 

Filezio in quella sopraggiunse terzo, 
Grassa vacca menando, e pingui capre, 
Cui traghettò su passeggiera barca 
Gente di mar, che à questa cura intende. 
Le avvinse sotto il portico, e vicino 
Fattosi a Eumèo, 1* interrogava : Eumèo, 
Chi è quello stranier che ai nostri alberghi 
Testé arrivò? Quali esser dice, e dove 
La sua terra nativa, e i padri suoi? 
Lasso! un Monarca egli mi sembra in vista. 
Certo piace agli Dei metter nel fondo 
Delle sventure i viandanti, quando 
Si destina da loro ai Re tal sorte. 
Disse, e appressando il forestiero* e a lui 
La man porgendo. Ospite padre, salve. 
Soggiunse: almen, se nella doglia or vivi, 
Sorganti più sereni i giorni estremi! 
Giove, quàl mai di te Nume più crudo. 
Che alla fatica, e all'infortunio in preda 
Lasci i mortali, cui la vita desti? 
Freddo sudor bagnommi, e mi s'empierò 
Gli occhi di pianto, immaginando Ulisse, 
Cui veder parmi con tai panni in dosso 
Tra gli uomini vagar, se qualche terra 
Sostienlo ancora, e gli risplende il Sole. 
Sventurato di me! L'inclito Ulisse 
A me fanciullo delle sue giovenche 
La cura die ne' Cefaleni campi; 
Ed io si le guardai, che in infinito 
L'armento crebbe dalle larghe fronti 
Questo sul mare trasportar per esca 
Deggio a una turba di signori estrani. 
Che nò guarda al figliuol, né gli Dei teme: 

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(v. 2è6*301) tiBRo ix. 369 

Mentre d©' beni del mio Sir lontano 
La parte, cui fìnor perdonò il dente, 
Con gli occhi ella divora, e col desìo. 
Ora io stommi fra due: perchè rea cosa 
Certo saria, vivo il figliuolo, a un'altra 
Gente con l'armento ir ; ma d'altra pB,ttB 
Pesami fieramente appo una mandra 
E^star, che a me divenne omai straniera. 
E se non fosse la non morta speme, 
Che quel misero rieda, e sperda i Proci, 
Io di qualche magnanimo padrone 
Cria nella corte riparato avrei: 
Che tai cose durar più non si ponno. 
E l'eroe sì gli rispondea: Pastore, 
Poiché malvagio non mi sembri, e stolto, 
E senno anche dimostri, odi i miei detti, 
E il giuramento che su questi siede. 

10 pria tra i Numi in testimonio Giove, 
E la mensa ospitai chiamo, e d'Ulisse 

11 venerando focolar, cui venni : 
Giungerà il figlio di Laerte, e all'Orco 
Precipitar gli usurpatori Proci 
Vedranlo, se tu vuoi, gli occhi tuoi stessi. 

Ospite, questo il Saturnide adempia, 
Keplicò il guardian: vedresti, come 
Intrepido seguir del mio signore 
La giusta ira io saprei. Tacque; ed Eumèo 
S'unia con esso, e agl'Immortali tutti 
Pel ritorno del Re preghiere fea. 

Morte intanto a Telemaco s'ordia 
Dai Proci. É ver, che alla sinistra loro 
Un'aquila comparve altovolante. 
Che avea colomba trepida tra Tugne. 
Tosto Anfìnomo sorse, e, Amici, disse, 
Lasciam da un lato la cruenta tramta. 
Cui più, che invan, si pensa; ed il convito 

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370 . (ODISSEA ' {v. 302-3^ 

Ci soTvenga più presto. B il detto piacque. 

I Proci entraro nel palagio, e i manti 
Soyra i seggi deposero: le pingui 
Capre e i montoni s'inamolaro, corse 
De* verri il sangue, e la buessa, onore 
Bell'armento, cade. Faro spartite 
Le abbrustolate viscere, e mesciuto 
Nell'urne il rosso vino, Eumèo le tazze, 
Filezio i pani dispensò ne* vaghi 
Canestri: ma dall'arne il buon licore 
Melanzio nelle ciotole versava. 
E già i Prenci volgeano all'apprestate 
Mense il pensier, quando d'Ulisse il figlio, 
Non senza un suo perchè, seder fé il padre 
Presso il marmoreo limitar su rozzo 
Scanno, ed a picciol desco; e qui una parte 
GÌ' imbandì delle viscere, e gl'infuse 
Vermiglio vino in tazza d'oro, e tale 
Parlò: Tu pur siedi co' Preci, e bevi. 
Io dalle lingue audaci e dalie mani 
Ti schermirò: che non è questo albergo 
Pubblico, ma d'Ulisse, ed a me solo 
Egli acquistoUo. E voi frenate, o Proci, 
Le man, non che le lingue, onde contesa 
Qui non s'accenda, e subitana rissa. 
• Strinser le labbra, ed inarcar le ciglia. 
Ed Antinoo cosi: La minacciosa, 
Compagni, di Telemaco favella, 
Per molesta che sìa, durarla vuoisi. 
Giove il protegge: che altramente imposto, 
Benché canoro arringator, gli avremmo 
Silenzio eterno da gran tempo. Disse: 
E il dispregiò Telemaco, e si tenne. 

Già i banditori l'ecatombe sacra 
Degli Dei conducean per la cittade, 
E raccoglieansi i capelluti Schivi 

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(v. S3à-373) LIBRO xx/ 371 

Sotto il ì)osco frondifero d'Apollo, 
Di cui per cotanto aere il dardo vola. 
E al tempo stesso, incotte ornai le carni, 
Nel palagio d'Ulisse, e dagli acuti 
Schidòni tratte, e poi divise in brani. 
L'alto vi si tenea prandio solenne. 
Parte uguale con gli altri anco ad Ulisse 
Fu posta innanzi dai ministri, come 
Volle il caro fìgliuol: né degli oltraggi 
Però Minerva consentia che i Proci 
Rimettessero punto, acciocché al Rege 
L'ira più addentro penetrasse in petto. 
V'era tra loro un malvagio uom, che avea 
Nome Ctesippo, e dimorava in Same.> 
Costui, fidando ne' tesor paterni , 
La consorte del Re con gli altri amhiva. 
Surse, e tal favellò: Proci, ascoltate. 
Il forestier, qual conveniasi, ottenne 
Parte uguale con noi. Chi mai vorria 
Dì Telemaco un ospite fraudarne, 
Chiunque fosse? Ora io di fargli intendo 
Un nobil don, ch'egli potrà in mercede 
Bar poscia o al bagnaiuolp, o a qual tra i servi 
Gli piacerà dell'immortale Ulisse. 
Così dicendo, una bovina zampa 
Levò su da un canestro, e con gagliarda 
Mano avventolla* L' inconcusso eroe 
Sfuggilla, il capo declinando alquanto, 
Ed in quell'atto d'un cotal suo riso 
Sardonico ridendo, e il pie del bue 
A percuotere andò nella parete. 
Meglio d'assai per te, che noi cogliesti, 
Sì Telemaco allora il tracotante 
Ctesippo rabbuffò: meglio, che il colpo 
L'oste schivasse; però ch'io nel mezzo 
Del cor sen2' alcun dubbi un'asta acuta 

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872 ' , ODISSEA, (v. 374^9) 

T'avrei piantata, e delle nozze in Tece 
Celebrate t'avria l'esequie il padre. 
Fine dunque agl'insulti. Io piti fanciullo 
Non son, tutto m'è noto, ed i confini 
Segnar del retto, e del non retto, io valgo. 
Credete voi ch'io soffrirei tal piaga 
Nelle sostanze mie, se forte troppo 
Non fosse impresa il frenar molti a un solo? 
Su, via, cessate dall'offese, o dove 
Sete del sangue mio l'alme vi punga. 
Prendetevi il mio sangue. Io ciò pria voglio, 
Che veder ciascun giorno opre si indegne, 

I forestieri dileggiati, e spesso 
Battuti, e nello splendido palagio 
Contaminate, oh reità 1 le ancelle. 
Tutti ammutirò, e sol, ma tardi molto. 
Favellò il Damastoride Agelao: 
Nobili amici, a chi parlò con senno. 
Nessun risponda ingiurioso e avverso; 
Né forestier piti si percuota, o altr'uomo 
Che in corte serva del divino Ulisse. 

Io poi darò a Telemaco e alla madre 

Util consiglio con parole blande. 

Se in cor loro entrerà. Finché speranza j 

Del ritorno d'Ulisse a voi fioriva , 

Gl'indugi perdonare, ed i pretesti 

Vi si poteano, e il trarre in lungo i Proci; j 

Che, quando apparsa la sua faccia fosse, 

Di prudenza lodati avriavi il mondo. 

Ma chiaro parmi che più in man d'Ulisse 

II ritorno non è. Trova la madre 
Dunque, e la pressa tu, che a quel de* Proci, 
Che ha piti virtude, e più doni offre, vada: j 
Onde tu rientrar ne' beni tutti 

Del padre possi, e alla tua mensa in gioia , i 
Non ohe in pace seder, mentre la madre 



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J 



(v. 410-445) LIBRO XX. 373 

Del nuovo sposo $.llegrerà le mura. 

E il prudente Telemaco, Per Giove, 
Rispose, e per li guai del padre tnio, 
Ch* erra, o perì, dalia sua patria lunge, 
Ti protesto, Agelao, eh* io della madre 
Non indugio le nozze, anzi la esorto 
Quello a seguir che più le aggrada, ed offre 
Doni in copia maggior: ma i Dii beati 
Tolgan che involontaria io la sbandisca 
Da queste soglie con severi accenti. 
Disse, e Minerva inestinguibil riso 
Destò ne* Proci, e ne travolse il senno. 
Ma il riso era stranier su quelle guance: 
Ma sanguigne inghiottìan delle sgozzate 
Bestie le carni; e poi dagli occhi a un tratto 
Sgorgava loro un improvviso pianto, 
E di previsa disventura il duolo 
Ne' lor petti regnava. E qui levossi 
Teoclimèno, il gran profeta, e disse: 
Ah miseri, che veggio? E qual v'incontra 
Caso funesto? Al corpo intorno, intorno 
D'atra notte vi gira al capo un nembo. 
Urlo fiero scoppiò; bagnansi i volti 
D' involontarie lagrime ; di sangue 
Tingonsi le pareti ed i bei palchi; 
L'atrio s'empie e ilcortil d'Ombre, che in fretta 
Giù discendon nell'Efebo; disparve 
Dal cielo il Sole, e degli aerei campi 
Una densa caligine indonnossi. 

Tutti beffarsi del profeta, e queste 
Voci Eurimaco sciolse: Il forestiero, 
Che qua venne testé non so da dove. 
Vaneggia, io penso. Giovani, su, vìa, 
Mettetel fuori, acciocché in piazza ei vada, 
Poscia che qui per notte il giorno prende. 
E Tindovino, Eurimaco, rispose, 

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374 oì)jssBA (v. 446-481) 

Coteste guide, che vuoi darmi, tienti. 
Occhi ho in testa, ed orecchi, e due pie sotto , 
E di tempra non vile un'alma in petto . 
Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo 
Il mal che sopra voi pende, e a cui torsi 
Non potrà un sol di voi, che gli stranieri 
Oltraggiate, e studiate iniquitadi 
Nella magion del pari ai Numi Ulisse. 
Ciò detto, uscì da loro, ed a Pireo, 
Che di buon grado il ricevè, s'addusse. 

Ma i Proci, riguardandosi a vicenda, 
E beffe d'ambo i forestier facendo, 
Provocavan Telemaco. Non havvi, 
Talun dicea, chi ad ospiti stia peggio, 
Telemaco, di te. L'uno è un mendico 
Errante, ornai di fame e sete morto, 
Senza prodezza, senza industria, peso 
Disutil della terra; e l'altro un pazzo. 
Che, per far del profeta, in pie si leva. 
Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo. 
Sano partito? Ambo gittiamli in nave, 
E li mandiam della Sicilia ai lidi. 
Più gioveranno a te, se tu li vendi. 

Telemaco di lui nulla curava. 
Ma levati tenea tacito gli occhi 
Nel genitor, sempre aspettando il punto 
Ch'ei fatto centra i Proci impeto avrebbe. 
In faccia della sala, e in su la porta 
Del ginecèo, da un suo lucente seggio 
Tutti i lor detti la Regina udìa. 
E quei, ridendo, il più soave e lauto, 
Però che molte avean vittime uccise, 
Convito celebrar : ma più ingioconda 
Cena di quella non fu mai, che ai Proci, 
Degna mercè della nequizia loro, 
®+^van per imbandir Palla ed Ulisse. 

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LIBRO VENTESIMOPRIMO 



ARGOMENTO 

Penelope per ispiraMon di Minerva, propone il cimento del- 
Tax'Co, presta a quello sposare tra i Proci, che saprk ten- 
derlo e spinger secondo la imposta legge lo strale* — Te- 
lemaco apparecchia il giuoco, ed egli stesso pruovasi il 
primo, pensando di ritenere in casa, se il giuoco gli riesce, 
la madre: ma in sul più bello il padre gli comanda di 
starsi. — Si pruovano alcuni Proci , ed inutilmente. — 
Bscono intanto Filezìo ed Eumòo ; e Ulisse li siegue, si 
scuopre, e dà loro gli ordini più opportuni. — Nuovi ed 
inutili tentativi, dopo i quali Àutinoo suggerisce di diffe- 
rire al giorno appresso il cimento. -^ Ulisse anch*egU vuol 
cimentarsi, e i Proci t'oppongono indarno. -^ Egli esamina 
I-arco, il tende cOn molta facilità, e spinge la freccia se^ 
condo il rito felicissimamente. 



Ma Palla, occhio azzurrino, alla prudente 
Figlia d'Icario eatro lo spirto mise 
Di propór Tarco ai Proci, e i ferrei anelli» 
Nella pasa d*Ulisse: acerbo gioco, 
E di strage principio, e di Yendetta. 
La donna salse alla magion più alta, 
E deirabii sua man la bella e ad arte 
Curvata «biave di metallo prese 
Pel manubrio di candido elefante. 
Ciò fatto, andò con le fedeli ancelle 
Nella stanza più interna, ove i tesori 
Serbavansi del Re: rame, oro e ferro 
Ben travagliato. E (jui giacca par l'arco 

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376 ' ODiàSBA (t. 1449 

Ritorto, e il sagittifero turcasso, 

Cile molte dentro a sé frecce chiudea 

Dolorifere : doni, che ad Ulisse, 

Cai s'abbattè nella Laoonia un giorno, 

Feo TEuritide Ifito ai Numi eguale. 

S'incoutraro gli eroi nella magione 
D'Orsiloco in Messenia. Di Messeni 
Una masnada pecore trecento 
Co'lor custodi su le lunghe navi 
Rapito area dagl'Itacesi paschi; 
E a richiedere il padre, e gli altri vecchi, 
Giovane ambasciator per lunga strada. 
Mandare Ulisse. D'altra parte Ifito 
In traccia sen venia delle perdute 
Sue dodici cavalle, e delle forti 
Alla lor mamma pazienti mule, 
Donde ruina derivògli, e morte: 
Però che Alcide, il gran fìgliuol di Giove, 
D'opere grandi fabbro, a lui, che accolto 
Nel suo palagio avea, non paventando 
Nò la giustizia degli Dei, né quella 
Mensa ospitai che gli avea posta innanzi, 
Tolse iniquo la vita, e le giumente 
Dalla forte unghia in sua balìa ritenne. 
Queste cercando, s'abbattè ad Ulisse, 
E l'arco gli donò, che il chiaro Eurito 
Portava, e in man del suo diletto figlio 
Poi^e morendo negli eccelsi alberghi. 
E il Laerziade un' affilata spada 
Diede, e una lancia noderosa a Ifito, 
D'un'amistà non lunga unico pegno: 
Che di mensa conoscersi a vicenda 
Lor non fu dato, ed il fìgliuol di Giove 
L'Euritide divino innanzi uccise. 
Quest'arco Ulisse, allorché in negra nave 
Alle dure traea belliche prove, 

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(v- 50-85) LIBRO XXI. 377 

Noi togliea mai; ma per memoria eterna 
Del caro amico alla parete appeso 
Lasciar solealo, e sol gravarne il dosso 
Neir isola natia gli era diletto. 

Come pervenne alla secreta stanza 
Li'egregia donna, e il limitar di quercia 
Salì construtto a squadra e ripolito 
Da fabbro industre, che adattovvi ancora 
Le imposte ferme e le lucenti porte, 
Tosto la fune dell'anello sciolse, 
E introdusse la chiave, ed i serrami 
Respinse: un rimugghiar, come di tauro, 
Che di rauco boato empie la valle, 
S*udì, quando le porte a lei s'aprirò. 
Blla montò su l'elevato palco. 
Dove gi accano alle bell'arche in grembo 
Le profumate vesti, e, distendendo 
Quindi la man, dalla cavicchia l'arco 
Con tutta distaccò la luminosa 
Vagina, entro cui stava. Indi s'assise; 
. E, quel posato su le sue ginocchia. 
Ne' pianti dava, e ne' lamenti : al fine 
Dalla custodia sua l'arco fuor trasse. 
Ma poiché fu di lai sazia e di pianti. 
Scese, e de' Proci nel cospetto venne. 
Quello in man sostenendo, e la farètra 
Gravida di mortifere saette: 
Mentre le ancelle la seguian con cesta 
Del ferro piena, che leggiadro a Ulisse 
Di forza esercizio era, e di destrezza. 
Giunta ove quei sedean, fermava il piede . 
Della sala dedalea in su la soglia 
Tra l'una e l'altra ancella, e co* sottili 
Veli del crine ambo le guance ombrava. 
Poi sciogliea tali accenti : voi, che in questa 
Gasa, lontano Ulisse, a forza entraste, 

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378 ODISSEA (v. 86-121) 

GÌ* interi giorni a consumar tra i Bappi, 
Nò di tal reità miglior difesa 
Sapeste addur, che le mie nozze, udite. 
Quando sorse il gran dì, che la mia mano 
Ritener più non deggio, ècco d'Ulisse 
L'arco, càie per certame io vi propongo. 
Chi tenderallo, e passerà per tutti 
Con la freccia volante i ferrei cerchi, 
Lui seguir non ricuso, abbandonata 
Questa si bella, e di ricchezze colma 
Magion de* miei verd' anni, ond'anche in sogno 
Dovermi spesso ricordare io penso. 

Disse; e, chiamato Eumèo, recare ai Proci 
L*arco gì' ingiunse, e degli anelli il ferro, 
Ei lagrimando il prese, e nella sala 
Deposelo; e Filezio in altra parte. 
Visto Tarma del Re, pianto versava. 
Ma sgrida vali Antinoo in tai parole: 
Sciocchi villani, la cui mente inferma 
Oltra il presente di mai non si stende. 
Perchè tal piagnistèo? Perchè alia donna 
L'alma nel petto commovete, quasi 
Per sé stessa non dolgasi abbastanza 
Del perduto consorte? qui sedete 
Taciti a bere, o a singhiozzare uscite, 
E lasciate a noi Tarco, impresa molto , 
Vaglia il ver, forte per noi tutti, e a gabbo 
Da non pigliar: che non avvi uom tra noi 
Pari ad Ulisse per curvarlo. Il vidi 
Negli anni miei più teneri, ed impressa 
Me ne sta in mente da quel dì 1* imago. 
Così d'Eupite il figlio; e non pertanto 
Il nervo confìdavasi piegarne, 
E d'anello in anel mandar lo strale. 
Ma dovea prima l'infaUibil freccia 
Gustare in vece dall'eroe scoccata, 

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i(v. 122-157) LIBRO XXI. 379 

Cui poc'anzi oltragg^iava , e incontro a cui 
Aizzava i compagni a mensa assiso. 
Qui tra i Proci parlò la sacra forza 
Di Telemaco: Oh Dei! Me Giove al certo 
Cavò di senno. La diletta madre 
Dice un altro consorte, abbandonando 
Queste mura, seguir, benché si saggia, 
E folle io rido, e a sollazzarmi attendo. 
Su, via, poiché a voi donna in premio s'offre, 
Cui non l'Acaica terra, e non fé sacra 
Pilo, ed Argo, Micene, Itaca stessa 
Vanta l'eguale, e la feconda Epiro; 
E il sapete voi ben, né, ch'io vi lodi 
La genitrice, oggi è mestier; su, via, 
Con vane scuse non tirate in lungo 
Questo certame, e non rifugga indietro 
Dalla tesa dell'arco il vostro braccio. 
Cimenterommi anch'io. S'io tenderoUo, 
E ne* ferri entrerò con la mia freccia. 
Me qui lasciar per nuove nozze in duolo 
La genitrice non vorrà, fuggire 
Non vorrà da un figliuolo, che ne' paterni 
Giochi la palma riportar già vale. 

Surse, ciò detto, ed il purpureo manto 
Dagli omeri deposto e il brando acuto, 
Scavò, la prima cosa, un lungo fosso. 
Le colonnette con gli anelli in cima 
Piantovvi, a squadra dirizzoUe, e intorno 
La terra vi calcò. Stupiano i Proci 
Vedendole piantare a lui si bene, 
Bench'egli a nessun pria viste le avesse. 
Ciò fatto, delle porte andò alla soglia, 
E, fermatovi il pie, l'arco tentava. 
Tre fiate trar volle il nervo al petto. 
Tre dalla man gli scappò il nervo. Pure 
Non disperava che la quarta prova 

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"380 ODISSEA (v, 158-193) 

Più felice non fosse. E già, la corda 
Traendo al petto per la quarta volta', 
Teso avria Tarco: ma il vietava Ulisse 
D'un cenno, e lui, che tutto ardea, frenava. 
E Telemaco allor, Numil soggiunse, 
debile io vivrò dunque, e dappoco 
Tutto il mio tempo, o almen la poca etade 
Forze da ributtar chi ad oltraggiarmi 
Si scagliasse primier, non dammi ancora. 
Ma voi, che siete piti gagliardi. Tarma 
Tastate adunque, e si compisca il gioco. 

Detto c(»sì, Tarco ei depose a terra, 
E all'incollate tavole pulite 
L'appoggiò della porta, e posò il dardo 
Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava. 
Poi s'assise di nuovo. E Àntinoo, il figlio 
D'Eupite, favellò: Tutti, o compagni 
Dalla destra per ordine v'alzate, 
Cominciando ciascun, donde il vermiglio 
Licor si versa. Il detto piacque, e primo 
L'Enopide Leòde alzossi, ch'era 
Loro indovino, e alla bell'urna sempre 
Sedea più presso. Odio alla colpa ei solo 
Portava, e gli altri riprendea. Costai 
L'arco lunato ed il pennuto strale 
Si r^cò in mano, e alla soglia ito, e fermo 
Su i piedi, tentò il grave arco, e noi tese: 
Che senti intorno alla ribelle corda 
Prima stancarsi la man liscia e molle. 
Altri, disse, sei prenda; io certo, amici, 
Noi tenderò: ma credo ben, che a molti 
Sarà morte quest'arco. È ver che meglio 
Torna il morire, che il giù torsi vivi 
Da quella speme altissima, che in queste 
Mura raccolti sino a qui ci tenne. 
Spera oggi alcun, non che in suo core il brami, 

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iv. 194-229) LIBRO XXI. 381 

La Regina impalmar: ma, come visto 
Questo arnese abbia, e maneggiato , uà* altra 
Chiederà deli*Achee peplo addobbate, 
Nuziali presenti a lei porgendo, 
E a Penelope il fato uom, che di doni 
Ricolmeralia, condurrà d'altronde. 

Così parlato, ei mise l'arco a terra, 
E air incollate tavole polite 
L'appoggiò della porta, e posò il dardo 
Sul cerchio, che dell'arco il sommo ornava. 
Quindi tornò al suo seggio. E Antinoo in tali 
Voci proruppe: Qual molesto, acerbo 
Dalla chiostra de' denti a te, Leode, 
Detto sfuggì, che di furor m'infiamma?^ 
A igioi dunque sarà morte quest'arco? 
Se tu curvar noi puoi, la madre incolpa. 
Che d'archi uom non ti fece, e di saette: 
Ma gli altri Proci il curveranno, io penso. 

Disse, e al custode del caprino gregge 
Questo precetto die: Melanzio accendi 
Possente foco nella sala, e appresso 
Vi poni seggio, che una pelle cuopra. 
Poi di bianco e indurato adipe reca 
Grande, ritonda massa, acciocché s'unga 
Per noi l'arco, e si scaldi, ed in tal guisa 
Questo certame si conduca a fine. 

Melanzio accese un istancabil fuoco, 
E con pelle di sopra un seggio pose. 
Poi di bianco e indurato adipe massa 
Grande e tonda recò. L'arco unto e caldo 
Piegar tentare i' giovani. Che valse, 
Se lor non rispondean le braccia imbelli? ' 
Ma dalla prova s'astenean finora 
Eurimaco ed Antinoo, che de' Proci 
Bràn di grado e di valore i primi. 
Uscirò intanto del palagio a un tempo 

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382 ODISSÈA (t. 280-265} 

Il pastor deV maiali, e quel de' buoi, 
E Ulisse dopo. Delle porte appena 
Fuor si tre varo, e del corti J, eh' ei dolci 
Parole ad ambi rivolgendo, Eumèo, 
Disse, e Filezio, favellar degg*io, 
i detti ritener? Di ritenerli 
L*animo non mi dà. Quali sareste ' 
D'Ulisse a prò, se d'improvviso al vostro 
Cospetto innanzi il presentasse un Nume? 
Ai Proci, o a lui, soccorrereste voi? 
Ciò, che nel cor vi sta, venga sul labbro. 

Giove padre, esclamò allor Filezio, 
Adempi il voto mio! L'eroe qua giunga, 
E un Nume il guidi. Tu vedresti, o vecchio, 
Quale in me 1' ardir fora, e quale il braccio. 
Ed Eumèo nulla meno agli Dei tutti 
Pel ritorno del Re preghiere alzava. 

Ei, come certo a pien fu della mente 
Sincera e fida d'ambiduo, soggiunse: 
In casa eccomi io stesso, io, che, sofferte 
Sventure senza numero, alla terra 
Nativa giunsi nel vigesim' anno. 
So che a voi solo desiato io spunto 
Tra i servi miei: poiché degli altri tutti 
Non udii che un bramasse il mio ritorno. 
Quel ch'io farò per voi, dunque ascoltate. 
Voi da me donna e robe, ove dai Numi 
D'esterminar mi si conceda i Proci, 
Voi case della mia non lungi estrutte 
Riceverete, ed io terrovvi in conto ^ 
Di compagni a Telemaco, e fratelli. 
Ma perchè in forse non restiate punto, 
Eccovi a segno manifesto il colpo, 
Che d'un fiero cinghiai la bianca sauna 
M'impresse il di ch'io sul Parnaso salsi 
Co' figliuoli d' Autolieo. Ciò detto, 

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(v. 266:301) iiBRo XXI. , .383 

DalLv gran cicatrice 1 panni tolse. 

Quei, tutto visto attentamente, e tocco, 
Piagnean, gittate di Laerte al figlio 
Le mani intorno, ^ gli omeri e ìa testa. 
Stringendo!, gli baciavano; ed Ulisse 
Lop baciò similmente e mani e capo. 
E già lasciati il tramontato Sole 
Lagrimosi gli avria, se cosi Ulisse 
!Non correggeali: Fine ai pianti. Alcuno 
Potria vederli, uscendo, e riportarli 
Di dentro. Udite. Nella saia il piede 
Riponiam tutti, io prima, e poscia voi, 
E d'un segnale ci acct)rdiamo. I Proci, 
Che a me si porga la faretra e Tarco, 
Non patiran: ma tu divino Eumeo, 
L'uno e l'altra mi reca, e di' alle donne, 
Che gli usci chiudan delle stanze loro; 
E per romor nessuna, o per lamento, 
Che l'orecchio a ferir le andasse a un tratto, 
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua. 
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi. 
Raccomando a te poi, Filezio illustre. 
Serrar la porta, del cortile a chiave, 
E con ritorte rafforzarla in fretta. 
Entrò, ciò detto, e donde pria sorto era, 
S'assise; ed ivi a poco entraro i servi. 

Già per le mani Euriraaco il grand'arco 
Si rivolgeva, ed a'rai quinci e quindi 
Della fiamma il vibrava. Inutil cura! 
Meglio che gli altri non per questo il tese. 
Gemè nel cor superbo, e queste voci 
Tra i sospiri mandò: Lasso! un gran duolo 
Di me stesso e di voi sento ad un'ora. 
Né già sol piango le perdute nozze: 
Che nell'ondicerchiata Itaca, e altrove. 
Sul capo a molte Achèe s'increspa il crine, 

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384 ' òDissBA {y. 302-337) 

Piango, che, se di' forze al grande Ulisse 
Tanto cediam da non curvar quest'arco, 
Si rideran di noi Tetà future. 

No, l'Eupitide Antinoo a lui rispose. 
Ciò, Eurinaaco, non fìa: tu stesso il redi. 
Sacro ad Apollo è questo dì. Chi l'arco 
Te^der potrebbe? Deponiamlo, e tutti 
Lasciamo star gli anelli, e non temiamo 
Che alcun da dove son, rapirli ardisca. 
Su, via, Tabil coppier vada co* nappi 
Ricolmi in giro, e, poiché avrem libato, 
Mettiam l'arco da parte. Al di novello 
Melanzio a noi le più fiorenti capre 
Guidi da tutti i branchi, onde, bruciati 
I pingui lombi al glorioso Arciere, 
Si riprenda il cimento, e a fin s'adduca. 

Piacque il suo detto. I banditori tosto 
L'acqua diero alle man, l'urne i donzelli 
Di vino incoronaro, e il dispensare 
Con le tazze, augurando, a tutti in giro. 
Come libato, e a piena voglia tutti 
Bevuto ebber gli amanti, il saggio Ulisse, 
Che stratagemmi in cor sempre agitava, 
Cosi lor favellò: Competitori 
Dell'inclita Regina, udir v'aggradi 
Ciò che il cor dirvi mi consiglia e sforza. 
Eurimaco fra tutti e il pari a un Nume 
Antinoo, che parlò si acconciamente. 
L'orecchio aprire alle mie voci io priego. 
Perdonate oggi all'arco, e degli Eterni 
Non ostate al voler: forza domane 
A cui lor piacerà, daranno i Numi: 
Ma intanto a me, Proci, quell'arma: io prova 
Voglio far del mio braccio, e veder s'io 
Nelle membra pieghevoli l'antico 
Vigor mantengo, o se i miei lunghi errori 

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(v. S38-373) iiBRO XXI. 385 

Disperso rhanno, e i molti miei disagi^ 

Rinfocolarsi a ciò forte temendo 
Non il polito arco ei piegasse. E Antinoo 
Lo sgridava in tal guisa: miserando 
Degli ospiti, sei tu fuor di te stesso? 
Non ti contenti, che tranquillo siedi 
Con noi Principi a mensa, e, che a "nuU'altro 
Stranier mendico si concede, vieni 
Delle vivande e de 'sermoni a parte? 
Certo te offende il saporoso vino. 
Che tracannato a:vidamente, e senza 
Modo e termine alcuno, a molti nocque. 
Nocque al famoso Eurizìon Centauro, 
Quando venne tra i Làpiti, e nell'alta 
Casa ospitale di Piritoo immensi, 
Compreso di furor, mali commise: 
Molto ne dolse a quegli eroi, che incontro 
Se gli avventare, e del vestibol fuori 
Trasserlo, e orecchie gli mozzare e nari 
Con affilato brando; ed ei, cui spento 
Deirintelletto il lume avevan le tazze, 
Sen già manco nel corpo e nella mente. 
Quindi s^accese una cruenta pugna 
Tra gli sdegnati Làpiti e i Centuari: 
Ma, gravato dal vin, primo il disastro 
Eurizìon portò sovra sé stesso. 
Cosi te pur grave infortunio aspetta, 
Se l'arco tenderai. Del popol tutto 
Non fia chi s'alzi in tua difesa, e noi 
Ad Echeto, degli uomini flagello, 
Dalle cui man nò tu salvo uscirai, 
Ti manderem su rapido naviglio. 
Chetati adunque, ed il pensièro impronto 
Di contender co* giovani ti spoglia. 

Qui Penelope disse: Antinoo, quali 
Di Telemaco mio gli ospiti sieno. 



386 ODISSEA (y, 374,4CQ) 

Turpe ed ingiusto è il tempestarli tanto, 
Pensi tu forse, che ove lo straniero, 
Fidandosi di sé, l'arco tendesse, 
Me quinci condurria moglie al suo tetto? 
Né lo spera egli, né turbato a mensa 
Dee per questo sedere alcun di voi. 
Cosa io veder non so, che men s'addica. 

Ed Eurimaco a lei: D'Icario figlia, • 
Non v'ha fra noi, cui nella mente cada. 
Che te pigli a consorte uom che sì poco . 
Degno è di te. Ma degli Achei le lingue 
Temiamo, e delle Achee. La più vii bocca 
Ve', grideria, quai d'un eroe la donna 
Chiedono a gara giovinotti imbelli. 
Che né valgon piegare il suo bell'arco, 
Mentre un tapino, un vagabondo, un giunto 
Testé, curvollo agevolmente, e il dardo 
Per gli anelli mandò. Tal griderebbe; 
E tinto andria d'infamia il nostro nome. 

E cosi a lui Penelope rispose : 
Eurimaco, non lice un nome illustre 
Tra i popoli agognare a chi d'egregio 
Signor la casa dal suo fondo schianta. 
Perché tinger voi stessi il nome vostro 
D'infamia? È lo stranier di gran sembiante, 
Ben complesso di membra e generosa 
La stirpe vanta, e non vulgare il padre. 
Dategli il risplendente arco, e veggiamo. 
Se il tende, e gloria gli concede Apollo, 
Prometto^ e non invan, tunica bella 
Vestirgli, e bella clamide, ed in oltre 
Un brando a doppio taglio, e un dardo acato 
Mettergli in mano, e sotto ai pie calzari; 
E là inviarlo, dove il suo cor mira. 

.Maitdre, disse Telemaco, a me solo 
Sta in mano il dare, o no, quell'arco, io credo: 

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(v. 410-445) LiBHO XXI. S8T 

Né ha in lui ragione degli Achivi alcuno, 

Che son neiralpestra Itaca signori, 

O nell'isole prossime alla verde 

Elide, chiara di cavalli altrice. 

E quando farne ancor dono io volessi 

Al forestier, chi 'nvid'iar mei puote? 

Ma tu rientra; ed al telaio e al fuso, 

Come pur suoli, con le ancelle attendi. 

Cura sarà degli uomini quell'arma, 

E più che d'altri, mia; che del palagio 

11 governo in me sol, madre, risiede. 

Attonita rimase, e del figliuolo 
Con la parola, che nell'alma entroUd^ 
Risalì in alto tra le fide ancelle. 
Quivi, aprendo alle lagrime le porfe, 
"Ulisse, Ulisse a nome iva chiamando: 
Finché un dolce di tanti e tanti affanni 
Sopitor sonno le mandò Minerva. 

L'arco Eumèo tolse intanto ; e già il portava, 
E i Proci tutti nel garriano, e alcuno 
Così diceva de' giovani orgogliosi: 
Dove il grand' arco porti, o dissennato 
Porcaio sozzo? Appo le troie in breve 
Te mangeran fuor d'ogni umano aiuto 
Gli stessi cani di tua man nutriti 
Se Apollo è a noi propizio, e gli altri Numi. 

Impaurito delle lor rampogne, 
L'arco ei depose. Ma dall'altra parte 
Con minacce Telemaco gridava: 
Orsù, va' innanzi con quell'arco. Credi 
Che l'obbedire a tutti in prò ti torni? 
Pon cura ch'io con iscagliati sassi 
Balla cittade non ti cacci al campo. 
Io minor d'anni, ma di te più forte. 
Oh così, qual di te, piti forte io fossi 
De' Proci tutti che qui sono! Alcuno 

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888 ODISSEA. ^ (v. 4^-481) 

Tosto ne sbalzerei fuor del palagio, 
Dove il tesser malanni è lor bell'arte. 

Tutti scoppialo in un giocondo riso 
Sul custode de' verri, e della grave 
Contra il garzone ira allentaro. Eunaéo, 
Traversata la sala, innanzi a Ulisse 
Fermossi, ed il grande arco in man gli mise. 
Poi, chiamata Euriclóa, parlò in tal forma: 
Saggia Euriclóa, Telemaco le stanze 
Chiuder t'ingiunge, e dell'ancelle vuole. 
Che per rumor nessuna, o per lamento. 
Che l'orecchia a ferir le andasse a un tratto 
Mostrisi fuori, ma quell'opra siegua, 
Che avrà tra mano allor, né se ne smaghi. 

Non parlò al vento. La nutrice annosa 
Tutte impedì le uscite, e al tempo istesso 
Filezio si gettò tacitamente 
Fuor del palagio, e rinserrò le porte 
Del cortil ben munito. Una gran fune 
D*Egizio giunco per navigli intesta 
Giacca sotto la loggia; ed ei con quella 
Più ancor le porte rafforzò. Ciò fatto, 
Rientrava, e la sedia ond'era sorto, 
Premea di nuovo, riguardando Ulisse. 
Ulisse l'arco maneggiava, e attento 
Per ogni parte rivoltando il giva 
Qua tastandolo, e là, se 1 muti tarli 
Ne avesser mai rose le corna, mentre 
N'era il signor lontano. E alcun, rivolti 
Gli sguardi al suo vicino; Uom, gli dicea, 
Che si conosce a maraviglia d'archi, 
È certo, un arco somigliante pende 
A lui dalla domestica parete, 
O fabbricarne un di tal fatta ei pensa : 
Così questo infelice vagabondo 
T l'arco tra le sue man volta e rivolta! 

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(jv. 48^517) LIBRO XXI. 3à9, 

E un altro ancor de* giovani protervi : 
Deh così in bene gli riesca tutto, 
Come teso d« lui sarà queirarco ! 

Ma il Laerziade, come tutto l'ebbe 
Ponderato e osservato a parte a parte, 
Qual perito cautor, che, le ben torte 
Minuge avvinte d'una sua novella 
Cetera ad ambo i lati, agevolmente 
Tira, volgendo il bischero, la corda : 
Tale il grande arco senza sforzo tese. 
Poi saggio far volle del nervo; aperse 
La mano, e il nervo mandò un suono acuto, 
Qual di garrula irondine è la voce. 
Gran duolo i Proci ne sentirò, e in volto 
Trascolorare; e con aperti segni 
Fortemente tonò Giove dall'alto. 
Gioì l'eroe, che di Saturno il figlio, 
Di Saturno, che obliqui ha pensamenti, 
Gli dimostrasse il suo favor dal cielo; 
E un aligero strai, che su la mensa 
Risplendea, tolse : tutte l'altre frecce, 
Che gli Achivi assaggiar dovean tra poco, 
In sé chiudeale il concavo turcasso. 
Posto su Tarco, ed incoccato il dardo, 
Traea seduto, siccom'era, al petto 
Con la man destra il nervo; indi la mira 
Tra i ferrei cerchi prese, e spinse il telo, 
Che, senza quinci deviare, o quindi. 
Passò tutti gii anelli alto ronzando. 
Subitamente si rivolse al figlio, • 
E, Tejemaco, disse, il forestiero 
Non ti svergogna, parmi. Io punto lungo 
Dal segno non andai, né a tender l'arco 
Faticai molto : le mie forze intere 
Serbo e non merto villanie dai Proci. 
Ma tempo è omai che alla cadente luce 

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390 ODUSBA '-. {v.-S18E^!K)| 

Lor s'appresti la cena; e poi si tocchi 
La cetra molticorde, e s'alzi il canto. 
In che pid di piacer la mensa acquista. 

Disse, e accennò co' sopraccigli. Allora 
Telemaco d'Ulisse il pegno caro, 
La spada cinse, impugnò l'asta, e, tatto 
Risplendendo nell'armi, accanto al padre. 
Che pur seduto rimanea, locossi. 

LIBRO VENTESIMOSECONDO 



ARGOMENTO 

Ulisse comincia la gran vendetta, e il primo che uccide, saet- 
tandolo, è Antinoo. — Earimacotenta di placarlo, ma indarno, 
e dopo aver confortato i compa^^ni a combattere, è ucciso 
anch'egli da Ulisse. — Telemaco ammazza Aufinomo. — 
Poi mentre il padre segue a maneggiar Tarco, va a pren- 
der le altre armi cosi per lui, come per sé e perii due pa- 
stori. — Melanzio & il medesimo per li Proci. — Puni- 
zione dì lui. — Minerva comparisce ad Ulisse in forma di 
Mentore».e rincoraggia — Appresso scuopre TEgida. e mette 
i Proci in grande scompiglio. — Tutti rimangono uccisi, e 
solamente son risparmiati il poeta Femio e V araldo ìde- 
donte. — Elogio della poesia. — Le donne colpevoli obbli- 
gate sono a trasportar fuori i cadaveri : indi punite. ^ 
Ulisse purifica con fuoco e zolfo la casa, e chiama a sé le 
altre donne, che gli fanno gran fasta, e ch'egli subito rico- 
nosce. 

Sorse, e spogliossi de* suoi cenci Ulisse, 
E sul gran limitare andò d'un salto, 
L* arco tenendo, e la faretra. I ratti 
strali, onde gravida era, ivi gittossi 

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i 



(Y. 3-40) LIBRO XXII. 391 

Bavante ai piedi, e ai Proci disse: A fine 
Questa difficil prova è già condotta. 
Ora io vedrò, se altro bersàglio, in cui 
Nessun diede sin qui, toccar m'avviene, 
E se me tanto privilegia Apollo. 
Cosi dicendo, ei dìrigea Tamaro 
Strale in Antinoo. Antinoo una leggiadra 
Stava per innalzar coppa di vino 
Colma, a due orecchie, e d*oro ; ed alle labbra 
Già l'appressava ; né pensier di morte 
Nel cor gli si volgea. Chi avria creduto 
Che fra cotanti a lieta mensa assisi 
Un sol, quantunque di gran forze, il nero 
Fabbricar gli dovesse ultimo fato 9 
Nella gola il trovò col dardo Ulisse, 
E sì colpillo, che dall'altra banda 
Pel collo delicato uscì la punta. 
Ei piegò da una parte, e dalle mani 
La coppa gli cade: tosto una grossa 
Vena di sangue mandò fuor pel naso; 
Percosse colle piante, e da sé il desco 
Respinse; sparse le vivande a terra; 
Ed i pani imbrattavansi, e le carni. 
Visto Antinoo cader, tumulto i Proci 
Fer nella sala, e dai lor seggi alzaro, 
Turbati raggirandosi, e guardando 
Alle pareti qua e là; ma lancia 
Dalle pareti non pendea, né scudo. 
Allor con voci di grand'ira Ulisse 
Metteansi a improverare : Ospite, il dardo 
Ne'petti umani malamente scocchi. 
Parte non avrai più ne' giuochi nostri: 
Anzi grave mina a te sovrasta. 
Sai tu che un uomo traffìgesti, ch'era, 
Dell' Itacense gioventude il flore ? 
Però degli avvoltoi sarai qui pasto. 

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392 ODISSEA (v. 41-76) 

Così, pensando involontario il oolpo, 
Dicean : né s'avvedean folli, che posto 
Ne'confìni di Morte avean già il piede.- 
Ma torvo riguardoUi, e in questa guisa 
Favellò Ulisse : Credevate, o cani, 
Che d'Ilio io piti non ritornassi, e intanto 
La casa disertar, stuprar le ancelle, 
E la consorte mia, me vivo, ambire 
Custumavate, non temendo punto 
Né degli Dei la grave ira, né il biasmo 
Permanente degli uomini. Ma venne 
La fatai per voi tutti ultima sera. 

Tutti inverdirò del timore, e gli occhi, 
Uno scampo a cercar, volsero intorno. 
Solo, e in tal forma, Eurimaco rispose: 
Quando, il vero tu sii d' Itaca Ulisse 
Fra noi rinato, di molt'opre ingiuste, 
Che sì nel tuo palagio, e si ne'campi 
Commesso furo, ti quereli a dritto. 
Ma costui, che di tutto era cagione. 
Eccolo in terra, Antiiioo. Ei delFingiuste 
Opre fu l'autor primo ; e non già tanto 
Pel desiderio delle altere nozze, 
Quanto per quel del regno, a cui tendea. 
Insidiando il tuo figliuolo; occulte 
Macchine, che il Saturnio in man gli ruppe 
Poiché morto egli giace, alla tua gente 
Perdona tu. Pubblica emenda farti 
Noi promettiamo: promettiam con venti 
Tauri ciascuno, e con oro, e con bronzo. 
Quel vuoto riempir, che ne'tuoi beni 
Gozzovigliando aprimmo; in sin che il core 
Alla letizia ti si schiuda, e sgombri 
L'ira, onde a gran ragione arse da prima. 

Bieco mirollo, e replicógli Ulisse: 
Dove Eurimaco, tutte ancor mi desto 

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>• 77-112) LIBRO XXII. 393 

L'eredità vostre paterne^ e molti 
Beni stranieri vi poneste accanto, 
Io questa man non riterrei dal sangue, 
Che la vendetta mia piena non fosse. 
Op, qual de*due vi piacerà, scegliete, 
Combattere, o fuggir, se pur v*ha fuga 
Per un sol di voi : ciò ch'io non credo. 

Ciascun de' Proci il cor dentro mancarsi 
Sentì, e piegarsi le ginocchia sotto. 
Ed Eurìmaco ad essi: amici, indarno 
Sperate che le braccia egli ùon muova. 
L'arco una volta, ed il turcasso assunti. 
Disfrenerà dal limitare i dardi. 
Finché tutti ci atterri. Alla battaglia 
Dunque si pensi : distringiam le spade, 
E, delle mense alle letali frecce 
Scudo facendo a noi, piombiamgli sopra 
Tutti in un gruppo. Se da quella porta 
Scacciarlo ne riesce, e la cittade 
Scorrere, alzando al ciel subite voci, 
Dal saettar si rimarrà per sempre. 
Disse, e l'acuto di temprato rame 
Brando a due tagli strinse, e su lui corse 
Con terribil grida. In quella Ulisse, 
Votato l'arco, al petto il colse, e il pronto 
Nel fegato gì* infìsse acerbo strale. 
Lasciò Eurìmaco il brando, e dopo alquanti 
Giri curvato su la mensa cadde, 
E i cibi riversaronsi e la coppa. 
Ma ei battè sopra la terra il capo. 
Nell'alma tapinandosi, ed il seggio, 
Che già premer solca, con ambo i piedi 
Forte spingando, scosse : al fine un'atra 
Tutto il coverse sempiterna notte. 

Ma d'altra parte Anfinomo avventossi 
Col brando in man centra Teroe, se mai 

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394 ' ^ ODISSEA (v. 113.US 

Dalla- soglia disvellerlo^ potesse. 
Il prevenne Telemaco, e da tergo 
Tra le spalle il ferì <M)n la pungente 
Lancia, che fuor gli riuscì del petto. 
Queirinfelice rimbombò caduto, 
E con tutta la fronte il suol percosse. 
Ma il garzon sottraeasi, abbandonando 
La lancia entro d'Anfinomo: temea. 
Non alcun degli Achei, mentr' egli chino 
Stariasi Tasta a sconficcare intento. 
Di furto il martellasse, o con la spada 
Sopra mano il ferisse alla scoperta. 
Quindi ricorro ratto, e in un baleno 
Al caro padre fu vicino, e a lui, 
Padre, disse, uno scudo, e lance due, 
E un adatto alle tempie elmo lucente 
Ti recherò, m'armerò io stesso, ed armi 
A Filenzio darò, darò ad Eumèo. 
De'consigli il miglior sembrami questo. 

Sì, corri, Ulisse gli rispose, e riedi, i 

Finché restano a me dardi a difesa: 
Ma riedi prestamente, onde gli Achei | 

Me, che son solo, non ismuovan quinci. i 

Ubbidì il figlio, e alla superna stanza, | 
Dove Tarmi giaceano, andò di passo | 

Lanciato, e targhe quattro, ed otto lance 
Prese, e quattro lucenti elmi di chioma 
Equina folti, e in brevi istanti al caro ' 

Genitor si rendè. Qui del metallo | 

Munì egli primo la persona, e i servi. | 

Parimenti le belle armi vestirò. 
Ed alTaccorto eroe stettero intorno. 1 

Questi, finché le frecce a lui bastare, 
Togliea la mira, ed imbroccava ognora, 1 

E cadeau Tun su Taltro i suoi nemici. I 

Ma poiché le infallibili saette 

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(V. 149-184) LIBRO XXII. 395 

Oli far venute ttien, l'arco ei depose, 

E Tap poggiò del ben fondato albergo 

Al nitido parete. Indi le spalle 

Si carco d'uno scudo a quattro doppi. 

L'elmo dedaleo con l'equina chioma 

Piantossi in capo, e dae possenti lance 

Nella man si recò: sovra la testa 

Gli ondeggiava il cimier terribilmente. 

Era in capo alla sala, e nel parete 

Del ben fondato albergo una seconda 

Di congiunte assi rinforzata porta, 

Che in pubblico mettea non largo calle. 

Di questa per cui sol s'apriva un passo 

Ulisse volle il fido Euméo per guardia. 

Agelao v'ebbe l'occhio, e disse: amici, 

Non ci sarà chi quella porta sforzi, 

E sparga voce, e il popolo a remore 

Levi, perchè costui cessi dai colpi? 

Ciò, rispose Melanzio, ad alcun patto 

Non possiamo, Agelao di Giove alunno. 

Le porte del cortil troppo vicine 

Sono, ed angusta è quell'uscita, e un solo, 

Cui non manchi valor, cento respinge. 

Pur non temete. Io porterò a voi l'armi 

Dalla stanza superna, in cui riposte 

Da Ulisse e dal figliuol senz'altro furo. 

Detto, andar sa e giù per l'alta scala, 
Entrar, pigliar dodici targhe, e lance 
Tante, e tanti criniti elmi, ed il tutto 
Mettere in man de' palpitanti Proci, 
Fu di pochi momenti opra felice. 

Turbar l'animo Ulisse, e le ginocchia 
Languir sentì, ratto che ai Proci, vide 
Prender gli elmi e gli scudi, e le lunghe aste 
Ir con la destra palleggiando ; e allora 
L'arduo conobbe dell'assunta impresa. 

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396 ODissEA^ (v. 1^-220) 

Si converse al flgliuol tosto, e, Telemaco, 
Con dolenti gli disse _alate voci, 
€erto il capraio, o delle donne alcuna. 
Raccende centra noi quest' aspra guerra. 

E Telemaco a lui, Padre, rispose, 
Io sol peccai, non altri, io, che la salda 
Porta lasciai mezsw) tra chiusa e aperta; 
Ed uno esplorator di me più astuto 
Si giovò intanto del mio fallo. Or vanne 
Tu, prode Eumòo, chiudi la porta e sappi. 
Se ciò vien da un' ancella; o dalla trista, 
Come parmi più ver, di Dolio prole. 

Mentre tali correan voci tra loro, 
Melanzio per le belle armi di nuovo 
Salse. Adocchiollo Eumèo, né a dir tardava 
Così ad Ulisse, che lontan non gli era: | 

Laerziade divin, quella rea peste, j 

Di cui noi sospetti am, sale di nuovo. 
Parlami chiaro : degg' io porlo a morte. 
Se rimangogli sopra, o qua condurlo, | 

Perchè a te innanzi d'ogni suo delitto 
Meritamente il fio paghi una volta? 

E il saggio Ulisse: a sostenere i Prenci, 
Come che ardenti, io col mìo figlio basto. 
Pilezio dunque, e tu, poiché l'avrete 
Entro la stanza rovesciato a terra. 
Ambo i piedi stringetegli, e le mani 
Sul tergo, chiusa dietro a voi la porta; 
E lui d'una insolubile catena 
Cinto tirate sino all'alte travi 
Lungo una gran colonna, acciocché il tutto 
Sconti con morte dolorosa e lunga. 

Pronti i servi ubbidirò. Alla sublime 
Camera s'affrettar, da lui, che dentro 
Era, e cercava nel piti interno l'arme, I 

Non visti e non sentiti; e si piantare 

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V. 221-256) ^ LIBRO Xxii. 397, 

Ciaìnci e quindi alla porta. Ei per la^ soglia 
Passava ratto, in una man portando 
Luminosa celata, ed un vetusto 
Nell'altra, e largo e arruginito scudo 
Glie gli omeri gravò del buon Laerte 
Sul primo fior dell'età sua: deposto 
Poscia, e dimenticato, da cui rotte 
Le coregge pendevano. Veloci 
L'assgJtùr, l'abbrancar, lo trascinaro 
Dentro pel ciuffo, e l'atterrar dolente: 
Indi ambo i piedi gli legaro, ed ambo 
Sovra i] tergo le man, qual di Laerte . 
Conciando il figlio; e lui d'una catena 
Insolubile cinto in sino all'alte 
Travi tirar lungo una gran colonna. 
1^ cosi allor tu il deridesti, Eumèo: 
Melanzio, or certo vegghierai la notte 
Sai letto molle come a te s'addice, 
Corcato; né uscirà dalle correnti 
I>eirOceàn, che tu non la vagheggi, 
L'aurora in trono d'or, quando le pingui 
Capre alla mensa condurrai de' Proci. 

Tal fu Melanzio fra legami acerbi 
Sospeso, e abbandonato ; e quei con l'arme 
Sceser, la porta risplendente chiusa: 
E presso al ricco di consigli Ulisse, 
Forza spiranti e ardire, il pie fermare. 
Cosi quattro guerrieri in su la soglia 
Erano ; e nella «ala un numeroso 
Drappello, e non ignobile. Ma Palla, 
L'armipotente del Saturnio figlia. 
Con la faccia di Mentore, e la voce. 
Tra le due parti d'improvviso apparve. 
Gioì a vederla il Laerzìade, e disse: 
Mentore, mi seconda, e ti rammenta 
Del tuo dolce compagno, onde a lodarti 

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398 ' ODISSEA ' (v. '25Y^2) 

Non raro avesti, e a cui sei d'anni eguale. 
Cosi Teroe : ma non gli tace il core. 
Che la sua diva in Mentore s'asconde. 
Dall'altra parte la garrìano i Proci, 
E primo dì Damastòride Agelao 
A minacciarla fu: Mentore, bada, 
Che a pugnar in suo prò centra gli Achivi 
Non ti seduca favellando Ulisse. 
Però che quando per man nostra uccisi 
Giaceran, come ho fede, il padre e il figlio 
Morrai tu ancora e il sangue tuo darai 
Per ciò che oprar nella magione or pensi. 
Che più? Te fatto cenere, co'beni 
D'Ulisse in monte andrà quant'or possiedi 
Nel tuo palagio e fuor; né a figli, o a figlie 
Menare i di sotto il natio lor tetto 
Consentirem, né alla tua casta donna 
D'Itaca soggiornar nella cittade. ! 

Vie più s'accende a cosi fatte voci 
L'ira di Palla, ed in rimbrotti scoppia 
Centra Ulisse lanciati: Io nulla, Ulisse, 
Di quel fermo vigor, nulla più veggio 
Di quell'ardire in te, che allor mostrasti 
Che innanzi a Troia per le bianche braccia 
Della nata di Giove inclita Elèna 
Combattesti un decennio. Entro -il lor sangue 
Molti stendesti de' nemici e prima 
S'ascrive a te, se la dall'ampie strade | 

Città di Priamo in cenere fu vòlta. 
Ed or che giunto alle paterne case 
La tua donna difendi e i beni tuoi, 
Mollemente t'adopri? Orsù, vicino 
Stammi, ed osserva, quale il figlio d'Alclioo, 
Mentore, fra una gente a te nemica 
De'beneficii tuoi morto ti rende. 
Tal favellava: ma perchè l'innata 

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V. ^03-328)' LIBRO ^xxiL 399 

Virtù del padre e del figliuol volea 
Provare ancor, per alcun tempo incerta 
La vittoria lasciò tra loro e i Proci. 
Quindi montando rapida, su trave 
Lucido ed alto, a rimirar la pugna, 
Di rondine in sembianza, ella s'assise. 

Frattanto il Damastòride Agelao, 
Anfinaedonte, Eurinomo, e il prudente 
Polipo, e Demoptòlemo, e Pisandro, 
Di PoUttore il figlio, alla coorte 
Spirti aggiungean, come color che i primi 
Kran di forza tra i rimasti in piede, 
E r alma difendeau: gli altri avea domi 
Li' arco. famoso e le frequenti frecce. 

Parlò a tutti Agelao: Compagni, io penso 
Che le indofnite man frenare un tratto 
Costui dovrà. Già Mentore disparve 
Dopo il bravar suo vano, e su la soglia 
Quattro sono, e non più. Voi non lanciate 
Tutti, io ven priego, unitamente: sei " 

Aste volino in prima; e il vanto Giove 
Di colpire in Ulisse a noi conceda. 
Caduto lui, nulla del resto io curo. 

Sei, com'egli bramava, aste volaro, 
E tutte andar le feo Pallade a voto. 
L* un de' pungenti frassini la porta 
Percosse, un altro su la soglia cadde, 
Ed un terzo investì nella parete. 
Scansati i colpi, di Laerte il figlio, 
Amici , disse, nello stuol de' Proci , 
Che, non contenti alle passate offese, 
Della vita spogliar voglionci ancora. 
Io crederei che saettar si debba. 

Ciascun la mira di rincontro tolse, 
E trasse d'una lancia. Il divo Ulisse 
Demoptòlemo uccise, e scagliò morte 

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400 ODISSEA ' (V. i 

Telemaco ad Eurìade, a Elato Eumèo, 
Ed a Pisandro il buon Filezio; tutti 
Del pavimento morsero la polve. 
Gli altri nel fondo della sala il piede 
Tiraro indietro: Ulisse e i tre compagni 
Corsero, e svelser dagli estinti Y aste. 
AUor lanciaro novamente i Proci 
Di tutta forza, e tutti quasi i colpi 
Novamente sviò Pallade amica. 
La gran soglia, la porta e la parete 
Li ricevette, o li respinse: solo 
Anfìmedonte tanto o quanto lese 
La destra di Telemaco nel polso, 
E appena ne graffiò la somma cute; 
E la lung' asta di Ctesippo, a Eumèo 
Lo scudo rasentando, e lievemente 
Solcandogli la spalla, il suo tenore 
Seguì, e ricadde sovra il palco morta. 

Ma non cosi dall'altra parte spinte 
Fur centra i Proci le pungenti travi. 
Quella del distruttor di muri Ulisse 
Fulminò Euridamante, Anfimedonte 
Per quella giacque del suo figlio : Eumèo 
Scontrò con la sua Pòlibo, e Filezio 
Ctesippo colse con la sua nel petto, 
E su lui stette alteramente, e disse: 
Politerside, degli oltraggi amante. 
Cessa dal secondar la tua stoltezza. 
Con vana pompa favellando, e ai Numi 
Cedi che di te son molto piti forti. 
Questo è il dono ospitai di quello in merto, 
Che al nostro Re , che mendicava, fosti. 
Alla zampa del bue 1* asta rispose. 
Cosi d'Ulisse T armentario illustre. 

In questo mezzo di Laerte il figlio 
Conquise il Damastòride da presso 

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V. 385400) LIBRO xxir.- - 401 

IJi profonda ferita; 6 a Leocrfto 
Telemaco piantò nel Tentre il telo, 
Che delle reni fuor gli ricomparve. 
L'Envenoride stramazzò boccone, 
E la terra battè con tutto il fronte. 
Pallade allor, che rivestì la Diva, 
Alto levò dalla soffitta eccelsa 
La funesta ai mortali Egida, e infuse 
Ne* superstiti Proci immensa tema. 
Saltavan qua e là, come le agresti 
Madri talvdta del cornuto armento, 
Se allo scaldarsi ed allungar de' giorni, 
Le punge il fiero assillo e le scompiglia. 
Ma in quella guisa che avvoltori il rostro 
Ricurvi, e l'unghia, piombano calando 
Balla montagna, su i minori augelli. 
Che trepidi vorrìano ir vèr le nubi; 
E quei su lor ripiombano, e ne fanno, 
Quando difesa non rimane o scampo. 
Strazio e rapina del villano agli occhi. 
Che di tale spettacolo si pasce : 
Non altrimenti Ulisse e i tre compagni 
Si scagliavan su i Proci, e tale strage 
Ne menavan, che fronte ornai non v'era 
Che non s'aprisse sotto i gran fendenti; 
£ un gemer tetro alzavasi, e di nero 
Sangue ondeggiava il pavimento tutto. 
Leode le ginocchia a prender corse 
Del figliuol di Laerte, e in supplice atto 
Gli drizzò tali accenti: Eccomi, Ulisse, 
Alle ginocchia tue, che di te imploro 
Gli sguardi e la pietade. Io delle donne 
In fatto o in detto non offesi alcuna: 
Anzi gli altri alle sozze opre rivolti 
Di ritenere io fea. Non m'obbedirò: 
Però una morte subitana e acerba 

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402 . ODissBA (v. 401-43»i 

Delle sozze opre lor fu la mercede. 
Ma io, io, che indovin tra i Proci vissi, 
.Io, che nulla commisi unqua di male. 
Qui spento giacerò degli altri al paro? 
É questo il pregio che a virtù si serba? 

E Ulisse, torvi in lui gli occhi fissando: 
Poiché tra i Proci indovinar ti piacque, 
Spesso chiedesti nel palagio ai Numi, 
Che dèi ritorno il di non mi splendesse; 
Che te seguisse, e procreasse figli 
La mia consorte a te: quindi e tu al grave 
Sonno perpetuo chiuderai le ciglia. 
Così dicendo, con la man gagliarda 
Dai suol raccolse la tagliente spada, 
Che Agelao su la morte avea perduta; 
E di percossa tal diede al profeta 
Pel collo, che di lui, che ancor parlava. 
Rotolò nella polvere la testa. 

Ma di Terpio il figliuol, 1* inclito Femio, 
Che tra i Proci sciogliea per forza il canto, 
Morte schivò. Della «econda porta 
Con la sonante in man cetra d'argento 
Vicino erasi fatto, e in due pensieri 
Di videa la sua mente: o fuori uscito 
Sedersi all'ara del gran Giove Ercèo, 
Dove Laerte e il suo diletto figlio 
Molte solean bruciar cosce taurine; 
O ad Ulisse prostrarsi, e le ginocchia 
Stringergli, e supplicarlo; e delle due 
Questa gli parve la miglior sentenza. 
Prima tra una capace urna, e un distinto 
D* argentei chiovi travagliato seggio 
Depose a terra V incavata cetra : 
Poi vèr r eroe si mosse , e le ginocchia 
Stringeagli, e gli dicea con voci alate: 
Ulisse, ascolta queste mie preghiere, 

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(v. i&ì'Al^ LIBRO xxii. 403- 

E di Femio pietà T alma ti punga. 
Doglia tu stesso indi ne avrai, se uccidi 
Uona che agli uomini canta, ed agli Dei. 
Dotto io son da me solo, e non già l'arte. 
Ma un Dio mi seminò canti infiniti 
Nell'intelletto. Gioirai, qual Nume, 
Della mia voce al suono. E tu la mano 
Insanguinar ti vuoi nel corpo mio ? 
Ne domanda Telemaco, il tuo dolce 
Figlio, ed ei ti dirà, che né vaghezza 
Di plauso mai, né scarsità di vitto, 
Tra i Proci alteri a musicar m* indusse. 
Ma co^ molti , co* giovani , co' forti , 
Uom che potea, debile, vecchio e solo? 

Tal favellava; e la sacrata possa 
. Di Telemaco udillo , e ratto al padre , 
Che non gli era lontan , T* arresta, disse, 
E di questo innocente i dì rispetta. 
Medonte ancor, che de' miei giorni primi 
Cura prendea, noi serberemo in vita: 
Sol eh' ei non sia per man d' un de* pastori 
Caduto, e in te dato non abbia, mentre 
Per la sala menavi in furia i colpi. 

L'udì Medonte, il bandi tor solerte, 
Che sdraiato giacca sotto un sedile, 
E , r atro fato declinando, s' era 
D'una fresca di bue pelle coverto. 
Sarse da sotto il seggio, e il bovin cuoio 
Svestissi, e andò a Telemaco, e, gittate 
A* suoi ginocchi ambe le braccia. Caro, 
Gridava, eccomi qua: salvami, e al padre 
Di', che irato co' Proci, onde scemati 
Gli erano i beni, e vilipeso il figlio, 
Non s'inasprì in me ancora, e non m'uccida. 

Sorrise Ulisse, e a lui: Sta' di buon core. 
Già di rischio Telemaco ti trasse, 

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404 ODISSÈA. (v. 473-508) 

E in salvo pose, acciocché sappi, e il narri, 
Quanto piti del far male il ben far torna. - 
Tu, araldo, intanto, e tu, vate immortale, 
Fuor del palagio e della strage usciti, 
Sedete nel cortil , fìnch* io di dentro 
Tutta l'impresa mia conduco a riva. 

Tacque; ed uscirò, e appo l'aitar del sommo 
Giove sedean, guardandosi all'intorno, 
Qual se ad ogni momento, e in ogni loco, 
Dovesse lor sopravvenir la Parca. 

Lo sguardo allora per la casa in giro 
L' eroe mandò, se mai de' Proci alcuno 
Fuggito avesse della morte il fato. 
Non rimanea di tanti un che nel sangae 
Steso non fosse, e nella polve. Come 
Oli abitatori del canuto mare. 
Che il pescator con rete a molti vani 
Su dall'onda tirò nel curvo lido, 
Giaccion, bramando le native spume, 
Per l'arena odiata, e loro il Sole 
Con gì* infiammati rai le anime fura: 
Così giacean 1* un presso 1' altro i ProcL 

Subitamente Ulisse in questa forma 
Si converse a Telemaco: Telemaco, 
La nutrice Euriclèa, su, via, mi chiama, . 
Ciò per udir, che a me di dirle è in grado. 

Ubbidì egli, e incamminossi, e dato 
D'urto alla porta, d'anni carca, disse. 
Sorgi, Eurici èa, che nella nostra casa 
Vegli sovra le ancelle. Il padre mio, 
Che desia favellarti, a sé ti vuole. 

Non sen portava le parole il vento. 
Apri Euriclèa le porte, e in via con lui, 
Che precedeala, entrò veloce, e brutto 
Di polve tra i cadaveri, e di sangue 
Ulisse ritrovò, Qual par leone, 

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(v". 509.544) LIBRO XXII. 40S 

die vien da divorar nel campo un toro, 
E il vasto petto, e Tuna guancia e 1* altra 
Ne riporta^ cruenta, e dalle ciglia 
Spira terror: tale insozzati Ulisse 
Mostrava i piedi, e delle mani i dossi. 
Quella, come i cadaveri ed il molto 
Sangue mirò, volle gridar di gioia 
A spettacolo tal: ma ei frenoUa, 
Benché anelante, e con parole alate. 
Godi dentro di te, disse, ma in voci. 
Vecchia, non dar di giubbilo: che vampo 
Menar non lice sovra gente uccisa. 
Questi domò il destino, e morte a loro 
Le stesse lor malvagitati furo: 
Quando non rispettare alcun giammai, 
Buon fosse o reo, che in Itaca giungesse. 
Dunque a dritto perirò. Or tu, nutrice, 
Di* delle donne a me, quai nel palagio 
Son macchiate di colpa, e quali intatte. 

E la diletta a lui vecchia Euriclèa: 
Figliuol, da me tu non avrai che il vero. 
Cinquanta chiude il tuo palagio, a cui 
Le lane pettinar, tesser le tele, 
E sostener con animo tranquillo 
La servitude, io stessa un giorno appresi. 
Dodici tra costor tutta spogliare 
La verecondia, e, non che me, la stessa 
Dispregiare Penelope. Non era 
Troppo innanzi venuto ancor negli anni 
Il figlio tuo, né su le donne alcuno 
Gli consentia la saggia madre impero. 
Ma che fo io, che alle lucenti stanze 
Non salgo di Penelope, che giace 
Da un Dio sepolta in un profondo sonno? 

Non la destare ancor, rispose Ulisse: 
Bensì alle donne, il cui peccar t* è noto, 

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4Ó& ODISSEA (v. 545 OSO) 

Che a me si rappresentino, dirai. 

La balia senza indugio a invitar mosse 
Le peccatrici, e ad esortarle tutte, 
Che si rappresentassero all' eroe. 
E intanto egli, Telemaco a se avuto, 
E il custode de* verri, e quel de' tori, 
Tai parole lor feo: Le morte salme 
Più non si tardi a trasportare altrove, 
E dell' infide ancelle opra sia questa. 
Poi con Tacqua, e le spugne a molte bocche 
I bei sedili tergeransi e i deschi. 
Tutta rimessa la magione in punto, 
Le ancelle ne trarrete, e poste in mezzo 
Tra la picciola torre, ed il superbo 
Recinto del cortil, tanto co* lunghi 
Le cercherete feritori brandi. 
Che si disciolga dai lor corpi l'alma, 
E dalle menti lor fugga l'immonda 
Venere, onde s' unian di furto ai Proci. 

Ciò detto appena, ecco venire a un corpo 
Le grame, sollevando alti lamenti, 
E una pioggia di lagrime versando. 
Pria trasportar gl'inanimati corpi, 
Che del cortile, aitandosi a vicenda, 
Sotto alla loggia collocare. Instava 
Co' suoi comandi Ulisse; e quelle il tristo 
Ministero compiean, benché a mal cuore. 
Poi con l'acqua, e le spugne a molte bocche, 
I bei sedili si tergeano e i deschi. 
Ma Telemaco, e seco i due pastori 
Con rigide scorrean pungenti scope 
Sul pavimento del ben fatto albergo; 
E la bruttura raccogliean le afflitte 
Donne, e fuori recavanla. Né prima 
Rimessa fu la magion tutta in punto, 
Che frs^ Ig^ torre ed il recinto poste. 

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(v, 581-616) LIBRO xxii. ' '407 

Le xnalvage 8i videro, e in tal guisa 
Serrate là che del fuggir nulla era. 

E Telemaco: Io no, con morte onesta 
Non torrò l'alma da coteste donne, 
Che a me sul capo, ed alla madre, scherni 
Versare, e che s*unian d*amor co* Proci. 

Disse ; e di nave alla cerulea prora 
Canape, che partia da un gran pilastro, 
Grittò alla torre a tale altezza intorno, 
Che le ancelle, per cui gittarlo piacque, 
Non potesser del pie toccar la terra. 
E come incontra, che o colombe, o torde. 
Che il ^erde chiuso d*una selva entrare, 
Van con ali spiegate a dar di petto 
Nelle pendule reti ove ciascuna 
Trova un letto feral: tali a mirarle 
Eran le donne con le teste in fila 
E con avvinto ad ogni collo un laccio. 
Di morte infelicissima strumento. 
Guizzan co' piedi alquanto, e più non sono. 

Telemaco indi, e i due pastori seco 
Nella corte per l'atrio il mal capraio 
Conducean : recideangli orecchie e nari, 
E i genitali, da buttarsi crudi 
Ai can voraci, gli svelleano, e i piedi 
Mozzavangli e le man; tanta fu l'ira. 
Punito al fine ogni misfatto, e mani 
Con pura onda di fonte, e pie lavati, 
Ritorno fér nella magione a Ulisse. 
Questi allor tai parole alla diletta 
Nutrice rivolgea: Portami, o vecchia, 
Il zolfo salutifero ed il fuoco. 
Perchè l'albergo vaporare io possa. 
E Penelope a me con le fedeli 
Sue donne venga; e tu l'altre per casa 
Femmine tutte a qua venir conforta. 

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408 ^ODISSEA (v.- 617-637)! 

Ed ella: Piglio mio, quanto dicesti. 
Io lodo assai. Ma non vuoi tu, che prima 
Manto a coprirti, e tunica, io ti rechi? 
Indegno fora con tai cenci indosso ^ 
Nel tuo palagio rimaner più a lungo. 

Prima il zolfo ed il fuoco, ad Euriclèa 
Rispose il pien d'accorgimenti eroe. 

La nutrice, ubbidendo, il sacro zolfo 
Portogli, e il fuoco prestamente; e Ulisse 
La sala, ed il vestibolo, e il cortile 
Più volte vaporò. Salì frattanto 
Colei le ancelle a confortar, che franche 
Vedere omai si fessero. Le ancelle 
Delle camere uscirò, in man tenendo 
Lucide faci; poscia intorno a lui 
Si spargeano, e abbracciavanlo, ed il capo 
Baciavangli, stringendolo, e le spalle, 
E Tafferravan nelle mani. Ulisse 
Tutte le riconobbe ad una ad una 
Nel consapevol petto, e un dolce il prese 
Di sospiri e di lagrime desio. 



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LIBRO VENTESIMOTERZO 



ARGOMENTO 



Suriclèa corre a destar Penelope, e a farle sapere che Ulisse 
è giunto, ed ha uccisi i Proci. — Penelope tratta, la vec- 
chia da folle, e attribuisce la uccisione de' Proci a un Dio, 
parendole che un uomo non potesse giuDgere a tanto. — 
Tattaria scende, ma tiensi lox^na da Ulisse cui non rav- 
visa. •— èdegno dì Telemaco contra la madre, che si giu- 
stifica. — Ulisse comanda una festa da ballo , perchè i vi- 
cini credan e la Regina sia passata a novelle nozze . e re- 
sti occulta frattanto la morte de* Proci. — Poi entrato nel 
iMigno, e restituitogli da Minerva Tantica sembianza, si pre- 
senta di nuovo a Penelope, che non vuol riconoscerlo an- 
cora. — Finalmente, uditolo ella parlare del coniugale lor 
letto, di cui altri non potea aver contezza, depone tutti i 
suoi dubbi, e alla gioia abbandonasi e all'amore. — Minerva 
prolunga la notte. — Ragionamexkti di Penelope e Ulisse. 
— Sorta r aurora, egli levasi e va col figlio e co' due pa- 
stori a trovar Laerte, passando per la cittèi in una nube, 
di cui gli avvolse, per occultarli, la Dea. 



La buona vecchia gongolando ascese 
Nelle stanze superne, alla padrona 
Per nunzìar, ch'era il marito in casa. 
Non le tremavan più grinvigoriti 
Ginocchi sotto; ed ella a salti giva. 
Quindi le stette sovra il capo, e, Sorgi, . 



410 ODISSEA. (v. 7-42) 

Disse, Penelopèii, figlia diletta, 
Se il desio rimirar de* giorni tutti 
Vuoi co* propri occhi. Ulisse venne, Ulisse 
Nel suo palagio entrò dopo anni tanti, 
E i Proci temerari, onde turbata 
La casa t'era, consumati i beni, 
Molestato il figliuol, ruppe e disperse. 

E Penelope a lei: Cara nutrice, 
or Iddii, che fanno, come lor talenta, 
Del folle un saggio, e del più saggio un folle, 
La ragion ti travolsero. Guastaro 
Cotesta mente, che fu sempre integra. 
Senza dubbio gFIddii. Perchè ti prendi 
Gioco di me, cui sì gran doglia preme, 
Favole raccontandomi, e mi scuoti 
Da un sonno dolce, che abbracciate e strette 
Le mie tenea care palpebre? Io mai, 
Dacché Ulisse levò nel mar le vele 
Per la malvagia innominanda Troia, 
Così, no, non dormii. Su, via, discendi, 
Balia, e ritorna, onde movesti, e sappi, 
Che se tali novelle altra mi fosse 
Delle mie donne ad arrecar venuta, 
E me del sonno scossa, io rimandata 
Tostamente l'avrei con modi acerbi: 
Ma giovi a te, che quel tuo crin sia bianco. 

Diletta figlia, ripigliò la vecchia. 
Io di te gioco non mi prendo. Ulisse 
Capitò veramente, ed il suo tetto 
Rivide al fin: quel forestier da tutti 
Svillaneggiato nella sala è Ulisse. 
Telemaco il sapea: ma scortamente 
I paterni consigli in sé celava, 
Delle vendette a preparar lo scoppio. 
Giubbilò allor Penelope, e, di letto 
Sbalzata, al seno s*accostò la vecchia, 

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(v. 43-78) LIBRO xxiii. 411 

Lasciando ir giù le lagrime dagli occhi, 
E con parole alate, Ah! non volermi. 
Balia cara, deludere, rispose. 
S*ei, come narri, in sua magione alberga, ~ 
Di qual guisa potè solo agli audaci 
Drudi,. che in folla rimaneanvi sempre, 
Le ultrici far sentir mani omicide? 

Io noi vidi, né il so, colei riprese: 
Solo il gemer di quei, ch'eran trafìtti. 
L'orecchio mi feria. Noi delle belle 
Stanze, onde aprir non potevam le porte, 
Nel fondo sedevam turbate il core; 
Ed ecco a me Telemaco mandato 
Dal genitor, che mi volea. Trovai 
Ulisse in pie tra i debellati Proci 
Che giacean Tun su l'altro, il pavimento 
Tutto ingombrando. Oh come ratto in gioia 
La tua lunga tristezza avresti vòlto, 
Se di polve e di sangue asperso e brutto, 
Qual feroce leon, visto l'avessi! 
Or del palagio fuor tutti in un monte 
Stannosi; ed ei con solforati fuochi, 
Ei, che a te m'inviò nunzia fedele, 
La nobila magion purga e risana. 
Seguimi adunque; e dopo tanti mali 
Ambo schiudete alla letizia il core. 
Già questo lungo desiderio antico. 
Che distruggeati, cessa: Ulisse vivo 
Venne al suo focolare, e nel palagio 
Trovò la sposa e il figlio e di coloro, 
Che gli noceano, vendicossi a pieno. 
Tanto non esultar, non trionfare. 
Nutrice mia. Penelope soggiunse. 
Perchè t'è noto, quanto caro a tutti, 
E sovra tutti a me caro, e al cresciuto 
Suo figlio, e mio, capiterebbe Ulisse, 

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412 ' ODISSEA. (v. 79-114; 

Ma tu il ver non parlasti. Un Nume, un Nume 
Fu, che deir opre ingiuste, e de* superbi 
Scherni indegnato, mandò all'Orco i Proci, 
Che dispregiavan sempre ogni novello 
Stranier, buon fosse o reo: quindi perirò. 
Ma Ulisse lungi dall'Acaica terra 
Il ritorno perde, perde la vita. 

Deh quale, o figlia, ti sfuggì parola 
Dalla chiostra de' denti? a lei la vecchia. 
Il ritorno perde, perde la vita. 
Mentre in sua casa, e al focolar suo sacro 
Dimora? Il veggio; chiuderai nel petto 
Un incredulo cor, finché vivrai. 
Se non che un segno manifesto in prova 
Ti recherò: la cicatrice onesta 
Della piaga, che in lui di guerreggiato 
Cinghiai feroce il bianco dente impresse, 
Quella, i piedi lavandogli, io conobbi, 
E volea palesartela: ma egli. 
Con le mani afferrandomi alla bocca, 
D' accortezza maestro, il mi vietava. 
Seguimi, io dico. Ecco me stessa io metto 
Nelle tue forze: s'io t'avrò delusa, 
La morte più crudel fammi morire. 

E di nuovo Penelope: Nutrice, 
Chi le vie degli Dei conoscer puote? 
Né tu col guardo a penetrarle basti. 
Ogni modo a Telemaco si vada, 
E la morte de' Proci, e il nostro to vegga 
Liberatore, un uomo ei siasi o un Nume* 

Detto così, dalla superna stanza 
Scese con mente in due pensier divisa: 
Se di lontano a interrogar l'amato 
Consorte avesse, o ad appressarlo in vece, 
E nelle man baciarlo e nella testa. 
Varcata, entrando, la marmorea .soglia, 

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(v. 115-150j LIBRO XXTII. * '413 

Da quella parte, e contra lui s' assise, 
Dinanzi al foco, che su lei raggiava; 
Ed ei, poggiato a una colonna lunga, 
Sedea con gli occhi a terra, © le parole 
Seinpre attendea della preclara donna. 
Poiché giunti su lui n* eran gli sguardi. 
Tacita stette e attonita gran tempo: 
Il riguardava con immote ciglia, 
E in quel che ravvisarlo ella credea, 
Traeanla fuor della notizia antica 
Gli abiti vili, onde scorgealo avvolto. 
Non si tenne Telemaco, che lei 
Forte non rampognasse: O madre mia, 
Madre infelice, e barbara consorte, 
Perchè così dal genitor lontana? 
Che non siedi appo lui? che non gli parli? 
Nuli' altra fora così fredda e schiva 
Con marito alla patria ed a lei giunto 
Dopo guai molti nel ventesim* anno. 
Ma una pietra per cuore a te sta in petto. 

E a rincontro Penelope: Sospesa, 
Figlio, di stupor sono, ed un sol detto 
Formar non valgo, una dimanda sola, 
E né, quant' io vorrei, mirarlo in faccia. 
Ma s'egli è Ulisse, e la sua casa il tiene, 
Nulla più resta che il mio stato inforsi. 
Però che segni van del nuziale 
Ricetto nostro impenetrabil tratti. 
Ch'esser noti sappiano a noi due solo. 
Sorrise il saggio e paziente Ulisse, 
E converso a Telemaco, La madre 
Lascia, diceagli, a suo piacer tentarmi: 
Svanirà, figlio, ogni suo dubbio in breve. 
Perchè in vesti mi vede umili e abbiette. 
Spregiami, e penetrar non san per queste 
Sino ad Ulisse i timidi suoi sguardi. 

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414 - . ' ODISSÈA. (v; 151-180) 

Noi quel partito consultiamo intanto. 

Che abbracciar sarà meglio, Uom che di vita 

Spogliò un uom solo ed oscuro, e di cui pochi 

Sono i vendicator, pur fugge, e il dolce 

Nido abbandona, ed i congiunti cari. 

Or noi della città tolto il sostegno, 

E il fior dell* Itacese gioventude 

Mietuto abbiamo. Qual è il tuo consiglio? 

E il prudente Telemaco, A te spetta, 
Diletto padre, il consigliar, rispose. 
A te, con cui non v'ha chi d'accortezza 
Contendere osi. Io seguirotti pronto 
In ogni tuo disegno, e men, cred' io, 
Le forze mi verran pria, che il coraggio. 

Questo a me sembra, ripigliava Ulisse. 
Bagnatevi, abbigliatevi, e novelle 
Prenda ogni donna, le più leggiadre vesti. 
Poi con l'arguta cetera il divino 
Cantore inviti a una gioconda danza « 
Acciò chi di fuori ode, o passa, o alberga 
Vicin, le nozze celebrarsi creda. 
Così pria non andrà per la cittade 
Della strage de* Proci il sanguinoso 
Grido, che noi non siam nell* ombreggiata 
Campagna nostra giunti, in cui vedremo 
Ciò che inspirarci degnerà 1* Olimpio. 

Scoltato ed ubbidito ei fu ad un* ora. 
Si bagnar, s'abbigliar, vesti novelle 
Prese ogni donna, e piti fregiata apparve. 
Femio la cetra nelle man recossi, 
E del canto soave, e dell* egregia 
Danza il desio svegliò. Tutta sonava 
Quella vasta magion del calpestio 
Degli uomini trescanti, e delle donne. 
Cui bella fascia circondava i fianchi. 
E tal, che udia di fuor, tra sé dicea: 

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(y. 18'y-222) ' LIBRO xxiii. . ' 415 

Alcun per fermo la cotanto ambita 
Regina ottenne. Trista! che gli eccelsi 
Tetti di quel, cui vergine congiunta 
S' era, non custodi, finch'ei venisse. 
Così parlava; e di profonda notte 
Lo strano caso rimanea tra T ombre. 

In questo mezzo Eurinome cosperse 
Di lucid'onda il generoso Ulisse, 
E del biondo licor V unse, ed il cinse 
Di tunica e di clamide: ma il capo 
D' alta beltade gì' illustrò Minerva. 
Ei da* lavacri uscì pari ad un Nume, 
E di nuovo s' assise, ond' era sorto, 
Alla sua moglie di rincontro, e disse: 
Mirabile, a te più, che all'altre donne, 
Gli abitatori dell' Olimpie case 
Un cuore impenetrabile formaro. 
Quale altra accoglierla con tanto gelo 
L'uom suo, che dopo venti anni di duolo 
Alla sua Patria ritornasse, e a lei? 
Su, via, nutrice, per me stendi un letto, 
Dov'io mi corchi, e mi riposi anch'io: 
Quando di costei 1' alrpa è tutta ferro, 

Mirabil, rispondea la saggia donna. 
Io né orgoglio di me, né di te nutro 
Nel cor disprezzo, né stupor soverchio 
M'ingombra: ma guardinga i Dei mi fero. 
Ben mi ricorda, quale allor ti vidi. 
Che dalle spiaggie d'Itaca naviglio 
Ti allontanò di remi lunghi armato. 
Or che badi Euriclea, che non gli stendi 
Fuor della stanza maritale il denso 
Letto- eh* ei di sua mano un dì costrusse, 
E pelli, 6 manti, e sontuose coltri 
Su non vi getti? Ella così dicea. 
Far volendo di lui V ultima prova, 

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416 onissEA (v. 2234èSy; 

Crucciato ei replicò: Donpa, parola 
T'uscì dai labbri fieramente amara. 
Chi altrove il letto coUocommi? Dura 
Al piti saputo torneria l'impresa. 
Solo un Nume potrebbe agevolmente 
Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno, 
Benchò degli anni in sul fiorir, di loco 
Mutar potria senza i maggiori sforzi 
Letto così ingegnoso, ond'io già fui, 
Nò compagni ebbe ali* opra, il dotto fabbro. 
Bella d' oliva rigogliosa pianta 
Sorgea nel mio cortile i rami larga, 
E grossa molto, di colonna in guisa. 
Io di commesse pietre ad essa intorno 
Mi architettai la maritale stanza, 
E d'un bel tetto la coversi, e salde 
Porte v'imposi, e fermamente attate. 
Poi, vedovata del suo crin l'oliva, 
Alquanto su della radice il tronco 
Ne tagliai netto, e con le pialle sopra 
Vi andai leggiadramente, e v' adoprai 
La infallibile squadra, e il succhio acuto. 
Così il sostegno mi fec*io del letto; 
E il letto a molta cura io ripolii, 
L' intarsiai d* oro, d* avorio e argento 
Con arte varia, e di taurine pelli, 
Tinte in lucida porpora, il recinsi. 
Se a me riman, qual fabbricailo, intatto, 
alcun, succiso dell'oliva il fondo. 
Portello in altra parte, io, donna, ignoro. 
Questo fu il colpo che i suoi dubbi tutti 
Vincitore abbattè. Pallida, fredda. 
Mancò, perde gli spiriti, e disvenne. 
Poscia corse vèr luì dirittamente. 
Disciogliendosi in lagrime; ed al collo 
Ambe le braccia gli gittava intorno, 

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(v. 259-294) LIBRO xxiii. 417 

E baciavagli il capo, e gli dicea: 

Ah ! tu con me non t* adirare, Ulisse, 

Che in ogni evento ti mostrasti sempre 

Degli uomini il più saggio. Alla sventura 

Coadannavanci i Numi, a cui non piacque. 

Che de' verdi godesse anni fioriti 

Li' uno appo l'altro, e quindi a poco a poco 

Li' un vedesse imbiancar dell' altro il crine. 

Ala, se il mirarti, e T abbracciarti, un punto 

Per me non fu, tu non montarne in ira. 

Sempre nel caro petto il cor tremavami. 

Non venisse a ingannarmi altri con fole: 

Che astuzie ree covansi a molti in seno. 

Né la nata di Giove Eiena Argiva 

D'amor sarìasi e sonno a uno straniero 

Congiunta mai, dove previsto avesse 

Che degli Achei la bellicosa prole 

Novamente l'avrebbe alla diletta 

Sua casa in Argo ricondotta un giorno. 

Un Dio la spinge a una indegna opra ; ed ella 

Pria che di dentro ne sentisse il danno. 

Non conobbe il velen, velen da cui 

Tanto cordoglio a tutti noi discorse. 

Ma tu mi desti della tua venuta 

Certissimo segnale : il nostro letto. 

Che nessun vide mai, salvo noi due, 

E Attoride la fante a me già data 

Dal padre mio, quand'io qua venni, e a cui 

Dell'inconcussa nuziale stanza 

Le porte io guardia son , tu quello affatto 

Mi descrivesti; e alfìn pieghi il mio cuore, 

Ch'esser potria, noi vo' negar, più molle. 

A questi detti s'eccitò in Ulisse 
Desio maggior di lagrime. Piagnea, 
Si valorosa donna e sì diletta 
Stringendo al petto. E il cor di lei qual era? 
Odissea Digtzed by Go^le 



418 ODISSÈA* (v. ^295-33« 

Come ai naufraghi appar grata la terra, 
Se Nettuno fracassò nobile nave, 
Che i vasti flutti combatteana, e i venti, 
Tanto che pochi dal canato mare 
Scampar notando a terra, e con le memhra 
Di schiuma e sai tutte incrostate, e lieti 
Sulla terra montar, vinto il periglio: 
Cosi gioia Penelope, il consorte 
Mirando atteuta, né staccar sapea 
Le braccia d'alabastro a lui dal collo. 
E già risorta lagrimosi il ciglio 
Visti gli avria la ditirosea Aurora, 
Se l'occhio azzurro di Minerva un pronto 
Non trovava compenso. Egli la Notte 
Nel fln ritenne della sua carriera. 
Ed entro all'Oceàn fermò l'Aurora, 
Giunger non consentendole i veloci 
Dell'alma luce portator destìeri, 
Lampo e Fetonte, ond'è guidata in cielo 
La flglia del mattin su trono d'oro. 

Ulisse allor queste parole volse 
Non liete alla sua donna: donna, gianto 
Non creder già de' miei travagli il fine. 
Opra grande rimane, immensa, e cui 
Fornir, benché a fatica, io tutta deggio. 
Tanto mi disse di Tiresia l'ombra 
li dì eh* io, per saver del mio ritorno, 
E di quel de' compagni, al fosco albergo 
Scesi di Dite. Or basta. Il nostro letto 
Ci chiama, e il sonno, di cui tutta in noi 
Entrerà l' ineffabile dolcezza. 

E Penelope a lui cosi rispose : 
Quello a te sempre apparecchiato giace, 
Poiché di ritornar ti diero i Numi. 
Ma tu quest'opra, di cui qualche Dio 
Risvegliò in te la rimembranza, dimmi. \ 



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(V. 331-366) ' LIBRO xxiii. 419 " 

Tu non vorrai da me, penso, celarla 
Poscia, e il tosto saperla a me par meglio. 

Sventurata, perchè, l'altro riprese, 
Tal nel Jtuo petto, e sì fervente brama ? 
Nulla io trascenderò : benché goderne 
Certo più, che il mio core, il tuo non deggià. 
L'Ombra ir m'impose a città molte, un remo 
Ben fabbricato nelle man tenendo, 
Né prima il pie fermar, che ad una nuova 
Gente io non sia, che non conosce il mare, 
Né cosperse di sai vivande gusta. 
Né delle navi dalle rosse guance, 
O de'r^mi, che sono ale alle navi, 
Notizia vanta. E mi die un segno il vate. 
Quel dì, che un altro pellegrino, a cui 
M'abbatterò per via, me un ventilabro 
Portar dirà su la gagliarda spalla, 
Allora, infìtto nella terra il remo , 
E vittime perfette a re Nettuno 
Svenate, un toro, un ariete, un verro, 
Riedere io debbo alle paterne case, 
E per ordine offrir sacre ecatombi 
Agli Dei tutti che in Olimpo han seggio. 
Quindi a me fuor del mare, e mollemente 
Consunto al fin da una lenta vecchiezza. 
Morte sopravverrà placida e dolce, 
E beate vivran le genti intorno. 
Ecco il destio <»,he il tuo consorte aspetta. 

Ed ella ripigliò : Se una vecchiezza 
Migliore i Dei promettenti, che tutta 
L'altra etade non fu, t'allegra dunque, 
Q d'ogni angoscia vincitor felice. 

Éurinome frattanto, ed Euriclèa 
Di molli coltri, e di tappeti il casto 
Letto adornavan delle faci al lume. 
Ciò in brev'ora compiuto, a* suoi ripostale 



420 ODISSEO (v. 367-402) 

Euriclèa si ritrasse, ed Eurinòme 

Inver la stanza maritale Ulisse 

Precedeva, e Penelope, tenendo 

Fiaccola in man : poi ritirossi anch*ella : 

E con pari vaghezza i due consorti 

Del prisco letto rinnovaro i patti. 

Telemaco non meno, ed i pastori, 

Fatti i lor pie cessar dalla gioconda 

Danza, e quei delle donne, al sonno in preda 

S'abbandonaro nell'oscura sala. 

Ma Penelope e Ulisse un sovrumano 
De' mutui lor ragionamenti vari 
Che la notte copria, prendean diletto. 
Ella narrava, quanto a lei di doglia 
Die la vista de'Proci, ed il trambusto 
In ch'era la magion, mentre, velando 
La loro audacia dell'amor col manto 
Sempre a terra stendean pecora o bue, 
E dai capaci dogli il delicato 
Vino attigneano. D'altra parte Ulisse 
Que' mali, che in sé stesso, o a gente avversa, 
Sofferti avea pellegrinando, o inflitti. 
Le raccontava: un non so che di dolce 
L'anima ricercavale, ed a lei, 
Finch'ei per tutte andò le sue vicende. 
Non abbassava le palpebre il sonno. 

Tolse a dir come i Ciconi da prima 
Vinse, e poi de* Lotòfagi alla pingue 
Terra sen venne ; e rammentò gli eccessi 
Del barbaro Ciclope, e la sagace 
Vendetta fatta di color tra i suoi , 
Ch'ei metteasi a vorar senza pietade. 
Come ad Eolo approdò, da cui gentile 
Accoglienza e licenza ebbe del pari : 
Ma non ancor gli concedeano i fati 
^.a contrada natia, doudo ^rap^^^gle ^ 



(t. 403*438) Libito xxm. 421 

Subitana procella, e sospirante 
Molto, e gemente, il ricacciò neiralto. 
Quindi Tamaro descriveale arrivo 
Alla funesta dalle larghe porte 
Cittade de* Lestrìgoni, e gli ancisi 
Compagni tanti, e fracassati legni , 
Fuor che uno , sovra cui salvossi appena. 
Gli scaltrimenti descrivea di Circe, 
E il viaggio impensato in salda nave. 
Per consultar del Teban vate l'alma. 
Alla ea^a inamabile di Pluto, 
Dove s'offrirò a lui gli antichi amici, 
Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce 
Poselo, e intese alla sua infanzia cara. 
Aggiunse le Sirene, innanzi a cui 
Passare ardì con disarmati orecchi ; 
E gl'instabili scogli, e la tremenda 
Cariddi e Scilla, cui non vider mai 

I più destri nocchieri impunemente. 
Né l'estinto tacca del Sole armento, 
E la vermiglia folgore di Giove 
Altitonante, che percosse il legno, 

E i compagni sperdè. Campò egli a terra 
Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi 
Calipso, che bramava essergli sposa, 

II ritenea nelle sue cave grotte. 
L'adagiava di tutto, e giorni eterni 
Senza canizie prometteagli : pure 

Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine 
Dopo infiniti guai giunse ai Feaci, 
Che al par d*un Nume l'onorare , e in naye 
Di rame carca, e d'oro, e di vestiti, 
AU'aer dolce de' natii suoi monti 
Rimandarlo. Quest'ultima parola 
Delle labbra gli uscia, quando soave 
Scioglitor delle membra, e d'ogni cura 

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422 ODISSEA ' (v. 439-474] 

Disgombrator ^ sovra lui cadde ir sonno/ 

Ma in questo mez^o la Pup.illeazzura 
Di Laerte il fìgliuol non obliava. 
Come le parve ch'ei goduto avesse 
Di notturna quiete appo la fida 
Moglie abbastanza, incontanente mosse, 
E a levarsi eccitò dall'Oceano 
Sul trono d*òr la ditirosea Aurora , 
Perchè la terra illuminasse, e il cielo. 
Surse allora l'eroe dal molle letto, 
B quesiti accenti alla consorte volse: 
Consorte, sino al fondo ambi la coppa 
Bevemmo del dolor ; tu, che piagnevi 
Il mio ritorno disastroso, ed io, 
Cui Giove, e gli altri Dei, dalla bramata 
Patria volean tra mille affanni in bando. 
Or, che agli Eterni riunirci piacque , 
Cura tu prenderai di quanto in casa 
Restami ; ed io di ciò, che gli orgogliosi 
Proci usurparo a me pj^rte co' doni 
Del popol mio, parte co* miei conquisti, 
Ristorerommi a pieno, in sin che tutte 
Si riempian di nuovo a me le stalle. 
Io nella folta di diverse piante 
Campagna sua corro a veder l'antico 
Genitor, che per me tanto dolora. 
Tu, benché saggia , il mio precetto ascolta. 
Sorto il novello Sol, per la cittade 
Della morte de' Proci andrà la fama. 
Sali nell'alto con le ancelle, e siedi. 
Ed in guisa ivi sta', che non t'accada 
Né voce ad alcun volgere, né sguardo. 

Detto, vestissi le bell'armi, e il prode 
Figlio animava, e i due pastori, e a tutti 
Prendere ingiunse i marziali arnesi. 
Quelli, obbedendo, armavansi, e dischiuse 

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(v. 475-478) hiBKO xxsih 423 

Le porte, usciano : precedeali Ulisse. 
Già si spargea su per la terra il lume ; 
Ma fuor della città tosto li trasse 
Di nubi cinti TAtenèa Minerva. 



LIBRO VENTÉSIMOQDARTO 



ARGOMENTO 



Mercurio conduce all' Inferno le anime de' Proci. ?- Colloquio 
tra l'anima d'Agamennone e quella d'Achille ; e racconto che 
il primo fa de' funerali magnifici del secondo. — Altro col- 
loquio tra lo stesso Agamennone e Antimedonte, che fu dei 
Proci. — Ulisse giunge con Telemaco e i due pastori al 
soggiorno di Laerte suo padre. — Riconoscimento d'Ulisse, 
e gioia di Laerte. — Dolio, vecchio servitor di quest' ulti- 
mo , ritoma dal lavoro con sei figliuoli : altro riconosci- 
mento. •* Frattanto , corsa la fama della morte de' Proci , 
Euplte, il padre d'Antinoo, oocita il popolo a vendicarla. — 
Se gli oppongono Medonte e Aliterse. — Egli nondimeno 
esce co' suoi seguaci della cittK. — Ulisse armasi co' suoi 
pochi, e va loro incontro, combattendo lo stesso Laerte, 
che, incoraggiato da Minerva, lancia centra Eupite il pri- 
mo colpo, e l'uccide. — Ulisse e Telemaco menano strage. 
— Finalmente Minerva , a cui Giove fa cadere un fulmine 
innanzi ai piedi, termine impone al conflitto, e la pace, sotto 
la figura di Mentore, ristabilisce. 



Mercurio intanto, di Cillene il Dio, 
L'alme de' Proci estinti a sé chiamava. 
Tenea la bella in man verga dell'oro, 
Onde i mortali dolcemente assonna, 

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4è4 ' ODISSEA (v. 5-40) 

Sempre che il vuole, o li dissoDua ancora. 
CoD questa conducea i' alme chiamate, 
Che stridendo il seguiano. E come appunto 
Vipistrelli nottivaghi nel cupo 
Fondo talor d'una solenne grotta. 
Se avvien che alcun del sasso, ove congiunti 
L'uno appo l'altro s'atteneano, caschi , 
Tutti stridendo allor volano in folla : 
Così movean gli spirti, e per la fosca 
Via precedeali il mansueto Ermete. 
L'Oceau trapassavano, e la bianca 
Pietra, e del Sole le lucenti porte, 
Ed il popol de' sogni : indi ai vestiti 
D'asfodelo immortale Inferni prati 
Giunser, dove soggiorno han degli estinti 
Le aeree forme e i simulacri ignudi. 

L'alma trovare del Peliade Achille, 
Di Patroclo, d'Antiloco e d'Aiace, 
Che i Danai tutti, salvo il gran Pelide, 
Di corpo superava e di sembiante. 
Corona fean di Peleo al figlio : ed ecco 
Dolente presentarsegli lo spirto 
Dell'Atride Agamennone, cui tutti 
Seguian coloro che d'Egisto un giorno 
Nella casa infedel con lui perirò. 
Primo gli volse le parole Achille: 
Noi credevamti sovra tutti, Atride, 
Della Grecia gli eroi diletto al vago 
Del fulmin Giove, poiché a molta e forte 
Gente imperavi, sotto l'alte mura 
Di Troia, lungo degli Achivi affanno. 
Pur te assalir dovea primo tra quelli. 
Che ritornare, la severa Parca, 
Da cui scampar non lice ad uom che nacque. 
Che non moristi almeno in queir eccelso 
Grado, di cui godevi, ad Ilio innanzi? 

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(y. 41-76) LIBRO XXIV, 425 

Qual tomba i Greci, che al tuo figlio ancora 
Somma gloria saria ne' dì futuri, 
X*^on t'avrianp innalzata? miseranda 
IFine che invece ti prescrisse il fato! 
- Felice te, gli rispondea TAtride, 
li'iglio di Peleo, Achille ai Numi eguale, 
Te, che a Troia cadesti, e lunge d'Argo , 
3E a cui de* Greci e de* Troiani i primi. 
Che pugnavan per te, cadeano intorno ! 
Tu de' cavalli immemore, e de* cocchi, 
Cadaver grande sovra un grande spazio, 
Giacevi in mezzo a un vortice di polve; 
E noi combattevam da mane a sera, 
Né cessava col di, credo, l'atroce 
Pugna ostinata, se da Giove mosso 
Gli uni non dividea dagli altri un turbo. 
Tosto che fuor della battaglia tratto, 
E alle navi per noi condotto fosti. 
Asterso prima il tuo formoso corpo 
Con tepid'acque e con fragranti essenze^ 
Ti deponemmo in su funebre letto; 
E molte sovra te lagrime calde 
Spargeano i Danai, e recideansi il crine. 
Ma la tua madre, il grave annunzio udito ^ 
Del mare usci con le Nereidi eterne, 
E un immenso clamor corse per l'onde, 
Tal che tremarsi le ginocchia sotto 
Gli Achei tutti sentirò. E già salite 
Precipitose avrian le ratte navi, 
S'uom non li ritenea, la lingua e il petto 
Pien d'antico saver, Nestor, di cui 
Ottimo sempre il consigliar tornava. 
Arrestatevi, Argivi, non fuggite. 
Disse il profondo del Nelide sennp, 
O figli degli Achei : questa è la madre , 
Ch'esce dell'onda con Tequoree Dive, 

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426 ' ODISSEA ^ {v. 7T-112) 

E al figliuol morto viene. A lai parole 
Ciascun ristè! Ti circondaro allora 
Del vecchio Nereo le cerulee figlie, 
Lugubri lai mettendo, e a te divine 
Vesti vestirò. Il coro anche plorava 
Delle nove sorelle, alternamente ^ 
Sciogliendo il canto or Tuna, or l'altra; e tale 
lì poter fu delle canore Muse, 
Che un sol Greco le lagrime non tenne. 
Dieci dì e sette, ed altrettante notti, 
Uomini e Dei ti pìangevam del pari: 
Ma il giorno che segui ti demmo al foco, 
E agnelle di pinguedine fiorite 
Sgozzammo, e buoi dalla lunata fronte. 
Tu nelle vesti degli Dei, nel dolce 
Mèle. fosti arso, e nel soave unguento; 
E, mentre ardevi, degli Acaichi eroi 
Molti corser con Tarme intorno al rogo, 
Chi sul cocchio, chi a piedi; ed un rimbombo 
Destossi, che sali fino alte stelle. 
Come consunto la Vulcania fiamma, 
Achille, t'ebbe, noi le candide ossa, 
Del più puro tra i vini, e del più molle 
Tra gli unguenti irrigandole, su l'alba 
Raccoglievamo; e la tua madre intanto 
Portò lucida d'oro urna, che dono 
Dìcea di Bacco, e di Vulcan fattura. 
Entro quest'urna le tue candide ossa 
Con quelle di Patroclo, illustre Achille, 
Giacciono; ed ivi pur, benché disgiunte, 
L'ossa posan dAntiloco, cui tanto 
Sovra tutti i compagni onor rendevi. 
Spento di vita il Meneziade. Quindi 
Massima ergemmo e sontuosa tomba 
Noi, de' pugnaci Achivi oste temuta, 
Su l'Ellesponto, ove più sporge il Udo: 

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(v. 113-148) LI6R0 XXIV,' ' 427 

Perchè chi vive, e chi non nacqae ancora. 
Solcando il mar, la dimostrasse a dito. 
La madre tua, che interrogonne i Numi, 
Splendidi in mezzo il campo al for dell'oste 
Giochi propose. Io molte esequie illustri, 
Dove air urna d* un Re la gioventude 
Si cinge i fianchi, e a lotteggiar s'appresta, 
Vidi al mio tempo: ma più assai che gii altri 
Certami tutti, con le ciglia in arco 
Quelle giostre io mirai, che per te diede 
Si belle allor la piediargentea Teti. 
Così caro vivevi agl'Immortali! 
Però il tuo nome non ni spense teco: 
Anzi la gloria tua pel mondo tutto 
Rifiorirà, Pelide, ognor piti bella. 
Ma io qual prò di cosi lunga guerra 
Da me finita, se cotal ruìna 
Per man d'Egisto, e d'una moglie infame, - 
Pronta mi tenea Giove al mio ritorno? 

Codesti avean ragionamenti, quando 
Lor s'accostò l'interprete Argicida, 
Che de* Proci testé da Ulisse vinti 
L'alme guidava. Agamennone e Achille 
Non prima gli sguardàr, che ad incontrarli 
Maravigliando mossero. L'Atride 
Ratto conobbe Anfìmedonte, il caro 
Figlio di quel Melanio, onde ospizio ebbe 
In Itaca, e così primo gli disse: 
Anfimedonte, per qual caso indegno 
Scendeste voi sotterra, eletta gente, 
E tutti d'una età? Scerre i migliori 
Meglio non si potria nella cittade. 
Nettuno forse vi annoiò sul mare, 
Fieri venti eccitando, e immani flutti? 
v'offesero in terra uomini ostili, 
Mentre buoi predavate, e pingui agnelle ? 

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428 ODISSEA. " (r.' 140184) 

Q per la Patria, e per k care donne 
Combattendo cadeste? A un tuo paterno 
Ospite, che tei chiede, il manifesta. 
Non ti ricorda di quel tempo, ch'io 
Col divin Menelao venni al tuo tetto, 
Ulisse a persuader, che su le armate 
Di saldi banchi e ben velate navi 
Ci accompagnasse a Troia? Un mese intero 
Durò il passaggio per T immenso mare. 
Poiché svolto da noi fu a stento il prode 
Rovesciator delle cittadi Ulisse. 

E di rincontro Anfimedonte: figlio 
Glorioso d'Atrèo, Re delle genti, 
Serbo in mente ciò tutto; e qual reo modo 
Ci toccasse di morte, ora io ti narro. 
D'Ulisse, eh' era di molt' anni assente. 
La consorte ambivamo. Ella nel core 
Morte a noi macchinava, e, non volendo 
Né rifiutar, né trarre a fin le nozze, 
Un compenso inventò. Mettea la trama 
In sottile, ampia, immensa tela ordita 
Da lei^nel suo palagio; e, noi chiamati. 
Giovanetti, dicea, miei Proci, Ulisse 
Senza dubbio mori. Tanto a voi dunque 
Piaccia indugiar le nozze mie, ch'io questo 
Lugubre ammanto per l'eroe Laerte, 
Onde a mal non mi vada il vano stame, 
Pria fornir possa, che la negra il colga 
D'eterno sonno apportatrice Parca. 
Volete voi che mordanmi le Achee, 
Se ad uom, che tanto avea d'arredi vivo, 
Fallisse un drappo, in cui giacersi estìnto? 
Con sì fatte parole il core in petto 
Ci tranquillò. Tessea di giorno intanto 
L'insigne tela, e la stessea^di notte. 
Di mute faci al consapevol raggio. 

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185-220) LIBRO XXIV. . 429 

it triennio cosi nella sua frode 
|!elaya8i, e tenea gli Achivi a bada. 
^la sorgianto il quart'anno, e le stagioni, 
"^scendo i mesi, novamente apparse, 
compiuta de' giorni ogni rivolta, 
'I^oi, da un'ancella non ignara instrutti, 
IPenelope trovammo al suo notturno 
Retrogrado lavoro, e ripugnante 
l?ur di condurlo la sforzammo a riva. 
Quando ci mostrò al fin l'inclito ammanto. 
Che risplendea, come fu asterso tutto, 
Del Sole al pari, o di Selene, allora 
Ulisse, non so donde, un Genio avverso 
Menò al confin del campo, ove abitava 
Il custode de' verri, ed ove giunse 
D'Ulisse il figlio, che ritorno fea 
Dall'arenosa Pilo in negra nave. 
Morte a noi divisando, alla cittade 
Tennero; innanzi il figlio, e il padre dopo. 
Questi in lacero arnese, e somigliante 
A un infelice paltoniere annoso. 
Che sul bastone incurvasi, condotto 
Fu dal pastor de' verri: i più meschini 
Vestiti appena il rìcoprian, nò alcuno. 
Tra i più attempati ancor, seppe di noi, 
Com'ei s'offerse, ravvisarlo. Quindi 
Motteggi e colpi le accoglienze furo. 
Colpi egli paziente in sua magione 
Per un tempo soflfria, non che motteggi. 
Ma come spinto dall' egioco Giove 
Sentissi, l'armi dalla sala tolse, 
E con l'aita del figliuol nell'alto 
Le serrò del palagio. Indi con molto 
Prevedimento alla Reina ingiunse. 
Che l'arco proponesse, e il ferro ai Proci, 
Funesto gioco, che fini col sangue. 

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430 ODISSEA (v. 221-256) 

Nessun di noi del valid'apco il nervo 
Tender potea: che opra da noi non era. 
Ma dell'eroe va in man Tarma. Il pastore 
Nói tutti sgridavam, perchè all'eroe 
Non la recasse. Indarno fu. Telemaco 
Cornandogli recarla, e Ulisse Tchhe. 
Ei, preso in man l'arco famoso, il tese 
Così, e il tirò» che ambo le corna estreme 
Si vennero ad unir: poi la saetta 
Per fra tutti gli anei sospinse a volo. 
Ciò fatto, stette in su la soglia, e i ratti 
Strali versossi ai piedi orrendamente 
Guardando intorno. Antinoo colse il primo, 
E dopo lui, sempre di centra or l'uno 
Tolto, e or l'altro di mira, i sospirosi 
Dardi scoccava, e cadea l'un su l'altro. 
Certo un Nume l'aitava. I suoi compagni, 
Seguendo qua e là l'impeto suo, 
A gara trucidavanci : lugubri 
Sorgean lamenti, rimbombar s'udia 
Delle teste percosse ogni parete, 
E correa sangue il pavimento tutto. 
Così, Atride, perimmo, e i nostri corpi 
Giaccion negletti nel cortil d'Ulisse: 
Poiché nulla ne san gli amici ancora, 
Che dalle tabe a tergerci, e dal sangue 
Non tarderiano, e a piangerci deposti. 
De' morti onor, sovra un funebre letto. 

fortunato, gridò allor l'Atride, 
Di Laerte figliuol, con qual valore 
La donna tua riconquistasti! E quanto 
Saggia e memore ognor dell'uomo, a cui 
Nel pudico suo fiore unita s'era. 
Visse d* Icario la figliuola illustre ! 
La rimembranza della sua virtude 
Durerà sempre, e amabile ne' canti 

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(v, 257-292) LIBRO xxiy. 431 

N^ sonerà per T universo il nome. 
Non così la Tindàride, che osando 
Scellerata opra, con la man, che data 
Vergine aveagli, il suo marito uccise. 
Costei fia tra le genti un odioso 
Canto perenne: che di macchia tale 
Le donne tutte col suo fallo impresse, 
Che le più oneste ancor tinte n'andranno. 

Tal nell'oscure, dove alberga Pluto, 
Della terra caverne, ivan quell'alme 
Di lor vicende ragionando insieme. 

Ulisse, e il figlio intanto, e i due pastori 
Qiunser, dalla città calando, in breve 
Del buon Laerte al poder culto e bello 
De* suoi molti pensier frutto, e de' molti 
Studi e travagli suoi. Comoda casa 
Gli sorgea quivi di capanne cinta, 
Ove cibo e riposo ai corpi, e sonno 
Davan famigli, che, richiesti all'uopo 
Delle sue terre, per amor più ancora. 
Che per dover, servianlo; ed una buona 
Pur v'abitava Siciliana fante. 
Che in quella muta solitudin verde 
De' canuti anni suoi cura prendea. 
Ulisse ai due pastori, e al caro pegno. 
Entrate, disse, nella ben construtta 
Casa, e per cena un de' più grassi porci 
Subito apparecchiate. Io voglio il padre 
Tentar, s' ei dopo una sì lunga assenza 
Mi ravvisa con gli occhi, o estinta in mente 
Gli abbia di me la conoscenza il tempo. 

Detto, consegnò lor l'armi; e Telemaco, 
E i due pastor rapidi entrare. Ulisse 
Del grande orto pomifero alla volta 
Mosse, né Dolio, discendendo in quello, 
Trovò, né alcun de' figli, o degli schiavi, 

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432 ODISSEA (v. 293-328) 

Che tutti a raccor pruni, onde il bell'orto 
D'ispido circondar muro campestre, 
S'eran rivolti; e precedeali Dolio. 
Sol trovò il ^enitor, che ad una pianta 
Curvo zappava intorno. Il ricopria 
Tunica sozza, ricucita e turpe: 
Dalle punture degli acuti rovi 
Le. gambe difendevangli schinieri 
Di rattoppato cuoio, e le man guanti: 
Ma berretton di capra in su la testa 
Portava il vecchio: e cosi ei la doglia 
Nutriva ed accrescea nel caro petto. 
Tosto che Ulisse l'avvisò dagli anni i 

Suoi molti, siccom'era, e da'suoi molti 
Mali più ancor, che dall'età, consunto, 
Lagrime, stando sotto un idto pero, 
Dalle ciglia spandea. Poi nella mente 
Volse e nel cor, qual de' due fosse il meglio, 
Se con amplessi a lui farsi e con baci, 
E narrar del ritorno, il quando e il come, 
interrogarlo prima, e punzecchiarlo 
Con detti forti, risvegliando il duolo. 
Per raddoppiar la gioia; e a ciò s'attenne. 
Si drizzò dunque a lui, che basso il capo 
Tenea, zappando, ad una pianta intorno. 
E, Vecchio, disse, della cura ignaro. 
Cui domanda il verzier, certo non sei. 
Arbor non v'ha, non fico, vite, oliva, 
Che l'abil mano del cuitor non mostri, 
Né sfuggì all'occhio tuo di terra un palmo. 
Altro, e non adirartene, io dirotti: 
Nulla è negletto qui, fuorché tu stesso. 
Coverto di squallor veggioti, e avvolto 
In panni rei, non che dagli anni infranto. 
Se mal ti tratta il tuo signor, per colpa 
Della pigrizia tua non è ciò, penso: 

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(v. 329-364) . LIBRO XXIV. • 4S3 

Anzi tu nulla di servii nel corpo 
Tieni, o nel volto, chi ti guarda Asso. 
Somigli ad un Re nato; ad uom somigli, 
Che dopo il bagno e la gioconda mensa 
Mollemente dormir debba su i letti, 
Com'è l'usanza de' vegliardi. Or dimmi 
Preciso e netto chi tu servi, e a cui 
L'orto governi, e fa' ch'io sappia in oltre, 
Se questa è veramente Itaca, dove 
Son giunto, qual testé colui narrommi, 
Che in me scontrossi, uom di non molto senno, 
Quando né 11 tutto raccontar, né volle 
Me udir, che il richiedea se in qualche parte 
D'Itaca un certo vive ospite mio, 
O morto il chiude la magion di Dite. 
A te parlerò invece, e tu l'orecchio 
Non ricusar di darmi. Ospite un tale 
Nella mia Patria io ricevei, di cui 
Non venne di lontano al tetto mio 
Forestìer mai, che più nel cor m' entrasse. 
Nato ei diceasi in Itaca, e Laerte, 
D'Arcesio il figlio, a genitor vantava. 
Il trattai, l'onorai, l'accarezzai 
Nel mio di beni ridondante albergo, 
E degni in sul partir doni io gii porsi: 
Sette di lavorato oro talenti, 
Urna d'argento tutta, e a fiori sculta, 
Dodici vesti, tutte scempie, e tanto 
Di tappeti, di tuniche di manti; 
E quattro belle, oneste, e di lavori 
Femmine sporte, ch'egli stesso elesse. 

Stranier, rispose lagrimando il padre. 
Sei nella terra di cui chiedi, ed ove 
Una pessima gente ed oltraggiosa 
Regna oggidì. Que' molti doni, a cui 
Ei^ con misura eguale avrìa risposto, 

Oditsea ^ 28, 

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434 ODISSEA' . (y. 365^400) 

Come degno era bene, or, che qui vivo 
Noi trovi più, tu gli spargesti al vento. 
Ma schiettamente mi favella: quanti 
Passaro anni dal dì che ricevesti 
Questo nelle tue case ospite gramo, 
Che, s'ei vivesse ancor, sana il mio figlio? 
Misero ! in qualche parte, e dalla Patria 
Lungi, fu in mar pasto de* pesci, o in terra 
De* volatori preda e delle fere: 
Né ricoperto la sua madre il pianse, 
Né il pianse il genitor; né In dotata 
Di virtù, come d'or, Penelopèa 
Con lagrime onorò l'estinto sposo 
Sopra funebre letto, e gli occhi prima^ 
Non gli compose con mal ferma destra. 
Ciò palesami ancor: chi sei tu? e donde? 
Dove a te la città? la madre, il padre? 
A qual piaggia s'attiene il ratto legno 
Che te condusse, e i tuoi compagni illustri? 
O passeggier venisti in nave altrui, 
E, te sbarcato, i giovani partirò? 

Tutto, riprese lo scaltrito eroe, 
Narrerò acconciamente. Io figlio sono 
Del re Polipemònide Afidante; 
In Alibante nacqui, ove ho un eccelso 
Tetto, e mi chiamo Epirito. Me svolse 
Dalla Sicilia un Genio avverso, e a quesfe 
Piagge sospinse; ed or vicino ai campi. 
Lungi dalla città, stasai il mio legno. 
Volge il quint'anno omai che Ulisse sciolse 
Dalla mia patria. Sventurato! a destra 
Gli volavano allor gli augelli, ed io 
Lui che lieto partì, congedai lieto: 
Quando ambi speravam che rinnovato 
L'ospizio avremmo, e ricambiati i doni. 

Disse, e fosca di duol nube coverse 

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(v. 4Ó1-436) LIBRO xxiv' 435 

La fronte al padre, che la fulva polve 
Prese ad ambo le mani, e il venerando 
Capo canuto se ne sparse, mentre 
Nel petto spesseggiavangli i sospiri. 
Ulisse tutto commoveasi dentro, 
E un acre si sentia pungente spirto 
Correre alle narici, il caro padre 
Mirando attento: al fin su lui gittossi, 
E stretto il si recava in fra le braccia, 
E il baciava più volte, e gli dicea: 
Quell'io, padre, quell'io, che tu sospiri. 
Ecco nel ventesmo anno in Patria venni. 
Cessa dai pianti, dai lamenti cessa, 
E sappi in breve, perchè il tempo stringe, 
Ch'io tutti i Proci uccisi, e vendicai 
Tanti e sì gravi torti in un dì solo. 

Ulisse tu? così Laerte tosto, 
Ta il figlio miol Dammene un segno, e tale, 
Che in forse io non rimanga un solo istante. 

E Ulisse: Pria la cicatrice mira 
Della ferita che cinghiai sannuto 
M'aperse un dì sovra il Parnaso, quando 
Ad Autòlico io fui per quei che in Itaca 
M'avea doni promessi, accompagnando 
Col moto della testa, i detti suoi. 
Gli arbori inoltre io ti dirò, di cui 
Nell'ameno verzier dono mi fosti. 
Fanciullo io ti seguia con ineguali 
Passi per l'orto, e or questo arbore, or quello 
Chiedeati, e tu, come andavam tra loro, 
Mi dicevi di lor l'indole e il nome. 
Tredici peri a me donasti, e dieci 
Meli, e fichi quaranta, e promettesti 
Ben cinquanta filari anco di viti, 
Che di bella vendemmia eran già carche: 
Poiché vi fan d'ogni sorta uve, e l'Ore, 

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436, . omssEA , (v, 437.4'72) 

Del gran Giove ministre, i lop tesori 
Versano in copia su i fecondi tralci. 

Quali dar gli potea segni più chiari t 
Laerte, a cui si distemprava il core, 
E vacillavan le ginocchia, avvolse 
Subito ambe le mani al collo intorno 
Bel figlio; e il figlio lui, ch'era dì spirti 
Spento affatto, a so prese, ed il sostenne. 
Ma come il fiato in seno, e nella mente 
I dispersi pensieri ebbe raccolti, 
O Giove padre, sclamò egli, e voi, 
Numi, voi certo su l'Olimpo ancora 
Siete, e regnate ancor, sa la dovuta 
Pena portar de'lor misfatti i Proci. 
Ma un timore or m' assai, non gl'Itacesl 
Vengan tra poco a queste parti in folla, 
£ méssi qua e là mandino a un tempo 
Be' Cefaleni alle città vicine. 

Sta* di buon core, gli rispose Ulisse, 
Né ti prenda di ciò cura o pensiero. 
Alla magion, che non lontana siede, 
Moviamo: io là Telemaco inviai 
Con Filezio ed Eumèo, perchè allestita 
Prestamente da lor fosse la cena. 

In via, ciò detto, entrare, e, come giunti 
Furo al rural non disagiato albergo, 
Telemaco trovar co' due pastori, 
Che incidea molte carni, ed un possente 
Vino mescea. La Siciliana fante 
Lavò Laerte, e di biond'olio l'unse, 
E d'un bel manto il rivestì: ma Palla, 
Scesa per lui di ciel, le membra crebbe 
Be' popoli al pastore, e di persona 
Più alto il rese, e più ritondo in faccia. 
Maravigliava Ulisse, allor che il vide 
Simile in tutto agl'immortali, e, Padre, 

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(v. 473-508) LÌBRO xxiy. 437 

Disse, opra fa, cred'io, d'iin qualche Nume 
Còtesta tua statura, e la novella 
Beltà, che in te dopo i lavacri io scorgo: 

Oh, riprese Laerte, al padre Giove 
Stato fosse, e a Minerva, e a Febo in grado, 
Che quale allora io fai, che su la terra 
Continental, dé*Cefaleni duce, 
La ben costrutta Nèrito espugnai. 
Tal potuto avess'io con l'arme in dosso 
Starmi al tuo fianco nella nostra casa, 
E i Proci ributtar, quando per loro 
Splendea l'ultimo Sol! Di loro a molti 
Sciolte avrei le ginocchia, e a te sarebbe 
Infinito piacer corso per l'alma. 

Così Laerte e il figlio. E già, cessata 
Dell'apparecchio la fatica, a mensa 
Tutti sedeansi. Non aveano ai cibi 
Stese l'avide man, che Dolio apparve, 
E seco i figli dal lavoro stanchi; 
Poiché uscita a chiamargli era la buona 
Sicula madre, che nodrìali sempre, 
E il vecchio Dolio dall' etade oppresso 
Con amor grande governava. Ulisse 
Veduto, e ravvisatolo, restaro 
Tutti in un pie di maraviglia colmi: 
Ma ei con blande voci, O vecchio, disse. 
Siedi alla mensa, e lo stupor depom. 
Buon tempo è già che, desiando ai cibi 
Stender le nostre mani, e non volendo 
Cominciar senza voi, cen rimanemmo. 

Dolio a tai detti con aperte braccia 
Mosse dirittamente incontro a Ulisse, 
E la man, che afferrò, baciògli al polso, 
Poi così gli dicea: Signor mio dolce, 
S'è ver che a noi, che di vederti brama 
PiU assai, che speme, chiudevam ^^S§^o^ 



438 ODISSEA ' (v; 509-544) 

Te rimenaro al fin gli stessi Numi, 

Vivi, gioisci, d'ogni dolce cosa 

Ti consolino i Dei. Ma dirami il vero: 

Sa la Regina per indizio certo. 

Che ritornasti, o vuoi che a rallegrarla 

Di sì prospero evento un nunzio corra? 

Dolio, ripigliò Ulisse, la Regina 
Già il tutto sa. Perchè t'affanni tanto? 
Il vecchio allor sovra un polito scanno 
Prontamente sedè. Né men di lui, 
Festa feano ad Ulisse i suoi figliuoli, 
E or l'un le mani gli afferrava, or l'altro: 
Indi sedean di sotto al caro padre 
Conforme all'età loro. Ed in tal guisa 
Della mensa era quivi ogni pensiero. 

La fama intanto il reo destin de* Proci 
Per tutta la città portava intorno. 
Tutti, sentite le funeste morti, 
Chi di qua, chi di là, con urli e pianti 
Venian d'Ulisse al tetto, e i corpi vani 
Fuor ne traeano, e li ponean sotterra. 
Ma quei, cui diede altra isola il natale, 
Mettean su ratte peschereccie barche, 
E ai lor tetti mandavanli. Ciò fatto, 
Nel Fòro s'adunar dolenti e in folla. 
Come adunati fur, surse tra gli altri 
Bupite, a cui per Antinòo sua prole. 
Che primo cadde della man d'Ulisse, 
Stava nell'alma un indelebil duolo. 
Questi arringò, piangendo amaramente: 
Amici, qual costui strana fortuna 
Agli Achei fabbricò! Molti, ed egregi. 
Ne addusse prima su le navi a Troia, 
E le navi perdette, ed i compagni 
Seppellì in mar: poi nella propria casa, 
Tornato, altri ne spense, e d'Aide ai regni 

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( V. 545-580) LIBRO XXIV. ^ 439 

Mandò di Cefalenia i primi lami. 

Su, via, pria ch'egli a Pilo, e alla regnata 

Dagli Epei divina Elide ricoyri, 

Vadasi; o infe^mia patiremo eterna. 

Sì, Tonta nostrale' |ituri tempi 

Rimbombar s'udrà o^or, se gli uccisori 

Be' figli non puniamo, e de* fratelli. 

Io certo più viver non curo, e, dove 

Subito non si vada, e la lor fuga 

Non si prevenga, altro io non bramo, o voglio, 

Sadvo che riunirmi Ombra a queirOmbre. 

Così ei, non restandosi dal pianto, 

E la pietade in ogni petto entrava. 

Giunsero allor alla magion d'Ulisse 
Medonte araldo, ed il cantor divino, 
Dal sonno sviluppatisi, e nel mezzo 
Si collocaro. Alto stupore invase 
Tutti, e il saggio Medonte i labbri aperse: 
O Itacesi, uditemi. Credete 
Voi che Ulif<se abbia tolto impresa tale 
Contra il voler de' Sempiterni? Un Dio 
Vidi io stesso al suo fianco, un Dio, che affatto 
Mentore somigliava. Or gli apparia 
Davanti, in atto d'animarlo, ed ora 
Per l'atterrita sala impeto fea. 
Sgominando gli Achei, che l'un su l'altro 
Traboccavano. Disse; e di tai detti 
Inverdì a tutti per timor la guancia. 
Favellò ancor nel Fòro un vecchio eroe, 
Aliterse Mastoride, che solo 
Vedea gli andati ed 1 venturi tempi, 
E che, sentendo rettamente, disse: 
Or me udite, Itacesi. Egli è per colpa 
Vostra che ciò seguì: però che sordi 
Agli avvisi di Mentore, ed a* miei , 
Lasciar le briglie. sovra il collo ^i vostri 

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440 ODISSEA (y. 581-610) 

Figli Ti piacque, che al mal far dirotti 
La davano pel mezzo in ogni tempo, 
Le sostanze rodendo, e ingiuriando 
La casta moglie d'un signor preclaro, 
Di cui sogno parca loro il ritorno. 
Obbeditemi al fin, mossa non fate, 
Onde pur troppo alcun quella sventura, 
Che sarà ito a ricercar, non trovi. 

Tacque ; e s'alzaro i piti con grida e plausi. 
Gli altri uniti rimasero: che loro 
Non gustò il detto, ma seguiano Eupite. 
Poscia chi qua, chi là, correano all'armi. 
Cinti e splendenti del guerrier metallo 
Si raccolser davanti alla cittade 
Quasi in un globo; ed era incauto duce 
Della stoltezza loro Eupite stesso. 
Credea la morte vendicar del figlio, 
E lui, che redituro indi non era, 
Coglier dovea la immansueta Parca. 

Pallade, il tutto visto, al Saturnide 
Si converse in tal guisa : nostro prode. 
Di Saturno figliuol, Re de* Regnanti, 
Mostrami ciò che nel tuo cor s'asconde. 
Prolungar vuoi la guerra e i fieri sdegni? 
O accordo tra le parti, e amistà porre? 

Perchè di questo mi richiedi, o figlia. 
Il nembifero Giove a lei rispose. 
Non fu consiglio tuo, che ritornato 
Punisse i Proci di Laerte il figlio? 
Fa* come più t'aggrada: io quel che il meglio 
Parmi, dirò. Poiché l' illustre Ulisse 
De* Proci iniqui vendicossi, ei fermi 
Patto eterno con gli altri, e sempre regni. 
Noi la memoria delle morti acerbe 
In ogni petto cancelliam: risorga 
Il mutuo amor nella città turbata, 

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(t. 617-652) LIBRO XXIV. 441 

£) v'abbondili, qual pria, ricchezza e pace. 
Con questi detti stimolò la Diva, 
Ch'era per sé già pronta, e che dall'alte 
D'Olimpo cime rapida discese. 

~ Ulisse intanto, che con gli altri avea 
Sotto il campestre di Laerte tetto 
Hinfrancati del cibo ornai gli spirti, 
Esca, disse, alcun fuori, e attento guardi 
Se alla volta di noi vengon gli Achei. 
Subitamente usci di Dolio un figlio, 
E su la soglia stette, e non lontani 
Scorse i nemici. All' armi I All'armi! ei tosto 
Gridò, vicini sono. Ulisse allora, 
Ed il figlio sorgeano, e i due pastori. 
E l'armi rivest;ano; i sei figliuoli 
Rivestianle di Dolio, e poi gli stessi 
Dolio e Laerte. In cosi picciola oste 
Anco i bianchi capei premer dee l'elmo. 
Ratto che armati fur, le porte aperte. 
Tutti sboccare: precedeali Ulisse. 
Nò di muover con lor lasciò la figlia 
Di Giove, Palla, a Mentore nel corpo 
Tutta sembiante, e nella voce. Ulisse 
Mirella, e n'esultava, e vòlto al figlio^ 
Telemaco, dicea, nella battaglia, 
Ove l'imbelle si conosce, e il prode, 
Deh non disonestàr la stirpe nostra, 
Che per forza e valor fu sempre chiara. 

E Telemaco a lui: Padre diletto, 
Vedrai, spero, se vuoi, eh' io non traligno. 

Gioì Laerte, ed esclamò: Qual Sole 
Oggi risplende in cielo, amati Numi! 
Gareggian di virtù figlio e nipote. 
Giorno più bello non mi sorse mai. 

Qui l'appressò con tali accenti in bocca 
La Diva che ne' begli ocohi azzurreggia: 

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442 ODISSEA.. (v, 653-688) 

d'Arcesio fìgliuol,- che a me. più caro 

Sei d'ogni altro compagno, a Giove alzati 

Prima e alla figlia dal ceruleo sguardo , 

Devotamente i prieghi tuoi, palleggia 

Cotesta di lunga ombra asta, e l'avventa. 

Cosi dicendo, una gran forza infuse 

In Laerte Minerva. 11 vecchio, a Giove 

Prima, e alla figlia dal ceruleo sguardo. 

Alzati i prieghi, palleggiò la lunga 

Sua lancia, ed avventolla, e in fronte a Eupite, 

Il forte trapassando elmo di rame. 

La piantò, e immerse: con gran suono Eupite 

Cadde, e gli rimbombar l'armi di sopra. 

Si scagliaro in quel punto Ulisse e il figlio 

Contra i primieri, e con le spade scempio 

Ne feano, e con le lancio a doppio filo. 

E già nessuno alla sua dolce casa 

Tornato fora degli Achei, se Palla, 

Dell* Egioco la figlia, un grido messo. 

Non mutava i lor cuori: Cittadini 

D'Itaca, fine all'aspra guerra. Il campo 

Lasciate tosto, e non più sangue. Disile: 

Ed un verde pallor tinse ogni fronte. 

L'armi scappavan dalle man tremanti. 

D'aste coverto il suolo era e di brandi. 

Levata che Minerva ebbe la voce; 

E tutti, avari della cara vita. 

Alla città si rivolgeano. Ulisse 

Con un urlo, che andò sino alle stelle, 

Insegula ratto i fuggitivi, a guisa 

D'aquila tra le nubi altovolante. 

Se non che Giove il fulmine contorse; 

E alla Sguardo azzurrina innanzi ai piedi 

Cascò l'eterea fiamma. generoso. 

Così la Diva, di Laerte figlio, 

Contienti, e fr^na il desiderio ardente 

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(v- 6SD-696) LIBRO XXIV. 443 

I>ella guerra^ che a tutti ò sempre grave,, 
Non contro a te di troppa ira a* accenda 
JLi*ampiovcg^ente di S^iturno prole. 

Obbedì Uiisse, e s'alle^^rò nel!" alma- 
Ma eterno poi tra le duo parti accordo 
La figlia strinse delTegioco Giove, 
Che a Mentore nel corpo e nella voce 
Rassomigliava, la gran Dea d'Atene, 



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FlNB. 



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INDICE 



Libro Primo . 

— Secondo 

— Terzo . 
— » Quarto . 

— Quinto • 

— Sesto . 

— Settimo . 

— Ottavo . 
-^ Nono . 
-i. Decimo . 

— Decimoprìmo. 
M Decimosecondo 
— • Decimoterzo 

— Decimoquarto 
>^ Decimoquinto 
-» Decimosesto • 

— Decimosettimo 

— Decimottayo . 
— « Decimonono • 

— Ventesimo . 

— Ventesimoprimo 
»— Yentesimosecondo 

— Yentesimoterzo 

— Yentesimoquarto 



Pag. 



5 
22 
M 38 

w 57 
w 87 
h106 
.« 119 
H 132 
H 154 
H 175 
M 195 
h218 
^235 
m250 
» 268 



H 304 
N 825 
f«340 
m361 
« 375 
.«390 
.«409 
h423 



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THE NEW YORK PUBLIC LIBRAI 
RBPSRENCB PBPARTMBNT 



Tlii» book li under no oiromn^tances t^ 
takea frciftì die Builduig 











































































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